Emma, con la canzone “Non è l’inferno” ha vinto la sessantaduesima edizione del Festival di San Remo. A farla vincere è stata il televoto, dopo che la “golden share” attribuita ai giornalisti aveva eliminato dal terzetto finale Gigi D’alessio e Loredana Bertè (“Respirare”) e aveva portato sul podio come finaliste la tripletta tutta al femminile costituita dalla suddetta, da Arisa (“La Notte”) e da Noemi (“Sono solo parole”). Alessandro Casillo con “È vero (che ci sei)” ha vinto San Remo Social, ovvero la sezione dei Giovani un tempo chiamata anche delle “nuove proposte”. Il premio Mia Martini, della critica, è andato a Samuele Bersani (“Un pallone”).
Dai vincitori è chiara una volta di più una cosa: a venire premiati sono quei cantanti che i votanti a casa hanno imparato a conoscere nel tempo perché sono emersi da vari talent show – Amici (Emma), X-Factor (Noemi, e Arisa come giudice), Io Canto (Casillo, il Justin Bieber di casa nostra) – interpreti per cui il pubblico è abituato a esprimere la propria preferenza con il televoto. In parte è anche demoralizzante, ma è un elemento che mette in crisi una volta di più, semmai ce ne fosse bisogno, il senso della rilevanza artistica della manifestazione canora che quest’anno era alla sua 62 edizione. Qualche canzone mi è anche piaciuta ( quelle di Bersani e Renga, ad esempio), ma in generale mi sono sembrate irrilevanti.
È stato detto che questo è stato il festival peggiore di sempre, e lo condivido. La serata finale è stata salvata, al volo e quasi per caso si potrebbe dire, dalla presenza di Geppi Cucciari, che con leggerezza e ironia ha incarnato quello che il Festival delle nuove generazioni potrebbe essere e non è stato se non in ultimo grazie a lei. Si è stufi delle vallette scelte solo per la propria bellezza, ma che non sanno spiccicare parole e sono inutili, come Ivana Mrazova, puro adorno di uomini attempati; si è stufi di donne il cui talento è o si riduce a mostrare la “farfallina” di turno. Ecco una donna intelligente, professionale e divertente, anche se non bella, che con il suo talento intrattiene e diverte: scende le scale senza scarpe, perché, commenta, se non scendi senza qualcosa sembri fuori posto; “posso non dire parolacce?”, chiede, dicendo che ha studiato dai salesiani e per lei non è buona educazione. Ha dato a lezione a tutti, facendo ridere su quello che nella manifestazione non andava, e nel vedere Morandi chiederle se avesse mai lavorato per la Rai, gli si è letto nella mente che si è rammaricato di non averla chiamata prima.
E poi c’è la questione Celentano, re degli ignoranti, che predica, insulta, e regola conti personali attraverso lo schermo TV: pietoso nella forma e nel contenuto. Anche se è chiaro che il senso finale voleva essere “meno politica, più fede”, ha preso in ostaggio un programma per farne uno diverso, propinando un predicozzo qualunquista ed arrogante. Che canti, che è il suo mestiere. “Basta!” gli hanno urlato dal pubblico, ed è stato un sentimento condiviso, anche nei confronti della Rai, che si finge scandalizzata, ma chiaramente lo lascia sul palco perché sa che con la sua presenza avrà i numeri negli ascolti.
Luca e Paolo, tiepidi in apertura con il loro “Comici soli” (ma l’idea di una versione umoristica di un classico di San Remo continua a piacermi), in chiusura si sono presentati da pagliacci con una preghiera al Signore, parodistica e critica del Molleggiato: un bel commento. Per il resto gradevole Rocco Papaleo, ma poco incisivo come co-conduttore; bella la scenografia; un po’ manchevole la scrittura degli autori, che potevano prevedere materiale extra per Morandi un po’ perso nei momenti di empasse. A lui si vuole sempre comunque bene, e gli si perdonano anche i lapsus che in chiusura inanella per stanchezza. È una parte d’Italia, si vede e si sente.
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