È stata in gran parte inconcludente e dimenticabile la serie antologica Love, Death & Robots, ideata da Tim
Miller, e prodotta fra gli altri anche da David Fincher, con 18 corti
autoconclusivi (della durata di massima dai 5 ai 20 minuti) di animazione e live
action, che volevano essere una re-immaginazione di un reboot da tempo in
gestazione del loro film animato Heavy Metal.
Visivamente è anche accattivante, perché stupisce per le abilità tecniche
dell’animazione e perché lascia che ogni singola puntata abbia una propria
identità autoriale, con stili differenti, dal disegno a mano, al rotoscopio, al disegno da
videogioco. Fanno immediata simpatia i robottini di “Tre robot”, così come si
riconoscono immeditamente Samira Wiley (Orange
is the New Black e The Handmaid’s
Tale) in “Dolci 13 anni” e Mary
Elizabeth Winstead (Braindead) in "L’era glaciale"; si rimane a bocca insieme ai personaggi nel vedere un
canyon animarsi dei fantasmi degli abitanti acquatici di un fondale oceanico in
“La notte dei pesci”; si elicita l’estetica cinese nelle vicende di una Huli
Jing, volpe a nove code tipica di quella tradizione, in “Buona caccia”.
È narrativamente che questi corti sono deludenti, con l’eccezione del
poetico e pregnante “Zima Blu”. Si può anche ammettere che hanno un racconto forte,
nel senso che è compatto, al sodo, essenziale - per quanto io non sia mai stata
una grande appassionata della “letteratura stitica”, per usare una definizione
dello scrittore Michel Faber. Alla fine però le storie sembrano fine a se
stesse, senza un perché, come la, per me inutile, insulsa “Guerra Segreta”, su
un plotone dell’Armata Rossa che in Siberia dà la caccia ai demoni, o il divertissement de “il dominio dello yogurt”,
dove dello yogurt modificato da alcuni scienziati diventa senziente e conquista
il dominio del mondo lanciarsi poi nello spazio. Mah…Si rimane sempre come se
mancasse una conclusione, qualcosa da dire che non sia già stato detto altrove
meglio.
Anche il titolo appare fuorviante. Ci sono robot, ma poco amore e tante
morti, ma morti numeriche, non intellettualmente o emotivamente coinvolgenti.
Sono prevalentemente storie a sfondo militare, di violenza viscerale, e piene
di sessismo. Sarà che sono una donna più vicina ai 50 che ai 40, ma l’idea di cartoni
di intrattenimento adulto, che come concetto non mi dispiace, non è per me
vedere donne squartate e qualche tetta.
Per una lettura della serie acuta e approfondita, che riecheggia la mia
posizione, consiglio le notevoli osservazioni di Sara Mazzoni (qui
e qui),
che ha saputo argomentare con molta competenza; per una prospettiva opposta si
legga invece Luca Liguori (qui)
che esamina puntata per puntata quello che definisce un capolavoro di
animazione, sensualità e fantascienza.
Si legge in giro che l’ordine di visione cambia per ciascuno spettatore,
nel senso che l’algoritmo di Netflix li propone sulla base dei supposti gusti
dell’utente. Il primo episodio per me è stato “Oltre aquila”. L’idea è
accattivante, ma non posso dire che ci abbiano azzeccato granché, per quel che
mi riguarda.
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