In Blindspot, che ha debuttato ieri sera negli USA sulla NBC, una
donna che non ricorda nessun dettaglio della propria identità, Jane Doe (Jaimie
Alexander), viene ritrovata completamente nuda in un borsone nel mezzo di Time
Square a New York. Il suo corpo è interamente ricoperto di tatuaggi, che, si
scoprirà dopo, sono ciascuno legato ad un crimine da risolvere. Sulla schiena
uno di questi scrive il nome di Kurt Weller (Sullivan Stapleton), il locale
agente dell’FBI che non la conosce minimamente. Presto si scopre che la donna in questione ha
comunque conservato una memoria di tipo funzionale e ha competenze inaspettate,
parla il cinese in modo fluente ed è grande esperta di arti marziali. Alcuni
flashback rivelano che è stata lei a volersi far iniettare una sostanza che le
cancella la memoria per una missione di cui non si conoscono le ragioni.
L’inizio di questo progetto
ideato da Martin Gero e Greg Berlanti ha intrigato molti, ma non me. Una donna
nuda, spaurita, ricoperta di segni che non conosce, messa in una sacca e “priva
di identità” la vedo come la quintessenza della oggettificazione. E anche se
poi è lei l’eroina, quest’immagine si rifiuta di suscitare in me il fascino che
vedo ha colto molti critici. L’attrice riesce a rendere bene la vulnerabilità e
il senso di svilimento del personaggio. Le azioni in cui è coinvolta però,
ispirate alla pellicola coreana del 2013 The
Suspect e ai film del ciclo di The
Bourne Identity, non vanno al di là di esplosioni, salti in stile parkour e coreografiche
acrobazie – l’attrice è stata allenata in varie tecniche di combattimento come
jujitsu, judo, krav maga e preparata a utilizzare armi di ogni genere. Per quel
che mi riguarda, ben poco di cui entusiasmarsi.
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