Nella sua terza stagione
The Good Fight riesce ad essere una
delle migliori serie in circolazione, ricca di riferimenti a The Good Wife, ma ormai anche completamente
affrancata dalla serie madre. Lo studio legale in questo arco ha un nuovo
inizio, e ricominciando si interroga sulla propria identità, soprattutto
razziale e politica, due dei pilastri di speculazione su cui poggia l’intera
narrazione.
Si continua con
l’ossessione per Trump, in modo scoperto, con tanto di nomi e cognomi, e
immagini, e la tensione a trovare un modo per fermarlo, per diminuire il suo margine
di approvazione pubblica. Scrive bene Haaretz (qui)
quando dice che la serie è un “porno politico” con un feticcio per l’attuale
presidente e la sua famiglia, che a volte è oppressivo (e ipocrita – secondo loro,
non me in questo caso), ma intelligente.
La serie indaga i
comportamenti, interrogandosi su quanto politiche o meno debbano essere certe
scelte e mostrando quanto possa essere labile il confine. Un misterioso
personaggio (che poi si rivela essere una persona diversa da chi diceva di
essere), fa notare a Diane (Christine Baranski), Liz (Audra McDonald) e a un
gruppo di altre donne come i democratici parlino come se Trump fosse il nemico,
ma che non si comportano come se lo fosse, che ci sono nuove regole: “muoviti
velocemente, sii brillante, attacca, menti, non farti beccare”. E Diane,
assetata di giustizia, disperata di non vederla, e aizzata anche ad ammettere
che Trump vince perché vede la vita come una battaglia e usa la forza, viene
tentata da queste nuove regole: il fine giustifica i mezzi? Si cita Machiavelli
in più di un’occasione e, cosa più importante, si mostra nel concreto,
nell’individuale, come certi meccanismi, giusti o sbagliati che siano,
funzionano.
Il personaggio viene
forse moralmente “sporcato” per un po’, ma per lo spettatore è affascinante
osservare proprio l’illustrazione di dinamiche che accadono nella realtà, dove
il “che cosa” facilmente fa da prepotente nei confronti del “come”. Chi vince?
Come vince? Il solo modo di vincere è rinunciando a comportarsi in modo etico?
Io personalmente non sono di questa scuola, ma vedere un personaggio, che pure
non lo è, essere tentato in questa direzione è affascinante. Diane flirta con
il giocare scorretto, ma non viene compromessa. Di fronte alla possibilità di manomettere
gli strumenti elettronici per togliere voti a Trump (3.07), prende le distanze,
non solo perché è illegale, ma perché sbagliato. “I nostri voti contano”
dichiara con idealismo, anche se poi le sue parole servono un fine opposto a
quello in cui lei crede.
Si dà voce, in un
equilibrio sbalorditivo di pressioni concorrenti, alle ragioni che spingono
coloro che optano per la via scorretta: Che cos’è la democrazia? Per tanti neri
non esiste perché viene loro impedito il voto e non è solo un aneddoto:
imbrogliare non è forse correggere un imbroglio e assicurare che così giustizia
sia fatta? È probabile che Trump vinca nel 2020 e i democratici non
vogliono vederlo perché vivono in una bolla, ma per quelli consapevoli l’ansia
è tanta e qui viene esposta in tutta la sua capacità corrosiva. E insieme a
questa anche la rabbia. Si dice che sia un argomento scomodo quello della
rabbia, specie femminile. Qui si permette che emerga, attraverso Diane, ancora
una volta, che impara a sfogarla tirando delle accette, ma anche attraverso
Maia (Rose Leslie), che si ribella a ingranaggi che, ingiustamente, l’anno
usata.
Si scava a fondo sulle
dinamiche razziali - uno degli argomenti principali, e mi dispiace dedicarvi
così poca riflessione - all’interno dell’ufficio,
fa bianchi e neri, fra neri e “troppo poco neri”, come proprio Lucca (Cush
Jumbo) viene considerata (1.10), quando proprio perché nera si mette in dubbio
che sia la madre del proprio figlio (3.04). E quello che si vede non è bello,
anche di fatto in un ambiente che tiene all’uguaglianza.
Un nucleo importante di riflessione
è stato quello su mascolinità: Diane (3.01) si domanda che cosa sia successo
agli uomini, che fine abbiano fatto gli uomini “veri”, che identifica con Paul
Newman e Burt Lancaster, uomini come suo marito, uomini che credono nella
verità, e che si comportano in modo onesto, lenti ad arrabbiarsi, responsabili
e non facili a piagnucolare. “Quand’è che Trump e Kavanaugh sono diventati la
nostra idea di uomo afflitto? Labbra che tremano, che incolpano tutti tranne se
stessi?” Sembra quasi una laudator
temporis acti.
Lucca dal canto suo ha
sollevato l’eterno dibattito fra carriera e famiglia, fra prendersi cura del
piccolo Joseph da poco nato e il proporsi come legale di punta che si occupa di
divorzi per lo studio.
Attraverso la storia del
deceduto Carl Reddick, icona dei diritti civili che ora si scopre molestasse diverse
donne dell’ufficio, un importante messaggio, che si ripropone nell’arco della
storia umana, ma che raramente ho visto affrontato è stato il fatto che “le
persone che cambiano la storia e fanno del bene non sono tutte buone” (3.01),
ovvero è importante saper riconoscere quello che di buono qualcuno ha fatto,
senza per questo negare quello che di male ha magari pure fatto, e una persona
non è una santa da ammirare incondizionatamente solo perché ha fatto qualcosa
di grandioso per l’umanità. Questo è riconoscere l’essere umano come tale, con
chiaroscuri, ed è riconoscere che aver fatto del bene non significa non aver
fatto anche del male. La serie in questo senso ha il coraggio di dibattere
questi temi senza svilirli.
“Le storie battono sempre
i fatti” si dice in 3.02. Il potere
della narrazione e il ruolo che raccontare una storia in un modo invece che in un
altro ha nell’influenzare l’opinione è essenziale, ed è una tematica che ci
portiamo dietro già dai tempi di The Good
Wife, di cui questa serie è lo spin-off. La terza stagione introduce Roland
Blum (un sempre esaltante Michael Sheen, Masters
of Sex), nel ruolo di un avvocato eccentrico, blandamente egotico e sopra
le righe che collabora con Maia in una causa di omicidio. Teatrale, fuori dagli
schemi e malato con la necessità di usare costantemente supposte di morfina,
pronto a usare qualunque mezzo per vincere, ricopre qui una posizione similare
a quella che aveva Micheal J. Fox in The
Good Wife, e lui è il giullare triste che crede nel potere poietico di una
storia ben raccontata. Assume un attore, Gary Carr (Downton Abbey, come funzionalmente ricordato dalla diegesi stessa)
nel ruolo di se stesso, che ha un breve ma significativo scambio verbale con
Lucca (3.07):
Lucca: questo è il
motivo per cui non mi piace la televisione, perché è una menzogna.
Gary: però che cosa non
è una menzogna di questi tempi. La politica, l’arte, la scienza. Tutto è
televisione.
Lucca: e questa è una
cosa buona?
Gary: no, è una cosa
importante da sapere.
E con questo si ragiona
sul ruolo della serie, sul ruolo delle immagini, sulla competenza e la
percezione di competenza (anche nella presidenza Trump), nel ruolo dei media e
delle fake news, uno degli altri punti caldi di riflessione.
Il “previously” (nelle puntate
precedenti), ci viene mostrato all’interno di uno schermo televisivo che ci
riporta concettualmente ad una finzione che in corso di diegesi rischiamo di
dimenticare, vista l’attualità degli argomenti.
E, un po’ al Black-ish, il
plot si prende il lusso di una pausa educativa di animazione canora, “The Good
Fight Short”, in siparietti di spiegazione.
Il tempo atmosferico
pure è stato centrale in questa stagione: pioggia e grigio, praticamente senza
sosta, e i fulmini globulari che quasi atterriscono i personaggi. Un
brutto tempo dello spirito. Si
sopravvive fregandosene (3.10), è la ricetta che Lucca suggerisce a Marissa (Sarah
Steele), si sconfigge solo con l’amore, si rende conto Diane serie di fronte
alla iniziale perplessità di Boseman (Delroy Lindo). L’obiettivo rimane lo
spesso: continuare nella “giusta lotta”.
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