lunedì 12 maggio 2025

MEDICI COME PAZIENTI: su ME/CFS, Long-COVID, Lyme cronica, PAIS

Solitamente non parlo di film in questo blog, ma solo di programmi televisivi, ma in questo caso faccio un’eccezione perché il film documentaristico in questione, uscito solo qualche giorno fa, è su YouTube e riguarda la patologia di cui soffro io e di cui oggi si celebra la giornata mondiale di sensibilizzazione.

Doctors as Patients, Medici come Pazienti cioè, tratta perciò di Encefalomielite Mialgica/Sindrome da Fatica Cronica (ME/CFS), ma anche di Long-COVID, Lyme cronica, PAIS (Sindromi infettive post-acute) ed è firmato da Anil van der Zee, lui stesso un paziente, che ne ha curato regia e montaggio.

La particolarità? Come è facile intuire dal titolo, a parlare sono medici che sono diventati loro stessi pazienti e hanno dovuto abbandonare il lavoro a pausa del proprio stato di salute. Si tratta di una prospettiva originale, che non mi risulta mai adottata prima, e molto efficace. Sappiamo di medici che soffrono della nostra patologia, e talvolta ne parlano anche da pazienti, ma spesso, anche per ragioni professionali, dal momento che si tratta di una disabilità invisibile, preferiscono non fare coming out, per così dire, come malati. Lo stigma è ancora profondo. Rispetto chi per ragioni varie preferisce non dirlo, ma applaudo chi ha il coraggio di farlo. Forte della propria competenza professionale la loro testimonianza ha più peso.

Vengono loro poste diverse domande, a cui rispondono proprio dalla loro prospettiva particolare di professionisti della salute. In ogni caso, con un linguaggio accessibile. Uno degli elementi di maggiore impatto è proprio quello che è stato scelto come esergo del film, ovvero

“Ho imparato di più quando sono stata promossa a paziente”

- Jolien Plantinga, medica di medicina generale

L’originale è in olandese, ma è ora disponibile anche con i sottotitoli in italiano. La traduzione nella nostra lingua l’ho fatta io stessa: https://youtu.be/J0ywwLIfH_w

giovedì 8 maggio 2025

SOMEBODY SOMEWHERE: una potente, intima terza e ultima stagione

Ha chiuso i battenti con una spettacolosa terza stagione Somebody Somewhere, con il suo tono agrodolce, sempre sul confine fra lo spezzarti il cuore e il farti ridere.

In “Margarini” (3.01) ci sono grandi cambiamenti per la gran parte dei personaggi: Joel (Jeff Hiller), il migliore amico della protagonista, decide di andare a vivere con il suo innamorato Brad (Tim Bagley), la sorella Tricia (Mary Catherine Garrison) ha divorziato ed esce con vari uomini, l’amico Fred Rococo (Murray Hill) ora che è sposato deve mettersi a dieta per la salute e non può più incontrarla al solito locale dove pranzavano insieme, perfino la fattoria del padre ora è stata data in affitto a qualcun altro, un europeo dei Paesi nordici, Víglundur 'Iceland' Hjartarson (Ólafur Darri Ólafsson). Tutti hanno qualcosa da fare e Sam (Bridget Everett) rimane da sola. Viene tentata di adottare un cane, ma alla fine anche quello le sfugge.

La serie è stata ancora una volta la celebrazione dell’amicizia e dell’amore in senso ampio, familiare ed amicale prima ancora che romantico, con momenti toccanti come quello in cui Brad canta a Joel una canzone d’amore. Mai a suo agio nell’esprimere i propri sentimenti, chiede a Sam di insegnarglielo e alla fine è lei a cantare lì dove lui non è in grado di farlo. O in chiusura, quando nella series finale (“AGG”, 3.07) sono tutti riuniti proprio per celebrare l’amicizia reciproca, e ancora una volta Sam canta, mostrando il potere comunicativo, evocativo, liberatorio, catartico di questa forma di espressione vocale. E il balsamo che è la condivisione lo si vive attraverso il rapporto Sam-Joel, come in passato, ma anche attraverso la crescente intimità emozionale con la sorella, che sia quando lei si becca la clamidia o quando la difende credendola offesa da un uomo che le interessa, “Iceland”, che ha affittato la fattoria del padre.

L’amicizia è la forma ultima di riscatto e di salvezza dalla scarsa autostima che Sam si porta dentro. Ci viene ricordato  ̶  in “Nums Num” (3.05) ad esempio, la puntata di Thanksgiving  ̶  che non conosciamo mai l'interiorità altrui e quali emozioni ci possano essere subito sotto la superficie. Ci sono momenti in cui la nudità fisica di Sam, a una visita medica, è anche metaforica. La dottoressa le dice che ha zuccheri e colesterolo troppo alti, artrite a un ginocchio, che deve dimagrire: è come se Sam percepisse che tutti le dicono che lei non va bene, che c’è qualcosa di sbagliato in lei. Le piace “Iceland”, e a lui piace lei, ma la sua insicurezza le fa credere che nel momento in cui lui dovesse conoscerla sul serio non gli piacerebbe più, e così auto-sabota una possibilità di felicità. È attraverso uno scambio molto umano, terribilmente reale con persone che ci tengono a lei che questa cruda vulnerabilità viene a galla e si prova a superarla. Con rispetto e amore. Attraverso gli occhi altrui impara a volersi bene e a prendersi cura di se stessa. E quanto coraggio ci vuole.

Sono contenta che, pur nelle difficoltà, abbiano deciso di mostrare Sam che ha interesse per un uomo. Qualche critico l’aveva letta come lesbica solo perché non stava con qualcuno e aveva amici tutti fondamentalmente della comunità LGBTQ+. Lo avevo trovato stereotipico e ingannevole, nel senso che nulla si era detto in tal senso e poteva essere asessuale, o semplicemente senza qualcuno per le motivazioni più varie. La verità delle persone è più varia e indefinita delle categorie in cui vogliamo infilarle, e sono stata proprio contenta di vedere che il fatto di non averla vista con un uomo e con amicizie “queer” (nel senso non offensivo del termine) non sia stato fatto equivalere a un’identità necessariamente tale.

Si riesce ad essere grandi e potenti nelle vicende minime e apparentemente ininfluenti. Scrive bene Kathryn VanArendonk su Vulture, quando dice: “Non succede quasi nulla, ed è per questo che Somebody Somewhere è la migliore serie televisiva di quest'anno e uno dei grandi show televisivi di quest'epoca. Fa esattamente tutto nel modo sbagliato, secondo le attuali regole della televisione. La maggior parte delle serie recenti deve giustificare la propria esistenza con le dimensioni: la grandezza delle star, la proprietà intellettuale, il budget, la reputazione dello showrunner, l'universo narrativo collegato, la posta in gioco. Somebody Somewhere è minuscola: una storia splendida, introspettiva e intima su una donna con problemi devastantemente banali, il cui ostacolo principale è il suo stesso doloroso senso di dolore e dislocazione. (...) Le sue vittorie e le sue complicazioni rimangono sviluppi modesti, insignificanti per i  tipici standard televisivi e monumentali sulla scala della vita quotidiana (un divorzio, una tempesta, una conversazione difficile, una morte)”.

La nota di speranza e di gioia con cui termina la serie è proprio quella del quotidiano esserci gli uni per gli altri, condividendo dolori e gioie: è la vita. Mi unisco al loro brindisi.