lunedì 28 gennaio 2019

ROSWELL, NEW MEXICO: un remake insipido



È tiepida la reazione a Roswell, New Mexico, nuovo adattamento della serie di libri Roswell High di Melinda Metz, già divenuta una serie di culto dal titolo Roswell alla fine degli negli anni ’90 grazie a Jason Katims. In questa incarnazione sviluppata da Carina Adly Mackenzie per la CW si preme molto l’acceleratore e in modo esplicito sulla metafora dell’immigrazione, così come Streghe lo ha fatto con il femminismo. Non si va tanto per il sottile e il muro voluto da Trump per tenere lontani i centro e sud americani viene nominato prima di raggiungere il traguardo dei 10 minuti, così come le invettive del locale intrattenitore radiofonico contro gli alieni sono copiate senza difficoltà da quelle rivolte con troppa facilità dagli ispano-americani da politici e opinionisti vari nella vita vera. Sempre di alieni insomma tratta, che siano terrestri o extraterrestri.

Siamo appunto a Roswell, in New Mexico. Liz Ortecho (Jeanine Mason), una ricercatrice biomedica, figlia di immigrati illegali, torna a casa da Denver, dove lavorava a un progetto sperimentale di medicina rigenerativa, dopo 10 anni di assenza. Mentre si trova nella tavola calda a tema alieno gestito dal padre, le sparano e muore. Max (Nathan Parsons, General Hospital), innamorato di lei dai tempi del liceo e ora vice-sceriffo, la fa rivivere, finendo poi per rivelare un segreto custodito da anni: è in realtà un alieno, arrivato  sulla terra quando alla fine degli anni ’40 sono lì precipitati degli UFO, e non è il solo: come lui, ma con poteri diversi, ci sono anche Isobel (Lily Cowless, figlia di Christine Baranski di The Good Fight e lo scomparso Matthew Cowles, per chi si ricorda di Eban Japes in Quando si Ama), che a parte legare e dominare sessualmente il suo partner non è ben chiaro in partenza che cosa faccia, che è cresciuta con lui come sorella dalla coppia che li ha adottati, e il ribelle Michael (Michael Vlamis), cresciuto da famiglie in affido, attratto da Alex (Tyler Blackburn, Pretty Little Liars), un veterano di guerra. Max si confida con Liz che giura di mantenere il segreto. Quello che non vuole sappia però (e che cosa sia non lo sappiamo nemmeno noi) è che cosa è realmente capitato alla sorella gemella di lei, Rosa, morta anni prima. A Kyle Valenti (Michael Trevino), ex-ragazzo di Liz dei tempi del liceo ora chirurgo, pure viene rivelata la presenza di alieni fra noi, ma dal sergente maggiore Jesse Manes (Trevor St John), che intende dar loro la caccia. Liz tornata in città ritrova anche una delle sue migliori amiche, Maria (Heather Hemmens).

Dal pilot si direbbe che tutti i pezzi sono al posto giusto, ma in qualche modo manca magia, questo perché è assente una buona chimica fra i protagonisti principali. In una scena del pilot potenzialmente molto bella e romantica  Max “si fonde” con Liz per farle vedere come ricorda il loro primo incontro, e subito dopo c’è un bacio mancato perché lui non vuole forzarla in un momento in cui sa che emotivamente i sentimenti di lei  sono solo un eco dei propri; lei gli dice che allora lo bacerà dopo una settimana, quando cioè il sentimento sarà autenticamente suo, non il riflesso della “fusione” che ha appena vissuto. Sulla carta, e nella recitazione, è inoppugnabile, la premessa di una grande storia d’amore, ma la sensazione nel vederlo è che sia posticcio, poco autentico, fiacco e insipido. Lo stesso si può dire dei protagonisti nella loro versione professionale: poco credibili.

Julie Plec, qui regista del pilot e produttrice esecutiva, esperienza di storie alla The Vampire Diaries ne ha molta, quindi ci si può aspettare che si segua almeno in parte quel modello, con una narrazione solida e colpi di sena già ben programmati. I protagonisti sono un po’ cresciuti e addio angosce adolescenziali, benvenuta allegoria politica: integrazione, assimilazione, appartenenza e che cosa significano e  comportano. Non sarà entusiasmante o sottile, ma accettabile e rilevante sì.

domenica 20 gennaio 2019

PURE: comunità mennonita e spaccio di droga


È stata un crescendo la costruzione di Pure, serie della canadese CBC, rinnovata per una seconda stagione da WGN America. Dopo un pilot lento e poco denso si sarebbe stati tentati di gettare la spugna, ma al termine delle sei puntate si vogliono rivedere i personaggi scritti da Michael Amo con la regia di Ken Girotti.

Siamo in una comunità mennonita canadese. Il nuovo pastore locale, Noah Funk  (un Ryan Robbins che ben trasmette la mite intensità e la lacerazione del protagonista) viene coinvolto suo malgrado in un giro di criminalità legata allo spaccio di droga con un boss di stanza in Messico, Eli Voss (Peter Outerbridge). Cercano di aiutarlo la moglie Anna (Alex Paxton-Beesley) e il fratello Abel (Gord Rand).  Per proteggere la propria famiglia e i fedeli che vedono in lui una guida, decide di collaborare con la polizia  per raccogliere prove e assicurare alla giustizia i criminali tornando a una vita di lavoro, servizio e preghiera. Bronco Novak (AJ Buckley), che da ragazzo era interessato a sua moglie, lo arruola come informatore per la DEA, i cui contatti vengono gestiti dall’agente texana Phoebe O’Reilly (Rosie Perez). La figlia di Noah, Tina (Jessica Clement), che è interessata sentimentalmente al figlio di Bronco, con cui va a scuola, Ben (Aaron Hale), scopre molto della situazione, diversamente dal fratello Isaac (Dylan Everett) che, pronto per il battesimo, ambisce a una vita negli ideali in cui lo hanno cresciuto.

Ispirata da un reale ring di operazioni di contrabbando di marijuana e cocaina  fra gruppi mennoniti del Messico e del Canada, la serie ha ricevuto critiche dalla comunità di appartenenza perché li metteva in cattiva luce sulla base di disdicevoli eventi di cronaca, vedendo in questo alla fine un’occasione di apprendimento – “Chiaramente, non siamo immuni dallo stereotipare altri gruppi. Spero che Pure ci aiuti a riflettere su quello che stiamo provando. Spero che ci renda più consapevoli di quello che noi stessi presumiamo degli altri”, scrive Dan Dyck, direttore delle relazioni e comunicazioni della Chiesa Mennonita del Canada (qui).

Un altro motivo di scontento è stato che la serie si permette troppe licenze poetiche nella rappresentazione della vita (i mezzi di trasporto, gli abiti, il rapporto con la tecnologia…) e del credo religioso. Uno storico dei Memmoniti, Sam Stainer – le sue recensioni di ciascuna puntata si possono trovare sul suo sito a partire dalla prima – critica ad esempio il fatto che si confondono gruppi religiosi diversi, mischiando i Mennoniti del Vecchio Ordine con gli Amish del Vecchio Ordine e Mennoniti Low German. C’è stata però ricerca alla base: gli attori parlano anche il Low German usato nella realtà, con sottotitoli in inglese. E gli autori si sono difesi dall’accusa dicendo che è stata una scelta volontaria, di tipo etico, per non implicare nessuna autentica comunità nelle vicende della finzione e infatti la “colonia” da loro rappresentata, quella degli Edenthaler, non esiste.

Quale sia la scelta morale più giusta, in queste circostanze, è difficile a dirsi, ma certo questo è un buon terreno di riflessione in proposito. Io personalmente tenderei a trovare più adeguata una rappresentazione veritiera di uno specifico gruppo, anche lì dove lo dipingesse in modo negativo, pur capendone i rischi connessi. È più probabile che dia credito a quello che vedo nei termini della loro dottrina, che non che corra il rischio di estendere il marciume di un gruppo a tutti gli altri. Anche perché se ho deciso di  dare una possibilità alla serie non è certo per vedere l’ennesima storia di spaccio di droga – già di suo argomento di scarso interesse per me, figurarsi con tutte quelle che già ci sono – ma per scoprire, antropologicamente potremmo dire, una cultura marginale che mi intriga.

La curata cinematografia ben esalta le bellezze scenografiche della Nova Scotia, dove sono state fatte le riprese, sebbene l’ambientazione sia di fatto nell’Ontario rurale. Le vicende prendono il via con l’esecuzione di una famiglia Messicano-Mennonita in fuga. Il bimbo Ezechiel riesce a fuggire e viene accolto dalla colonia locale guidata da Funk, ma la famiglia Epp, che lavora con Voss, vuole riprendersi il bambino. Le vicende sono lente, impantanate, e sono più le relazioni personali, e in particolare l’attrazione nascente fra Tina e Ben, a  costituire ragione di interesse. Nel corso della storia però si cresce, in spessore emotivo anche, con due puntate conclusive davvero appassionanti. A questo punto, la psicologia di primari e comprimari è ben delineata, e ci sono stati dei passaggi davvero mirabili come il confronto fra Anna e Joey Epp (Dylan Taylor): (Attenzione spoiler) lei lo seduce facendogli credere di volerlo come il padre dei suoi figli, se fosse mancato il marito, e lui ammazza il fratello Gerry per impedirgli di uccidere la famiglia Funk, ma lei si ritrae con conseguente disperazione di lui. Ben costruito ed eseguito. O come l’incontro-scontro fra Voss e Noah in cui fede, famiglia e morale vengono discussi apertamente e due filosofie opposte incarnate e vissute. I rapporti fra i coinvolti scorrono profondi ed emergono un poco alla volta.

La narrazione alla fine è coinvolgente e, con uno stile sommesso, potente. Bisogna arrivare alla fine però, perché sula base della prima metà della stagione non ci si sarebbe scommesso. La scrittura si prende i suoi tempi, ma allo stesso tempo ha un'essenzialità che non lascia spazio a divagazioni. Pare ci siano anche riferimenti alle scritture e alla “mitologia religiosa” del gruppo – come nel caso di Noah messo al rogo – che io, da me, non sono in grado di cogliere.
       
E parte della forza del programma sta proprio nel mostrare come sia difficile rimanere virtuosi anche lì dove è il proprio obiettivo principale, finché il contesto che ti circonda ti costringe da altre parti. Noah Funk letteralmente supplica Voss di permettergli di tornare alla vita onesta che desidera condurre. Bello il titolo perché in Pure ben si agglomera la purezza della droga alla purezza come valore di una comunità che vi aspira.

venerdì 11 gennaio 2019

THE KOMINSKY METHOD: la vecchiaia secondo Lorre


The Kominsky Method (su Netflix) è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che il suo autore, Chuck Lorre (qui il mio post a proposito del profilo del New Yorker su di lui nel 2011), non è diventato famoso a caso, nonostante la critica snobbi regolarmente programmi formalmente molto tradizionali come Two and a Half Men e The Big Bang Theory a cui il suo nome è associato.

Qui, Lorre sa essere esilarante, profondo e attuale affrontando un momento della vita ancora troppo tabù in televisione: la vecchiaia.

Sandy Kominsky (Michael Douglas, ultrasettantenne) è un attore ormai anziano, con problemi di prostata, che ha avuto solo un fuggevole successo calcando le scene, ma che ha un suo apprezzato studio di recitazione. Tre volte divorziato e con una figlia adulta, Mindy (Sarah Baker), che lo aiuta nel lavoro, sviluppa un interesse sentimentale per una sua allieva, Lisa (Nancy Travis), una donna ormai matura. Il suo migliore amico è il suo agente, Norman Newlander (Alan Arkin, ultraottantenne), che rimane presto vedovo della moglie di una vita, Eileen (Susan Sullivan), e ha un rapporto difficile con la figlia Phoebe (Lisa Edelstein, House, The Good Doctor), che ha problemi di lunga data di dipendenza da sostanze. I due uomini si sostengono vicendevolmente, incontrandosi spesso anche solo per un drink da Musso & Frank, dove vengono serviti regolarmente da un cameriere che sta a mala pena in piedi lui stesso.

Molta della serie - che dicono faccia trasparire una subcultura di Los Angeles, elemento che io non sarei in grado di valutare da sola - poggia sull’amicizia fra i due uomini: è  una sorta di aggiornata e meno brontolona “Strana Coppia” di Neil Simon, come ha notato più di qualcuno, con la conoscenza delle reciproche idiosincrasie e anche la capacità di manipolarsi perché ci si frequenta da sempre: imperdibile il loro ping-pong sul un enorme prestito in danaro di Norman che è un favore senza condizioni, di pura generosità, dove entrambi leggono bene quel “senza condizioni” come la condizione più onerosa di tutte, insopportabile. Scene impagabili davvero. Una colonna portante è anche quella sugli acciacchi dell’età, con un misto di irrisione e di cum-patio: scatologia mista ad empatia. Si ride di e con i personaggi, ma ci si lascia prendere anche dalla melanconia della perdita: della propria prestanza fisica, delle proprie occasioni, del tempo che si ha davanti, delle persone amate… lutti che sono anche lo spettro di altri a venire.

La constatazione finale è che si ha paura, che è normale avene perché il mondo la fuori fa paura, ma si supera perché non siamo soli, ma presenti nell’amicizia l’uno per l’altro. “Io ti vedo. Tu mi vedi?” chiede Sandy a Nathan a pochi minuti dalla fine dell’ultima puntata. Esserci. Questo, rivela in segreto, è il metodo Kominksy. Sandy è anche una versione più gentile e moderata (e per qualche critico meno riuscita) di Cousineau, l‘equivalente personaggio portato sulla scena da Henry Winkler in Barry. Come acting coach, il protagonista vede l’attore come creatore, la recitazione come un’estensione della vita, ma alla fine come persona che rivela se stessa nella propria intimità e vulnerabilità. Si riconoscono le debolezze e si affrontano.

Tante sono le guest star che interpretano se stesse (come Elliott Gould, Patti LaBelle o Jay Leno) o un personaggio, come Danny DeVito, nel ruolo di un urologo che sottopone Sandy ad un esame rettale: c’è chi ha visto con sfavore una simile scena, come esempio di una comicità crassa. Io al contrario ci vedo proprio quell’autoironia necessaria per non vivere con svilimento certe realtà dell’invecchiamento, bello perché vero e vagamente imbarazzante, esempio concreto del metodo del titolo.

Potrebbe chiudersi qui, con una sola stagione, questa serie, ma io mi auguro continui.

lunedì 7 gennaio 2019

GOLDEN GLOBE AWARDS 2019: i vincitori

Credits: Paul Drinkwater/NBC Universal via Getty Images


Sono stati consegnati ieri sera i Golden Globe, premi della stampa straniera presente ad Hollywood. I vincitori per la categorie televisive li leggete sotto. Per la lista di tutti, comprese le categorie cinematografiche, potete vedere qui.

Miglior serie TV – drama: The Americans
Miglior performance di un attore in un drama: Richard Madden (Bodyguard)
Miglior performance di un’attrice in un drama: Sandra Oh (Killing Eve)

Miglior serie TV – comedy o musical: The Kominsky Method
Miglior performance di un attore in una comedy o musical: Michael Douglas (The Kominsky Method)
Miglior performance di un’attrice in una comedy o musical: Rachel Brosnahan (The Marvelous Mrs. Maisel)

Miglior Limited Series o film TV: The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story
Miglior performance di un attore in una limited series o film TV: Darren Criss (The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story)
Miglior performance di un’attrice in una limited series o film TV: Patricia Arquette (Escape at Dannemora)
Miglior performance di un attore non protagonista in una limited series o film TV: Ben Whishaw ( A Very English Scandal)
Miglior performance di un’attrice non protagonista in una limited series o film TV: Patricia Clarkson (Sharp Objects)