NB. Nei primi due
paragrafi ci sono SPOILER rispetto agli avvenimenti della terza stagione, ma nei
paragrafi successivi c’è solo una riflessione sulla serie in toto, che può
essere letta anche separatamente.
Era terminata con un
colpo di scena che aveva istantaneamente allargato la mitologia del programma la
seconda stagione di Orphan
Black: esistevano i Castor, cloni maschili (interpretati da Ari Millen),
organizzati militarmente. E la terza
stagione, per quanto sia partita su questo fronte un po’ lentamente, è
stata costruita idealmente proprio su di loro, anche se di fatto sono stati
esplorati poco: nati con un difetto che porta a problemi neurologici seri e
alla morte, sono stati in cerca del Castor originale per poter trovare, grazie
al suo genoma, una cura per sé. Il colpo di scena maggiore della terza stagione
perciò in fondo c’è stato con il sottofinale (3.09), con l’attesa rivelazione
che l’Originale è Kendall Malone, la madre di Ms S (Maria Doyle Kennedy), che
ha in sè due linee cellulari diverse e ha dato pertanto origine tanto ai Castor
quanto alle Leda. La finale (3.10), che ci ha regalato una tecnicamente
meravigliosa cena di famiglia in risposta al ballo di gruppo dell’anno
precedente, è stata quasi anticlimatica, pur avendo avendoci lasciati con una Delphine
(Évelyne
Brochu) possibilmente morta, dopo che le hanno sparato, e il ritorno a tutta
forza dei Neoluzionisti, uno dei cui leader si è rivelata essere la madre di
Rachel, finora creduta morta, prima di chiudersi con una affettuosa riunione sulla
neve di Sarah con Kira (Skyler Wexler). L’immagine incapsula un grande tema di
questa stagione, quello della maternità, ripreso su più fronti - si pensi, oltre
alle genitrici appena citate in questo paragrafo, anche a quella temibilissima
dei Castor, la dottoressa Virginia Coady (Kyra Harper), scienziata.
Il personaggio di Sarah
è stata, come e più che in passato, il maggior fulcro delle vicende, insieme a Helena, la più ferale, pazza e vulnerabile
delle creature. La memorabile citazione di questa stagione viene proprio da
lei, poco prima che faccia una strage: “You should not threaten babies” (Non dovreste minacciare i bambini) (3.09).
Solo a ricordarla, pronunciata con aria
minacciosa col suo distintivo accento ucraino, fa venire da ridere – e si può
contare solo su Orphan Black probabilmente
per far ridere a questo modo su un pluriomicidio; Cosima ha iniziato una
relazione con Shay (che per un nanosecondo si è creduta una talpa dei Castor,
ma che certamente nasconde qualcosa che verrà fuori nella prossima stagione); Alison,
e Donnie (Kristian Bruun), con la campagna elettorale di lei e la presa in
gestione del Bubbles come copertura della loro attività di spacciatori di droga
(con tanto di citazione di Breaking Bad)
sono stati usati alla fine solo come sollievo comico, e non è dispiaciuto,
anche se questo li ha un po’ isolati rispetto al resto delle vicende. Tatiana
Maslany, oltre a loro e a Rachel (e a Beth), quest’anno ha anche continuato il
suo tour de force con un memorabile nuovo clone aggiunto alla lista che mi
auguro abbia maggior rilievo in futuro, Krystal. È perfino sorprendente
quanto riesca ancora ad essere fresca e originale.
Quello che mi colpisce ancora
una volta è quanto femminile sia questo programma. Non solo le protagoniste
principali sono donne, ma lo sono anche personaggi minori che facilmente
avrebbero potuto essere pensati come ruoli maschili. Ho perfino pensato: “questa
è la regola per gli uomini, aspettarsi personaggi del proprio genere sessuale
di appartenenza in così grande quantità”. Come è strano, e in fondo triste e
vergognoso, che io come donna invece non ne sia abituata. Qui non mancano sicuramente
gli uomini, e hanno anche bei personaggi - Felix (Jordan Gavaris); Paul (Dylan Bruce),
che in questa stagione sacrifica la vita per amore di Sarah; Scott (Josh Vokey);
Donnie… - ma sono secondari.
Il New York Times, in un
articolo che caldeggio, ha proprio riflettuto su come la serie, al di là
del tema di base più ovvio della natura vs cultura, estenda questa stessa
riflessione su questioni di genere, e diventi una meditazione sulla
femminilità. “Che aspetto ha la stessa identica donna se la cresci della
capsula di Petri di ‘Desperate Housewives’ o in un film horror ambientato nell’Europa
dell’Est? E in un poliziesco procedurale? Il risultato è una rivelazione: invece
di esistere ciascun archetipo come personaggio femminile solitario nel proprio
rispettivo universo, questi tropi normalmente isolati si trovano, si alleano e
cercano di liberarsi dal sistema malvagio che le ha create”. E “(s)strutturando
la storia intorno alle differenza dei cloni, ’Orphan Black’ sembra suggerire
che la monotona uniformità imposta sugli archetipi femminili esistenti deve
morire”. Non è sufficiente prendere un prototipo di donna e semplicemente cambiarle
la pettinatura per avere un nuovo personaggio.
Non sono la tua
proprietà, non sono il tuo esperimento, non sono la tua arma, non sono il tuo giocattolo:
queste frasi accompagnavano le locandine della terza stagione della serie,
ciascuna sull’immagine di uno dei cloni. Questo evidenzia l’altra grande attualissima
tematica politica affrontata dalla serie, quella sul corpo femminile e sul suo
possesso e determinazione. Nel sopracitato articolo Graeme Manson, ideatore del
programma, è esplicito nel collegare le vicende alle questioni femministe: “A
chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla
la riproduzione?” I cloni si battono di continuo per controllare la propria
vita, il proprio corpo, la propria fertilità, e con questo la propria umanità,
contro chi dall’esterno vede in loro solo il valore si proprietà intellettuale,
corpi che possono essere monitorati, regolati, fecondati, sterilizzati…
A me è tornato in mente
il titolo di una famosa raccolta di scritti femministi degli anni Settanta
curata da Robin Morgan, Sisterhood is
Powerful, perché in effetti la Sorellanza è Potente in Orphan Black. Sono donne che si aiutano,
diventano sorelle, famiglia l’una per le altre ed è questo ciò che consente
loro di respingere gli attacchi esterni e preservarsi. Fanno rete. “Seestra” (o
“”Sistra” se si preferisce la traslitterazione all’italiana) dice Helena per
riferirsi alle altre: “Sorella”. I personaggi non sono soli, ma contano sull’aiuto
reciproco anche nelle più estreme o bizzarre circostanze. E possono convivere e
condividere i propri rispettivi universi senza necessariamente entrare in
conflitto.
Per riprendere un’ultima
volta l’articolo firmato da Lili Loofbowrow, il programma nel far coesistere
vari universi femminili offre anche una metacritica ai generi che gestisce,
rifiutandosi di metterli in opposizione l’uno all’altro, ma integrandoli. Orphan Black è insomma una serie dalla
trama molto asciutta e tesa, che si perde poco in considerazioni a margine,
apparentemente, ma nondimeno le storie riverberano in notevolissime e
importanti riflessioni.
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