Ha il gusto leggero della narrativa young adult la serie televisiva francese Lupin, di cui Netflix ha rilasciato la prima parte all’inizio dell’anno in attesa di una seconda durante l’estate – l’interruzione è stata causata dal COVID. Non è quello che mai considererei grande televisione, ma è un diversivo ben congegnato che non delude per colpi di scena e meccanismi narrativi che lasciano con il piacere di aver assistito a un piccolo gioco di prestigio. Nel guardarlo poi, sarà anche perché esordisce con un furto di un collier in un museo, ma mi ha richiamato alcune atmosfere di Caccia al ladro d’autore, una serie italiana degli anni ’80.
Assane Diop (Omar Sy) è un
giovane uomo di origine senegalese emigrato in Francia da bambino insieme al
padre Babakar (Fargass Assandé), che lavorava come autista per la famiglia
Pellegrini – Hubert (Hervé Pierre), uomo d’affari senza scrupoli, sua moglie
Anne (Nicole Garcia) e la figlia Juliette (Clotilde Hesme), ora a capo di una
fondazione benefica, che conosce Assane fin dall’infanzia. Babakar,
accusato del furto di una preziosa collana, si impicca in carcere. Venticinque
anni dopo il gioiello ricompare e Assane decide di rubarlo come parte di un
progetto più ampio: ha sempre creduto il padre innocente e incastrato dai suoi
datori di lavoro e intende vendicare la sua memoria.
Nel suo operato si ispira
a Arsenio Lupin, la creazione letteraria di Maurice Leblanc, da cui la serie
stessa è liberamente tratta, di cui è un grande ammiratore fin da bambino, passione
che cerca di instillare anche nel suo stesso figlio Raoul (Etan Simon), avuto
dall’ex-moglie Claire (Ludivine Sagnier). A conoscere le sue intenzioni e a
fiancheggiarlo c’è Benjamin (Antoine Gouy), un amico che ha un negozio di
antiquariato. La polizia, con a capo il capitano Ramain Laugier (Vincent
Londez), indaga sul furto. L’agente, Youssef (Soufiane Guerrab) si accorge dei
collegamenti con la storia di Lupin, mentre la collega Sofia (Shirine Boutella)
è piuttosto scettica in proposito.
Ideata da George Kay e
François Uzan, questa fiction d’evasione sul noto ladro gentiluomo
si poggia in modo saldo sull’innegabile carisma del solido interprete principale
che, in apparenza imperscrutabile, riesce a rendere credibile sia la sua innocua
amabilità che la sua sorprendente astuzia nell’inganno. Ammettiamolo, il solo capace
di rubargli la scena è il delizioso cagnetto “J’accuse”, che il protagonista riceve
in “eredità”, mettiamola così, e che abbaia al solo sentir nominare il nome
Pellegrini, che – mi raccomando – viene rigorosamente pronunciata “Pellegrinì”.
Più a fondo è una denuncia
della danarosa borghesia che crede di poter agire impunemente a proprio
vantaggio alle spalle di poveri onesti immigrati, e c’è il senso di rivalsa e
di giustizia che l’acume strategico e l’intelligenza tattica riescono a far
prevalere. Questo ethos, incarnato come è in un personaggio segreto e
avventuroso ma di nobili principi, non va mai troppo oltre diventando solo sete
di vendetta.
Assane è capace di farsi
pugnalare pur di entrare in contatto con una persona che può essergli di aiuto,
ma è la sua abilità il fascino del personaggio. Non usa grandi apparati per
mettere in atto i suoi piani, in fondo sufficientemente “a basso costo”. I
travestimenti sono minimali. Eppure, anche a dispetto di una notevole presenza
scenica passa inosservato: una voluta frecciata all’invisibilità dovuta a
pregiudizio razziale o uno delle molte sospensioni dell’incredulità di cui ci
fa fare esercizio la serie per mettere a segno eventi così goduriosamente
incredibili? Superman con Clark Kent docet.
Diventata subito un
successo, la serie ha chiuso la prima metà con un cliffhanger.