“Questo è quello che le
persone dimenticheranno, quanto è stato bello”: dice così, nella mia
traduzione, un personaggio (non dico chi né in che momento per evitare spoiler
significativi) di It’s a Sin (È peccato), la più recente
miniserie firmata dal magnifico Russell T. Davies (Queer As Folk, Cucumber,
Years & Years, A
Very English Scandal, Doctor Who, Torchwood) che è recentemente stato
premiato al Festival CanneSeries con
l’Award for Eccellence. Qui si parla di AIDS, negli anni ’80, ai suoi esordi
quando era associato agli omosessuali che ne sono stati una comunità fortemente
colpita, e ci sono molte inevitabili lacrime, ma la narrazione è vitale,
esuberante, gioiosa, assertiva, come già l’autore ci ha abituato in titoli
precedenti. In Queer As Folk in particolare (1999), la seminale serie
“più gay che sia mai stata realizzata”, come veniva definita, il tema di questa
malattia era stato volutamente evitato – ma invece trattato nel successivo
remake americano – e questo perché allora era gran parte di quello a cui i gay
erano associati e si volva andare in una direzione diversa. Si voleva una
necessaria distanza.
Quella che inizialmente
doveva chiamarsi The Boys, ma ha poi cambiato titolo per evitare di
essere scambiata con l’omonima serie Amazon di supereroi, racconta le vite di
un gruppo di giovani ragazzi di provincia che si trasferiscono a Londra: Ritchie
(Olly Alexander, noto per far parte di una popolare band) ha passato la vita
sull'Isola di Wight insieme alla sorella e ai genitori, sognando di fare
l’attore; Colin (Callum Scott Howells) è un timidissimo vergine che prende una
camera in affitto da solo, prima di incontrare gli altri, e comincia a lavorare
in una sartoria dove viene preso sotto l’ala protettrice di Henry (Neil Patrick
Harris); Roscoe (Omari Douglas), molto effemminato e sicuro della propria
identità, con minigonna e tacchi alti,
scappa dalla famiglia che vuole rimandarlo in Africa e si fa mantenere
da un politico che lo tiene come proprio “giocattolo”; Ash (Nathaniel Curtis) si
interessa a Ritchie. Completa il quadro di amici Jill (Lydia West) - in giro si
legge descritta come eterosessuale, ma in realtà non è specificato, potrebbe
anche ben essere asessuale o demisessuale -, che diventa presto un’attivista sull’AIDS, conducendo
campagne di raccolta fondi per sensibilizzare e raccogliere fondi per la
ricerca e offrendo aiuto concreto ai molti soli, perché abbandonati dalla
famiglia o troppo pieni di vergogna per potersi rivolgere a qualcuno. Jill è ispirata
a un'amica di Davies (come scrive THR),
Jill Nader, che qui interpreta la madre di Jill.
L’ignoranza, la negazione,
il tabù, la confusione, la mancanza di informazioni, lo stigma, la vergogna e
il disprezzo di sé, la paura, il senso di colpa riguardo a tutto quanto
riguardasse HIV e AIDS è stato al centro di tanti passaggi memorabili e
toccanti, illuminanti. Quando Ritchie si traferisce, sul traghetto il padre
Clive (Shaun Dooley) gli passa una scatola di preservativi perché ritiene che
nel nuovo ambiente gli serviranno: non sa che è gay, glieli dà a fini
anticoncezionali. La trasmissibilità sessuale di malattie è talmente fuori da
quello a cui il ragazzo pensa che li getta in mare, pensando di non averne
bisogno. Jill prega l’amico Colin di procurarsi tutti i giornali e i libri
possibili sull’argomento una volta che va per lavoro a New York, perché lei non
riesce a trovare nulla, perfino il medico la liquida irritato dicendo che lui
non ne sa molto e che tanto a lei non può interessare. Tutti si controllano e
disinfettano tutto in maniera ossessiva (e a me non possono che venire in mente
i racconti in questo senso di amici che questo lo hanno vissuto sulla propria
pelle). Uno degli aspetti che ho amato di più è stato vedere all’inizio come le
notizie di questa nuova “peste” fossero nell’aria, in modo obliquo: è la
conversazione di due persone che ti sono sedute vicine e che tu nemmeno ascolti
perché stai pensando ad altro, ma che cominciano così a insinuarsi nella
coscienza collettiva – questo è straordinario della scrittura di Davies, che ha
dato voce a dei personaggi basandosi sui propri ricordi, all’epoca studente a Manchester (dove
sono state fatte molte delle riprese).
Un aspetto che non avrei notato da sola in questi termini, ma che mi è stato fatto notare dalle parole dell’autore stesso in un’intervista a TV’s Top5 (Ep. 109 – 26 febbraio 2021), è come si sia voluto mostrare (in particolare con l’episodio 4) come la maggior parte della gente non sia attivista. Gli storici guardano a quello che gli attivisti hanno ottenuto perché quello che fanno nella loro battaglia è documentano, mentre naturalmente non viene registrato quello che non viene fatto. La maggior parte della gente però non è attivista, vive la propria vita e basta, e questa esistenza delle persone ordinarie è quella che lui ha voluto mettere in scena e celebrare. È molto vero e significativo. Contemporaneamente, io come malata di MECFS e come attivista di una patologia trascurata in cui regnano altrettanta ignoranza, confusione, mancanza di informazione, stigma, incomprensione e vite perdute (anche se solo di rado in termini di effettiva morte) non posso che guardarlo anche in questa prospettiva – anche perché è scoppiata negli stessi anni – e vedere la differenza delle azioni per far riconoscere la verità di una realtà, rammaricarmi del tempo perduto e auspicare che ci sia altrettanto margine per riconoscere la sofferenza di questa situazione e agire per cambiare le cose. Bene nella storia si mescolano la consapevolezza del fatto che costituisce una condanna e disperazione per la ricerca della cura – Ritchie che beve la propria urina è il frammento di un istante, ma ben incapsula l’angoscioso tentativo di cercare una via d’uscita che ancora non c’è.
Adoro Russell T. Davies.
Ho scritto saggi sui suoi lavori (guadate sotto “leggimi”) e ho apprezzato
anche testi minori (penso a Bob & Rose). È importante nella mia
formazione umana e trovo che abbia sempre qualcosa di nuovo da dirmi. Anche qui
ha sparso qualche pepita inaspettata. Credo che sia una delle pochissime volte
in cui ho visto lo spettro dell’incombente molestia sessuale di un uomo gay su
un altro uomo gay, come accade a Colin quando lavora da Savile Row. È stato molto Stuart Allan
Jones (lo storico personaggio di Queer As Folk) la reazione di Roscoe
all’uomo con cui andava a letto, che lo ha pesantemente insultato. Sono sempre stupita di come riesca ad essere empowering di fronte alle più odiose e umilianti delle situazioni.
Ho amato moltissimo tutto
il discorso trasversale sul non vedere, non sapere, o meglio nel non voler
vedere e non voler sapere - è il nerbo dell’intento etico di Davies: che esca dalla bocca di Ash (ep. 4) che racconta la filippica a chi gli ha chiesto di
epurare i testi omosessuali dalla biblioteca, che ha pensato ma di fatto non
ha mai pronunciato; o che esca dalle rimostranze rivolte a Valerie (Keeley
Hawes), la madre di Ritchie, che viene accusata da Jill e dalla madre di un altro paziente per non
aver visto perché non voleva. Quella è stata la vera condanna di molti malati
di AIDS.
"C'è un'autentica
energia queer che emerge da questo show. È negli spazi liminali […]. È molto tangibile. E ne
sono immensamente orgoglioso". Dice Davies (THR). Ha ragione di esserlo.
La scoppiettante colonna sonora pure è piena di verve, impeccabile fino al
brano di chiusura dei REM.
Chiudo con una citazione che solo chi ha visto il programma (Channel4) capirà, ma che credo riempirà loro il cuore di una gran gioia, insieme ai ricordi di una visione ricca di commozione: “La!”