sabato 30 marzo 2019

A VERY ENGLISH SCANDAL: un successo artistico e morale


C’è una storia d’amore proibito, un gay loud & proud, c’è vergogna e autoaffermazione, c’è humor e tragedia: si vedono a grana grossa le impronte digitali di Russell T. Davies (Queer As Folk, Cucumber) nella sua apprezzata miniserie in tre puntate A Very English Scandal (BBC One, Amazon prime e Fox Crime in Italia) basata sull’omonimo libro di John Preston, che racconta di un effettivo scandalo risalente agli anni ’70: Jeremy Thorpe (Hugh Grant), deputato molto in vista del partito liberale, ha una storia omosessuale di diversi anni (le vicende partono nel 1965) con un giovane stalliere, Norman Josiff, poi Norman Scott (Ben Whishaw). Quando Jeremy vuole scaricare Norman per il rischio che porta alla sua carriera politica, Norman minaccia di rendere pubblica la loro relazione che può provare avendo conservato alcune lettere d’amore. Jeremy cerca di pagare il silenzio di Norman, anche con l’aiuto dell’amico Peter Bessell (Alex Jennings), e in seguito arriva addirittura ad ordinare la sua morte. Il tentato omicidio fallisce, la vicenda diventa pubblica e finisce in tribunale.

La quintessenza del messaggio di Davies si vede nel personaggio di Norman, un ragazzo non troppo equilibrato, ma onesto e sfacciato nell’essere se stesso, e per questo forte. Se all’esordio il giovanotto è un timido campagnolo che accusa l’amante di averlo contagiato con il virus dell’omosessualità, e che legge La stanza di Giovanni di Baldwin, presto acquista una forte consapevolezza della propria dignità, e ci sono un paio di brevi monologhi che riecheggiano il famoso coming out di Stuart ai genitori in Queer As Folk. Norman, quando racconta della sua relazione non ha dubbi nel dichiarare (1.02) che lui per Thorpe non era stato una prostituta, non era stato la scopata di una notte o una sveltina al buio, era il suo amante. Dice la verità. Con tutta la forza e la veemenza che la verità sa avere. 

In tribunale (1.03) al processo, accusato di voler solo screditare una persona famosa per un tornaconto economico, appassionatamente declama “Se mi pagano è perché posso dire la verità. Non mi interessano i soldi, ma quello che mi interessa è che uomini come me vengono spinti in un angolo e masturbati al buio e poi buttati fuori dalla porta come fossimo sporcizia, come se non fossimo niente, come se non esistessimo, e tutti i libri di storia vengono scritti con uomini come me assenti. Per cui sì, parlerò, verrò ascoltato e verrò visto, vostro onore. Per cui potete pagarmi o no, non mi importa, ma quello che non riuscirete a fare è farmi stare zitto!”. (La traduzione è mia. L’originale è: If they are paying me, it's because I can say the truth.I don't care about the money, but I do care how men like me are shoved into corners and masturbated in the dark and then thrown out the door like we're dirt, like we're nothing, like we don't exist! And all the history books get written with men like me missing. So, yes, I will talk, I will be heard and I will be seen, Your Honour You can pay me or not pay me, I don't care, but the one thing you will not do is shut me up!). Si concede di crollare a piangere nel bagno, ma poi, ai complimenti delle amiche, risponde con verve: “Sono stato rude, sono stato vile, sono stato frocio, sono stato me stesso”. Autoaffermazione, in puro stile Davies.

E questo si pone in contrasto alla condanna di una società che, disapprovando relazioni e sentimenti che considera inappropriati, spinge le persone alla vergogna di sé. I suicidi degli omosessuali sono considerati alla stregua di omicidi perpetrati dalla legge (1.01) e si contestualizza la vicenda in un momento storico in cui si combatte per legalizzare il rapporto fra persone dello stesso sesso: ma se la legge porta la libertà, non è quella che libera dal senso di pietà e disprezzo altrui, che si interiorizza. Quella trasformazione si ha solo trasformando la cultura. Si è realistici nel mostrare anche i pericoli di vivere le relazioni nell’ombra.  Alcune donne, come in passato in altri lavori di Davies, affiancano i protagonisti mostrando grande comprensione e solidarietà.  

C’è molto humor nella narrazione: nella brillantezza di Norman in tribunale, che spiazza l’avvocato di Thorpe, nella sua ostinazione nel cercare di ottenere la National Insurance Card, una tessera necessaria a trovare un lavoro in Inghilterra, nel suo rapporto con i cani, nella relazione stessa. Ed è mescolato a critica sociale, tragedia, cuore. Davvero c’è Davies al suo meglio, con un cast che riesce a rendere giustizia ad ogni parola: sia Hugh Grant che Ben Whishaw sono impeccabili, sottili nel rendere le sfumature di quello che è stato anche amore, ma non solo quello. 

Un successo artistico e morale.

mercoledì 20 marzo 2019

BARRY: un killer vuole diventare attore


Fin dalla primissima scena capiamo che cos’è Barry: Barry è un assassino. Lo vediamo in una stanza d’albergo, che esce dal bagno con sul letto la sua ultima vittima, un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Prende un aereo e torna a casa. E arriva Fuchs (Stephen Root), un po’ come un “agente”, con il suo nuovo bersaglio. Però, come scopiamo presto, Barry è un veterano di guerra e che scelto questa professione, fra virgolette, in attesa di scoprire quale fosse il suo vero scopo nella vita. E ci si imbatte per caso. La sua prossima vittima è un aspirante attore che segue un corso condotto dall’esigente Cousineau (Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days). E Barry, fortunatamente, finisce sul palco, e non appena sperimenta il brivido dell’applauso, scopre la sua vocazione: anche lui vuole fare l’attore. Nonostante il suo mentore cerchi di dissuaderlo, perché vede un conflitto di interessi nell’essere un killer, l’entusiasmo dei compagni, Sally (Sarah Goldberg) in particolare, e un incoraggiamento dell’acting coach, fanno sì che lui non demorda e si iscriva al corso.

Parte così la serie Barry (HBO), che da una premessa esplicitamente ridicola scopre l’umanità dei personaggi, quella verità che Cousineau gli dice essere l’essenza della vocazione attoriale. Recitare significa essere umani gli ribadisce Sally (1.02), quando lo invita a tirare fuori le proprie emozioni per la perdita del loro compagno di corso, incoraggiati ad usare il proprio dolore in maniera costruttiva ai fini della recitazione – e ci si scompiscia allo steso tempo per lo cinismo del maestro che ha sì passione per l’argomento, ma non dimentica il lato economico della questione. Il compito dell’attore (1.03) è creare una realtà e lasciare che il pubblico la viva. In molte modalità, anche attraverso i titoli delle puntate che sono in se stesse lezioni di recitazione in pillole, ci viene insegnato che recitare è emozione cruda, spietata, da cui non hai scampo, perché tale è la vita, e quando c’è questa sintonia con la realtà si riesce a creare arte. Allo stesso tempo la finzione è leggera e liberatoria, per Barry è “a momentary stay against confusion – una momentanea pausa che si oppone al caos” per usare le parole di Frost, e in questo è taumaturgica. E quello che nel quotidiano viene soffocato, ha una valvola di sfogo sulla scena.

Quell’iniziale senso dell’assurdo la serie non lo perde mai, con scenette di slapstick comedy, alla Una Pallottola Spuntata volendo: come quando Fuchs viene aggredito e picchiato e sequestrato, mentre urla disperato, e tutto avviene sullo sfondo di un ignaro Barry che parla al telefono come se nulla fosse (1.02); con situazioni come la moglie che interrompe le torture del marito malvivente lamentandosi che fa troppo rumore, che la figlia ha a casa gli amici per un pigiama party, in quella che sembra una stoccata parodistica alla doppia anima di malavitoso-padre di famiglia de I Soprano; come con il messaggio via sms con le indicazioni sul prossimo bersaglio da ammazzare e la richiesta di cancellarlo poi, per piacere – il per piacere è un di tocco di sublime ilarità. Un momento la serie è assurde risate, il momento dopo è dramma, e l’apice di questo si verifica quando Barry ammazza un suo vecchio amico perché ha scoperto la verità e non è in grado di serbare il segreto (1.07) e sul palco bisogna mettere in scena il Macbeth, dove lui ha solo una battuta; e qui si è feroci, disperati, abrasivi. La serie cambia di tono in modo repentino senza perdere un colpo e riesce anche a mescolare tragico e comico senza che diventi necessariamente tragicomico, ma tenendo i due canali attigui e separati. 

C’è molta satira e c’è una certa serendipità nel viaggio umano del protagonista, mostrando come ci sia una certa dose di casualità nella nostra ricerca di un senso. Ed è una parabola della difficoltà di scappare dal proprio passato e dalle trappole che ci risucchiano verso quello che siamo sempre stati. Tutti nella vita cerchiamo le stesse cose, ci dice il protagonista in un momento disperato, ovvero essere felici e amare. E per raggiungere questi obiettivi Barry inevitabilmente e immancabilmente compie atti che lo allontanano da quell’obiettivo. Sembrano le sabbie mobili del proprio passato.

Le prove attoriali sono davvero spettacolose. Bill Hader, co-autore insieme ad Alec Berg (Silicon Valley, Curb your Enthusiasm, Seinfeld) , davvero mozza il fiato nel mostrare l’agonia e la vulnerabilità del suo personaggio, perché davvero non importa quanto surreale possa diventare la situazione, non molla mai la presa dalla verità emozionale del suo alter ego. Si sviluppa empatia per Barry, mentre si è contemporaneamente ripugnati da quello che fa.  E si ride.

La seconda stagione della serie debutta negli USA il 31 marzo. 


lunedì 11 marzo 2019

SEX EDUCATION: franca, divertente, romantica


Con una miscela di empatia e ironia, franchezza e pudore, ingenuità e competenza, Sex Education (Netflix) racconta delle scoperte sessuali e di vita di un gruppo di adolescenti inglesi.

Otis Milburn (Asa Butterfield, assolutamente perfetto per la parte e con un je ne se quoi che ricorda un giovanissimo Joshua Jackson dei tempi di Dawson’s Creek) è un adolescente vergine che, nonostante la sua inesperienza e la difficoltà a masturbarsi, ha una grande conoscenza indiretta in campo sessuale, acquisita ascoltando la madre con cui vive, un’apprezzata sessuologa, la dottoressa Jean Milburn (Gillian Anderson, The X-Files), che ha il suo studio professionale in casa. Una compagna di scuola di Otis, Maeve (Emma Mackey), abbandonata a se stessa, sempre a corto di soldi e con la reputazione di bad-girl, gli propone di fungere da improvvisato terapeuta per i compagni di classe che hanno ogni genere di problema e quesito. Spinto anche dal suo migliore amico Eric (Ncuti Gatwa), gay, Otis accetta e fra i primi suoi clienti c’è Adam (Connor Swindells, Harlots), bullo che tormenta Eric e figlio del rigido preside del liceo da loro frequentato, Mr. Groff (Alistar Petrie).

Ideata da Laurie Nunn, di primo acchito ci si domanda perché non si sia pensato prima a fare una serie di questo tipo, ovvero che parla di sesso agli e con gli adolescenti: brillante quanto necessario. Si fa davvero educazione sessuale. Otis si ritrova a che fare con il compagno che non riesce ad avere un orgasmo quando fa sesso con la sua ragazza, come con la coppia lesbica che non riesce a trovare un’intesa, quella che si lamenta di avere troppi peli pubici o quella che ha inaspettati problemi di vaginismo e quello che vuole solo fingere di parlare con lui per far credere alla ragazza che gli piace di essere sessualmente attivo... Si riesce a parlare di aborto (1.03)  mostrando la ragione per farlo, e il supporto necessario e utile in queste situazioni, non evitando tra l’altro la possibile ostilità degli antiabortisti piazzati fuori dalla clinica. 

[ATTENZIONE SPOILER da qui in poi]. Si è frizzanti e divertenti: non ci sono predicozzi, ma le vicende si dipanano anche come storie di formazione, amicizia e come commedia romantica. Otis si innamora di Maeve, e quando Jackson (Kedar Williams-Stirling), campione di nuoto della scuola, si rivolge a lui per chiedergli consiglio su come conquistarla lui (1.04) è in estrema difficoltà. La puntata scritta dall’ideatrice insieme a Laura Neal, è stata costruita in modo impeccabile, con Otis che all’inizio si lascia sfuggire dei suggerimenti nel tentativo di difendere la ragazza che ama, e poi, nonostante i buoni propositi etici, fa il gioco del suo “rivale” decidendo volontariamente di sabotarlo. Quando finalmente lei si rende conto di amare lui, lui comincia ad interessarsi ad Ola (Patricia Allison). Ostacoli che sono classiconi che ci fanno tifare perché la coppia riesca a stare insieme.

Chi lamenta il fatto che l’eteronormatività condanna l’omosessuale al perenne ruolo di “amico di” qui può gioire del fatto che, se è comune che sia amico della protagonista femminile, ben più raro è vedere che sia il punto di riferimento per un coetaneo maschio etero. Anzi, l’amicizia al maschile è una delle parti meglio riuscite di questa pregevole serie, ed è meraviglioso come si mostra un mondo in cui si può essere sicuri della propria mascolinità senza che questo implichi omo o tranfobia – la puntata del compleanno di Eric (1.04) è particolarmente efficace in proposito – o se si è consapevoli del potenziale implicito  sessismo di certi divertimenti ritualizzati – e qui basta pensare alle parole di Otis sul ballo scolastico e le inadeguate aspettative sul romanticismo che crea (1.07) – e di aspettative di gender e solidarietà femminile – non si può non pensare alle studentesse in assemblea scolastica che si alzano una a una a dichiarare “è la mia vagina”, riferita a un’immagine che era di una solo di loro, ma poteva rovinarle la reputazione (1.04), senza trovarla divertente, commovente ed empowering. Fa tornare alla mente una vecchia pubblicità di preservativi.

A chi lamenta la trita rappresentazione della sessuologa come una donna dai forti appetiti sessuali e molto disinibita, non posso che dare ragione, è uno stereotipo un po’ abusato, ma si riesce ad evitare di farne una macchietta, e diventa tridimensionale non solo nel suo ruolo di madre, ma anche nel rapporto con l’idraulico Jakob (Mikael Persbandt), che con lei vorrebbe una storia seria. A chi infine si lamenta che nelle serie in generale, e anche qui, ci si preoccupa sempre troppo di insegnare come far bene le fellatio e troppo poco a far bene il cunnilingus mi unisco io, ma c’è tempo per esplorare ulteriormente anche questi aspetti, che comunque si dimostra, dal proprio atteggiamento, di non voler trascurare.

La sessuologa clinica nella vita reale Lindsay Doe, che su YouTube ha un canale chiamato Sexplanations (che non ha nessun legame di per sé con questa serie) ha detto (non chiedetemi in quale delle molte puntate) che la domanda che le pongono più spesso le persone è “Sono normale?”. Azzardo a dire che qui si risponde un pochino a quella domanda nel senso che si mostrano tante situazioni e tanti comportamenti, o per lo meno si comincia a farlo sbirciando nell’argomento, e si mostra che la normalità ha tante facce. Lo stesso protagonista Otis, che pure lo sa bene, si sente diverso, indietro rispetto ai propri compagni (1.06). Se sotto i riflettori c’è la pubertà, la serie parla di fatto di sesso anche agli adulti perché alcune problematiche rimangono vere a tutte le età.

Si è molto espliciti, anche nel mostrare, si potrebbe forse dire pruriginosi ma l’intento non è di ammiccamento o solleticamento, è più maturo e si è attenti a non scindere la parte carnale dalle questioni psicoaffettive, e si mostrano con naturalezza insicurezze, imbarazzi e desideri. Per me la si può sicuramente inserire già fra le migliori serie del 2019.  


sabato 2 marzo 2019

HOMECOMING: un teso thriller psicologico


ATTENZIONE SPOILER. In Homecoming, ideato da Eli Horowitz e Micah Bloomberg per Amazon Prime Video sulla base di un podcast dallo stesso nome, seguiamo due linee temporali diverse: nel presente Heidi Bergman (Julia Roberts) lavora come terapeuta in un centro governativo segreto di supporto alla transizione chiamato “Homecoming” il cui obiettivo sulla carta è quello di aiutare i soldati che sono stati in guerra a riabituarsi alla vita civile, ma che in realtà, sotto la direzione di Colin Belfast (Bobby Cannavale, Mr Robot), ha ben altri obiettivi, con risultati che sfuggono loro di mano, ovvero azzerare i ricordi dolorosi ai fini di re-inserire personale già qualificato in contesti conflittuali. Fra i casi seguiti più da vicino da Heidi c’è quello del giovane Walter Cruz (Stephan James). Nel tempo futuro, quattro anni dopo, Heidi lavora come cameriera in un locale e vive con la madre Ellen (Sissy Spacek) e non ha memoria del suo passato e degli esperimenti in cui è stata coinvolta nella struttura del Homecoming, gestita dal gruppo Geist. Un agente del Dipartimento della Difesa, Thomas Carrasco (Shea Whigham, Boardwalk Empire), indaga su che cosa sia accaduto in quegli anni e in che cosa consistesse quel progetto.   

La serie, che si avvantaggia molto nella su interezza della sensibilità registica di Sam Esmail (l’ideatore di  Mr Robot, di cui si sente l’eco stilistico), mantiene le due linee temporali distinte con un semplicissimo stratagemma: un diverso formato di ripresa, un rapporto d’aspetto 16:9 per il 2018, che restringe lo schermo quando ci porta nel 2022. Nel momento in cui Heidi finalmente ricorda, in “Protocollo” (1.08), sullo schermo assistiamo a una dilatazione del formato davanti ai nostri occhi, un aprirsi della memoria che viene reso fisico e visuale quanto è personale e cognitivo. Il tono costante è teso e c’è un sottotono di paranoia – a partire da “Ananas” (1.02) quando uno dei militari si lamenta del gusto dell’ananas, mettendo in dubbio di trovarsi in Florida, come secondo lui cercano di far loro credere – e cospirazione: la chiusura di stagione, anche con una inquietante fine post-titoli di coda, preme ulteriormente l’acceleratore. Non è forse un classico – ahimè forse con qualche fondamento – il sospetto che l’esercito tratti i propri sottoposti come cavie conducendo esperimenti su di loro a loro insaputa? C’è anche una banale tran tran e allo stesso tempo un costante senso di minaccia, un po’ alla Hichcock, nello svolgimento dell’intrigo. Molto è costruito su conversazioni e come ben sottolinea James Poniewozik, sul New York Times, tutto è “blando e minimalista” e si coglie bene come gli spazi anonimi, gli eufemismi e il depersonalizzato linguaggio aziendale possano essere più terrificanti di scene da paura.

Forte è il tema della memoria, non solo perché Heidi sembra aver cancellato il proprio passato, ma proprio perché con la memoria si ha a che fare, e con i ricordi dolorosi di chi ha vissuto scenari di guerra e con il disturbo post-traumatico da stress. I ricordi dolorosi, le esperienze penose non fanno parte di quell’importante bagaglio che ci rendono chi siamo? Ci sono interrogativi sui limiti etici dei propri esperimenti, anche lì dove sono eventualmente motivati da ragioni nobili, e proprio quelle ragioni sono qui messe in discussione, additando alla corruzione del sistema, un tema caro a Esmail. Il sovracitato Poniewozik osserva acutamente che parte di quello che Homecoming si domanda è quanto responsabile tu debba essere, quanto in alto in un’organizzazione, perché tu sia moralmente responsabile. L’impotenza anche di contrastare simili negligenze è incarnata da Thomas, che da un lato viene ripreso dai propri superiori perché indaga oltre quello che la prassi professionale gli richiederebbe, dall’altro viene sminuito e ridicolizzato da Colin che lo etichetta denigrandolo come un insignificante impiegato che, pur scoprendo la verità, non può fare nulla in proposito: ha ragione, è costretto ad ammettere Thomas. Che cosa serve a scardinare queste realtà tanto potenti quanto apparentemente invisibili?

Questo ipnotico thriller psicologico è stato rinnovato per una seconda stagione, sans Julia Roberts.