sabato 31 dicembre 2016

I migliori (nuovi) programmi del 2016 secondo me


Come ogni anno indico quelli che secondo me sono stati i migliori programmi dell’anno, ma solo fra quelli nuovi. Per quello nella mia breve lista non troverete programmi come Black-ish o Crazy Ex-Girlfriend, The Americans o Rectify, che diversamente non potrebbero mancare. E questo però fa sì che purtroppo io non riesca nemmeno a inserire programmi potenzialmente meritevoli che non ho fatto in tempo a vedere entro l’anno, uno per tutti Atlanta.

I migliori nuovi programmi del 2016 sono stati per me:

  1. The Night Of: ne ho parlato qui.

  2. The Crown: recensito qui.

  3. American Crime: tecnicamente non è un programma nuovo, perché si tratta della seconda stagione (ne ho parlato qui), ma dal momento che è una serie antologica che si resetta totalmente ad ogni nuovo giro, se non negli interpreti quanto meno nelle storie e nei personaggi, mi sento legittimata a considerarla nuova.
Questi per me sono stati la crema della crema. Una onorevole menzione va anche a This is us, che si fa ogni giorno più stratificato (la puntata natalizia – 1.10 – in cui si è affrontato da più prospettive il tema della morte, ad esempio, è stata notevole). The A Word, The Path e Baskets sono sicuramente meritevoli. Molti hanno incluso nelle proprie liste Westworld e Stranger Things, ma io non ho completato la visione e per questo preferisco per ora non pronunciarmi in proposito.
Fuori dall’ambito della fiction, dai pezzi che se ne possono vedere online, Full Frontal with Samantha Bee è assolutamente grandioso, e rilevante, così come mi sento di caldeggiare Gaycation.

Per una lista delle liste, con il meglio del meglio secondo la critica, oltre a curiosare nelle liste da me indicate nei post precedenti, invito a curiosare sul sito di Metacritic che unisce le valutazioni delle maggiori testate. 

martedì 27 dicembre 2016

I migliori programmi del 2016 secondo FRESH AIR e il NYT


I migliori programmi del 2016 sono stati...

Secondo David Bianculli, critico di Fresh Air: 1. Better Call Saul; 2. Black Mirror; The Night Of; 4 e 5 a pari merito: The People vs e OJ Simpsons, e OJ: Made in America; 6. The Night Manager; 7. Last Week Tonight with John Oliver; 8. Shameless; 9. Game of Thrones; 10. Horace and Pete; Veep.

Secondo il New York Times:

James Poniewozic non numera la sue scelte, ma le elenca in ordine alfabetico, ricordando che questo genere di liste “(d)icono la verità mentendo. L’idea che un critico possa guardare tutta la televisione che c’è oggi, lasciamo stare isolare i 10 migliori lavori fra generi ampiamente differenti, è una finzione”. I programmi scelti sono: The Americans; Atlanta; BoJack Horseman; Crazy Ex-Girlfriend; Full Frontal with Samantha Bee; High Maintainance; Horace and Pete;  The People Vs. OJ Simpson: American Crime Story; Rectify; Transparent.

Mike Hale compila una lista di soli programmi internazionali: 1. Happy Valley; 2. Detectorists; 3. Gomorrah; 4. Chewing Gum; 5. Case; 6. Fleabag, e a pari merito Crashing; 7. My Hero Academia; 8. Glitch; 9. In the Line of Duty; 10. Catastrophe.

Neil Genzlinger, infine, sceglie i 10 muovi programmi più “outlandish”, più bizzarri: 1.  Bajillion Dollar Propertie$; 2. Stan Against Evil; 3. Debate Wars; 4. Dream Corp LLC; 5. Legends of Chamberlain Heights; 6. Flowers; 7. Braindead; 8. Mr Neighbor’s House; 9. Wrecked; 10. Vice Principals. 

venerdì 23 dicembre 2016

I migliori programmi del 2016 secondo THR e VARIETY


I migliori programmi del 2016 sono stati…

Secondo The Hollywood Reporter:

Tim Goodman, il critico principale, premettendo che non è umanamente riuscito a vedere tutto, come ogni anno, tanto più in un’epoca considerate di platino per la televisione, sceglie di segnalare i programmi che ha ritenuto migliori dell’anno, senza limitarsi ad un numero preciso, e ne sceglie 13 per i network, 38 per la TV cable.

Per la cable: 1. The Americans; 2. The People vs OJ Simpson: American Crime Story; 3. Atlanta; 4. Happy Valley; 5. Soundbreaking: Stories from the cutting edge of recorded music; 6. The A Word; 7. Rectify; 8. Black Mirror; 9. Game of Thrones: 10. Veep; 11. Horace and Pete; 12. Better Call Saul; 13. Fleabag; 14. Silicon Valley; 15. Mr Robot; 16. Westworld; 17. The Night Of; 18. Casual; 19. Catastrophe; 20. You’re the worst; 21. Better Things; 22. The Girlfriend Experience; 23. Stranger Things; 24. Dectectorists; 25. Orange is the New Black;  26. Insecure; 27. The Path; 28. People of Earth; 29. Teachers; 30. Last week tonight with John Oliver; 31. Full Frontal with Samantha Bee; 32: Orphan Black; 33. 11.22.63; 34. The Last Panthers; 35. London Spy; 36. Chance; 37. Gomorrah; 38. The Night Manager.

Per i network: 1. Crazy Ex-Girlfirend; 2. Jane the virgin; 3. Brooklyn Nine-Nine; 4 Bob’s Burger; 5. Black-ish; 6. Jimmy Kimmell Live!; 7. You, Me and the Apocalypse; 8. Late Night with Seth Meyers; 9. Fresh Off the Boat: 10. Speechless; 11. The Goldbergs; 12. The Good Place; 13. This is us.

Secondo Daniel Fienberg, critico in seconda, sono stati: 1.OJ: Made in America; 2. Rectify; 3 Atlanta; 4. BoJack Horseman; 5. Full Frontal with Samantha Bee; 6. The Americans; 7. Happy Valley; 8. Veep; 9. Halt and catch fire; 10. Horace and Pete; 11. American Crime Story: The People vs OJ Simpson.



Secondo Variety, sono stati:

Per Maureen Ryan: 1. Jane the virgin; 2. Rectify; 3. The People vs, OJ Simpson: American Crime Story; 4. Black-ish; 5. The Americans; 6. One Mississippi; 7. Crazy Ex-Girlfriend; 8. Atlanta; 9. Insecure; 10. Better Things; 11. Halt and catch Fire; 12. Full Frontal with Samantha Bee; 13. Catastrophe; 14. Last week tonight with John Oliver; 15. OJ: Made in America; 16. Fleabag; 17. Transparent; 18. Stranger Things; 19. Superstore; 20 Marvel’s Agent Carter.

A link trovate anche ulteriori link alla sua lista di migliori fra nuovi programmi e fra i vecchi.

Per Sonia Saraiya: 1. Atlanta; 2. Silicon Valey: 3. The Girlfriend Experience; 4. Halt and Catch Fire; 5. Fleabag; 6, The People vs OJ Simpson: American Crime Story; 7. Better Call Saul; 8. Unbreakable Kimmy Schmidt; 9. Insecure; 10. BoJack Horseman; 11. Rectify; 12. Frontline; 13. Black Mirror; 14. The Real O’Neals; 15. Lemonade; 16. Veep; 17. Superstore; 18. The Crown; 19. Crazy Ex-Girlfriend; 20. Lady Dynamite.


Ha scelto poi i 20 migliori episodi dell’anno.  

martedì 20 dicembre 2016

I migliori programmi del 2016 secondo EW e TV GUIDE


I migliori programmi del 2016 sono stati…

Secondo Entertainment Weekly: 1. OJ: Made in America; 2. Unbreakable Kimmy Schmidt; 3. The Americans; 4. The People vs OJ Simpson: American Crime Story: 5. Atlanta; 6. Better Things; 7. Rectify; 8. The Good Place; 9. Search Party; 10. Westworld; 11. Crazy Ex-Girlfriend; 12. American Crime; 13. Black-ish; 14. Mr Robot; 15. Documentary Now!; 16. Better Call Saul; 17. Roots; 18. Lady Dynamite; 19. Stranger Things; 20. Horace and Pete.

Secondo Tv Guide: 1. The People vs OJ Simpson: American Crime Story; 2. Stranger Things; 3. Better Call Saul; 4. The Night Of; 5. Atlanta; 6. Rectify; 7. The Good Place;  8. Crazy Ex-Girlfriend; 9. Westworld; 10. This is us.

sabato 17 dicembre 2016

I 10 programmi dell'anno secondo l'AFI


I programmi dell’anno, ovvero quelli ritenuti artisticamente e culturalmente significativi, secondo l’American Film Institute sono, in ordine alfabetico:

The Americans
Atlanta
Better Call Saul
The Crown
Game of Thrones
The Night Of
The People vs OJ Simpson: American Crime Story
Stranger Things
This is us
Veep


Per il cinema si veda a questo link

lunedì 12 dicembre 2016

Le nomination ai GOLDEN GLOBE 2017


Sono state annunciate oggi le nomination ai Golden Globe, premi della stampa strabiera presente ad Hollywood. Le statuette verranno consegnate il prossimo 8 gennaio. 

Miglior drama

The Crown
Game of Thrones
Stranger Things
This is us
Westworld

Miglior attore in un drama

Rami Malek, Mr Robot
Bob Odenkirk, Better Call Saul
Matthew Rhys, The Americans
Liev Schreiber, Ray Donovan
Billy Bob Thornton, Goliath

Miglior attrice in un drama

Catriona Balfe, Outlander
Claire Foy. The Crown
Keri Russell, The Americans
Wynona Ryder, Stranger Things
Evan Rachel Wood, Westworld



Miglior comedy o musical

Atlanta
black-ish
Mozart in the Jungle
Transparent
Veep

Miglior attore in una comedy o musical

Anthony Anderson, black-ish 
Gael Garcia Bernal, Mozart in the Jungle
Donald Glover, Atlanta
Nick Nolte, Graves
Jeffrey Tambor, Transparent

Miglior attrice un una comedy o musical

Rachel Bloom, Crazy Ex-Girlfriend
Julia Louis-Dreyfus, Veep
Sarah Jessuca Parker, Divorce
Issa Rae, Insecure
Gina Rodriguez, Jane the Virgin
Tracee Ellis Ross, black-ish



Miglior miniserie o film-TV

American Crime
The Dresser
The Night Manager
The Night Of
The People vs. OJ Simpson: American Crime Story

Miglior attore in una miniserie o film-TV

Riz Ahmed, The Night Of
Bryan Cranston, All The Way
Tom Hiddleston, The Night Manager
John Turturro, The Night Of
Courtney B. Vance, The People vs. OK Simpson: American Crime Story

Miglior attrice in una miniserie o film-TV

Felicity Huffman, American Crime
Riley Keough, The Girlfriend Experience
Sarah Paulson, The People vs OJ Simpson: American Crime Story
Charlotte Rampling, London Spy
Kerry Washington, Confirmation



Miglior attore non protagonista in una serie, miniserie o film-TV

Sterling K. Brown, The People vs OJ Simpson: American Crime Story
Hugh Laurie, The Night Manager
John Lithgow, The Crown
Christian Slater, Mr Robot
John Travolta, The People vs OJ Simpson: American Crime Story

Miglior attrice non protagonista in una serie, miniserie o film-TV

Olivia Colman, The Night Manager
Lena Headey, Game of Thrones
Chrissy Metz, This is us
Mandy Moore, This is us
Thandie Newton, Westworld


I Golden Globe premiano anche il cinema. Per la lista completa nelle varie categorie, si veda qui


sabato 10 dicembre 2016

THE CROWN: regale


Regale, sontuosa, elegante, precisa, misurata: può sicuramente vantarsi di essere tutto questo la serie di Netflix The Crown, ideata e scritta da Peter Morgan (The Queen e Frost/Nixon al cinema), incentrata sulla vita personale e politica della regina Elisabetta II d’Inghilterra ed erede ideale, come tipo di sensibilità, di Downton Abbey. La prima stagione di 10 episodi sarà seguita da una confermata seconda, ma il progetto totale è di 6 stagioni che dovrebbero ripercorrere in gran parte tutto il suo regno, con cambi di attori principali in corso di via (ogni due stagioni), presumibilmente per una questione di età degli interpreti. Si tratta di una delle serie più costose di sempre, spettacolosa in quanto a scenografie, costumi, cinematografia e valori produttivi in generale.

Si esordisce nel 1947 all’epoca delle nozze di Elisabetta (Claire Foy) con Filippo (Matt Smith, Doctor Who). A regnare è ancora il padre re Giorgio VI (Jared Harris, Mad Men) che morirà di lì a poco, alla Corona dopo l’abdicazione del fratello re Edward (Alex Jennings) che vi ha rinunciato per amore di Wallis Simpson (Lia Williams). La giovane regina, consigliata anche dal primo ministro Winston Churchill (John Lithgow), deve imparare a gestire la propria posizione, e con questo a ridefinire anche il proprio ruolo nei confronti dei propri familiari  - così come loro peraltro  dovranno fare con lei -, con il marito in primis, ma anche con la madre, la regina Mary (Eileen Atkins),  e con la sorella, la principessa Margaret (Vanessa Kirby), innamorata del colonnello Peter Townsend (Ben Miles).

Centrali nella costruzione della narrazione sono questioni di filosofia del diritto: da chi deriva il potere del sovrano, quali sono i suoi limiti, quali sono i rapporti fra la Corona e il Governo… Si insiste molto sul fatto che, nella concezione della monarchia britannica il potere rappresentativo della Corona viene da Dio: lo ricorda alla figlia la regina Mary (1.04), lo ribadiscono in occasione della solennissima cerimonia di incoronazione, mostrata in televisione, ma nascosta nel momento sacro dell’unzione (1.05), lo ripete Elisabetta bambina, in un flashback che la mostra impegnata a studiare diritto costituzionale (1.07). Indossare il diadema è un peso fisico, ma soprattutto metaforico, elemento enfatizzano anche nella diegesi, e il fardello che comporta è pure un concetto su cui si insiste molto: re Edward è disprezzato e ritenuto egoista per non aver voluto portarlo ed Elisabetta ritiene che lo zio avrebbe dovuto scusarsi con lei per averla messa nella posizione di farlo, così come Churchill la istruisce a non mostrare mai la fatica, ma a sorridere sempre di fronte al suo popolo (1.08). In campo c’è la difficile negoziazione del potere fra le istituzioni, ma anche e forse soprattutto l’equilibrio fra l’istituzione e la persona che la incarna (Elisabetta, Churchill), con un ventaglio di situazioni collegate, nell’intreccio fra vita pubblica e vita privata, che tenere separate comporta sacrifici continui.

Elisabetta non può andare a vivere dove vorrebbe così come non può scegliere il segretario personale che vorrebbe, il principe consorte non può volare o fare alcune manovre in volo senza il permesso del Governo (1.04), Churchill non accetta di vedersi fragile in un ritratto che gli viene regalato dal Parlamento per i suoi 80 anni perché nella sua immagine vede anche rappresentato l’esecutivo (1.09). Philip si sente minato nella sua mascolinità – una tematica che viene ripresa in più occasioni - e si lamenta che la moglie gli ha tolto la carriera, la casa, il nome (1.03); la sorella che vorrebbe sposarsi (1.06) deve rinunciare all’amore con il suo innamorato (1.10), inizialmente di fatto esiliato fuori dallo stato per due anni, perché il Gabinetto e la Chiesa non approvano; lo zio, escluso dalla cerimonia di incoronazione e ostracizzato di continuo per aver scelto l’amore, si esprime in più di un’occasione sulla crudeltà del sistema e dei suoi parenti; perfino la regina Mary si rammarica di come sia stata messa da parte proprio in un momento in cui avrebbe avuto più bisogno di sentirsi occupata, dopo la morte del marito (1.08).

Apparenza e sostanza viaggiano su due binari separati e per Philip è come il circo (1.08; 1.10). Quando intraprendono un lungo viaggio nei Paesi del Commonwealth, lui la vive come un equivalente di una tournee. La loro presenza è come dare una mano di vernice a una carretta arrugginita per dare l’impressione che vada tutto bene anche quando non è così. “È il nostro lavoro, è quello che siamo. La mano di vernice. Se i costumi sono abbastanza imponenti, se la tiara è abbastanza brillante, se i titoli sono abbastanza assurdi, la mitologia abbastanza incomprensibile, allora va ancora tutto bene”. Un valore su cui si insiste molto è quello dell’impassibilità e del silenzio, come modo per essere super partes e astenersi dal prendere posizione. La regina rappresenta tutti e come tale non deve mostrare la propria opinione. Non fare, non dire, restare neutrale: difficilissimo. Questa “freddezza” e questo riserbo sono condivisi dalla scrittura che sa utilizzare con molta finezza il non-detto, come è ben evidente dal pilot in cui re Giorgio capisce che deve morire presto da una seconda domanda al medico che non pone mai – quanto mi resta da vivere? - e che non ha bisogno di porre, o dalla realizzazione della morte del padre da parte di Elisabetta dal solo sguardo del marito (1.02).

Si tratta in fin dei conti di una sorta di Bildungsroman di una regina, con anche delle riflessioni su quello che è necessario per svolgere questo ruolo. Elisabetta, istruita nell’infanzia esclusivamente in diritto costituzionale ed esperta per il resto solo di cani e cavalli, capisce di non poter reggere una conversazione con i leader di stato che è chiamata a incontrare, si sente inadeguata, rimprovera la madre per averle impartito un’educazione insufficiente, assume un precettore. Sa solo l’essenziale, ma è un processo di apprendimento costante. La serie, si direbbe, crede nell’importanza di fare la differenza nel mondo, ma il modo in cui si fa questa differenza, a volte è inaspettato. Con impegno, una ragazzina che lo zio chiama Shirley Temple e la maggior parte di quelli che la circondano considerano mediocre, ma di cui Churchill vede la perspicacia e la potenzialità, riesce a condursi in modo esemplare. Una segretaria che legge a guarda ammirata il primo ministro, compara i propri risultati a quelli dello statista e si rammarica della differenza fra loro due, di fatto è morendo durante la grande nebbia londinese del 1952 (1.04) che fa la differenza.

La recitazione è di prim’ordine. Spiccano in particolare l’eccellente John Lithgow nel ruolo del residente al 10 di Downing Street, potente e in declino nello stesso momento, in parte motivato dall’ambizione in parte dal senso dell’onore e dell’impegno di dover guidare la giovane regina prima che su di lui cada il sipario; poi Claire Foy, fulcro di tutto quanto accade intorno a Buckingham Palace, in equilibrio fra innocenza e scaltrezza, fra volere e dovere, fra umanità e iconicità; e se non può non venire alla mente l’interpretazione al cinema di re Giorgio VI interpretato da Colin Firth ne Il Discorso del Re, Jared Harris non è sicuramente meno convincente. Vanessa Kirby, Matt Smith… tutti fanno davvero un lavoro eccellente.

In chiusura (1.10) si riprende in modo forte il tema conduttore di tutta la prima stagione. Ci sono due Elisabette, una in contrasto  con l’altra: la persona e la regina. La persona deve sopprimersi per il bene del regno. Non respira nemmeno, per usare le parole del fotografo che la immortala in un servizio nella season finale.  Il dovere ha la meglio sul resto (come sarà forzato destino per Margaret e Peter). Tutto questo perché, come ricorda la regina Mary alla figlia (1.02), “La Corona deve vincere. Deve vincere sempre”. 

martedì 29 novembre 2016

GILMORE GIRLS: A YEAR IN THE LIFE: magico


È stato perfetto, assolutamente perfetto, il ritorno su Netflix di Gilmore Girls, conosciuto in Italia con il titolo infantilizzante di Una mamma per amica, in quattro puntate speciali che hanno preso il nome di “A Year in the Life” (Un anno nella vita), “Di nuovo insieme” in italiano. Il lancio è stato il 25 novembre. La serie originaria, che aveva debuttato nel 2000, era durata 7 stagioni, ma l’ideatrice Amy Sherman-Palladino aveva lasciato, per dispute contrattuali, alla fine della sesta, e non ha potuto terminarla come aveva sempre pensato. Questa è stata l’occasione per il suo riscatto e per mettere sulla bocca dei personaggi quelle famose ultime quattro parole che ha detto di avere avuto presenti da sempre e che sono diventate una specie di piccolo mistero della serie. Non le rivelerò. Hanno chiesto hai fan di fare una solenne promessa di non farlo, e tengo fede all’impegno. Dico solo che le ho trovate appropriate, perché chiudono un po’ il cerchio, così come questi quattro nuovi appuntamenti (di 88 - 122 minuti) si aprono al gazebo dell’immaginaria Stars Hollow dove sono ambientate le vicende, e lì si chiudono. Si comincia con “Inverno”, poi “Primavera”, “Estate” e “Autunno”, la prima e l’ultima scritte e dirette dall’ideatrice, la seconda e la terza da Daniel Palladino, il marito da sempre coinvolto nella produzione come sceneggiatore/regista/produttore esecutivo.

Due precisazioni, prima di procedere. La prima è che ho seguito questa nuova tranche in originale, come ho fatto sempre in passato (pur avendo anche seguito molte puntate in italiano, occasionalmente). E ho scelto di non usare i sottotitoli italiani perché, anche a causa della velocità del dialogo, usarle le due lingue contemporaneamente sarebbe stato insostenibile. Se perciò la versione nostrana abbia in qualche modo alterato, e in che modo, il prodotto, non sono in grado (almeno in questi momento) di valutarlo. La seconda è che sono una fan della serie, e come tale ho cercato di gustarmela, ma come critica e come studiosa di media ho partecipato anni fa a una raccolta di saggi critici pubblicata dalla Syracuse University Press intitolata “Screwball Television: Critical Perspective on Gilmore Girls”, curato da David Scott Diffrient e David Lavery. È un progetto di cui vado fiera, e che sicuramente caldeggio a chi è in grado di leggere in inglese. Lì ho analizzato l’utilizzo a doppia lama dell’impianto liturgico e ritualistico della narrativa televisuale, una struttura per ragioni varie (incluso il formato) in gran parte scardinato nel revival, ma presente nel substrato della memoria dello spettatore, e rilevante nella visione: ora qui, in ogni caso, non mi soffermerò su questo.

Si erano lasciate le protagoniste principali che si dicevano un temporaneo addio. Mamma Lorelai (Lauren Graham) salutava la figlia Rory (Alexis Bledel) che aveva deciso di unirsi alla campagna elettorale di Obama. Si riprende con Rory che torna a casa brevemente a trovare la madre, e c’è un magnifico scambio iniziale, fortemente metatestuale, in cui le due donne osservano come sembra che siano passati anni da quando non si sono viste. Rory è ora laureata a Yale in giornalismo (ma non ha ancora una laurea specialistica, scopriamo poi), e sta cercando di sfondare come scrittrice. Ha pubblicato un pezzo per il New Yorker e sta cercando un ingaggio permanente in qualche rivista di successo. Lorelai vive con Luke e continua a condurre il suo bed & breakfast, il Dragonfly Inn. Il vero cambiamento riguarda anche fortemente nonna Emily (Kelly Bishop): è rimasta vedova. Edward Herrmann, che interpretava nonno Richard, è scomparso l’ultimo del’anno del 2014. Acutamente, i personaggi non tornano per il funerale, ma come nella vita reale, già del tempo è passato da quel momento che viene però ricordato e i cui effetti si sentono tutt’ora. La puntata è stata dedicata all’attore scomparso e il palpabile lutto è autentico, un po’ anche per noi spettatori. Io specificatamente poi ammetto di non aver potuto far a meno di pensare all’improvvisa scomparsa questa scorsa estate di David Lavery, uno dei due curatori del libro di cui sopra, a cui ero legata d’amicizia e che pure era ormai nonno. Che non fosse qui a vedere il ritorno delle ragazze Gilmore ha aggiunto una nota di tristezza.

Si è riso e si è pianto molto in queste quattro stagioni (atmosferiche, non televisive), per le bizzarre situazioni che sempre hanno caratterizzato la vita di questa confettosa cittadina del Connecticut, e per i momenti di crisi della propria vita e di perdita di orientamento, il senso profondo di questo revival, ritengo. La vera sensazione però è stata quella di un grande forte abbraccio per la gioia di aver rivisto tanti voti noti e amati, perché c’erano tutti, assolutamente tutti, ed è stato fantastico. Ovviamente Lorelai e Rory e Luke (Scott Patterson) e Emily; naturalmente i ragazzi ora uomini che negli anni si sono contesi il cuore di Rory: Dean (Jared Padalecki, Supernatural), Jess (Milo Ventimiglia, This is us) e Logan (Matt Czuchry, The Good Wife), con uno studiato equilibrio nella presenza di ciascuno, con scambi adeguati alla natura del loro rapporto - con chi finirà Rory, ci si è sempre chiesti: il risultato finale a me soddisfa; una fugace apparizione di Sookie (Melissa McCarthy, un po’ in forse inizialmente, visto il successo avuto successivamente dall’impegnatissima attrice), con magnifiche torte e riferimenti agli esordi; ma anche Michel (Yanic Truesdale) sempre snob e supponente; Paris (Liza Weil, How to get away with murder) arrabbiata e dittatoriale; Kirk (Sean Gumm), con l’ennesimo nuovo lavoro; Lane (Keiko Agenas), con la sua musica e un orecchio per l’amica; Taylor (Michael Winters), con i suoi progetti di miglioramento della città e le sue riunioni cittadine (e un musical!); la rigida Mrs Kim (Emily Kuroda), e un’istantanea apparizione del mai-visto-prima Mr Kim; Doyle (Danny Strong) la cui carriera nella finzione è quella dell’interprete nella realtà; la studiosissima April (Vanessa Marano, Switched at Birth); Miss Patty (Liz Torres), Jackson (Jackson Bellevile), Babette (Sally Struthers), Christopher (David Sutcliffe), Gypsy (Rose Abdoo), Caesar (Aris Alvarado), Francie (Emily Bergl, Men in Trees), Mitchum (Greg Henry), il preside della Chilton (Dakin Matthews), Paul Anka il cane e molti altri ancora. Alla fine perfino Richard. E le strade, i negozi, il gazebo…Che tripudio. Ogni momento è stato un ricordo, un piacere, una gioia, quasi da far mancare il fiato. Fino alla canzone finale che ci ha accompagnato negli anni come sigla, “Where you lead” (e la cantante che la interpreta, Louise Goffin, che fa una comparsa del ruolo della sorella del menestrello ufficiale della città).

A questa sensazione di sorpresa continua si sono aggiunti i numerosi cameo. Ci sono stati attori che hanno avuto ruoli nella serie Bunhead, sempre ideata da Amy Sherman-Palladino e con Kelly Bishop nel cast: Sutton Foster (Younger), Julia Goldani Telles (The Affair), Bailey De Young, Stacey Oristano. Ci sono stati attori Parenthood, del cui cast faceva parte Lauren Graham nel ruolo di Sarah Braverman. Ecco Mae Whitman, che interpretava la figlia di Sarah, Jason Ritter che interpretava un suo innamorato, Peter Krause che interpretava suo fratello ed è il suo compagno nella vita…  In qualche caso, magari questi attori recitano solo in una scena, ma la testa dello spettatore è come una pallina di flipper. Ci sono varie guest star (si veda qui e qui).  Alex Kingston (ER) ha un ruolo ricorrente, Christian Borle (Smash) partecipa al musical, Ray Wise (Twin Peaks) è un vecchio amico di Emily… Carolyn Hennesy, che qui ha il piccolo ruolo di Toni, del gruppo delle Figlie della Rivoluzione Americana a cui partecipa Emily, è un’attrice nota per il ruolo dell’avvocatessa Diane Miller in General Hospital, Nancy Linary, che qui interpreta Martha dello stesso gruppo, pure viene da lì e a venire presa in considerazione per unirsi a loro è una giovane donna interpretata da Julie Berman, la prima Lulu adulta di General Hospital. Nella serie originaria c’erano menzioni a questa soap. Che sia quello il collegamento? In più, ora come allora i riferimenti diretti e le citazioni alla cultura colta e pop sono costanti e sbalorditivi. Come non elettrizzarsi a sentire il “cinque per cinque” di Buffy, citata anche in un’altra situazione (in una esilarante battuta di Paris), o non sorridere che venga citato Narcos, che appartiene al carnet di Netflix. Intossicante. Tutto con dialoghi recitati alla velocità delle luce, da sempre cifra stilistica della serie.

La critica che è in me non ha visto tutto perfetto. Si è stati narrativamente solidi e qualcosa di nuovo si è anche detto, ma c’è stata qualche titubanza nella carburazione e c’è stata qualche rara sbavatura. Ammetto di avere anche qualche altra perplessità. Nondimeno, la fan che è in me è rimasta completamente e profondamente appagata. Voglio di più, voglio nuovi episodi. La chiusura si apre a nuovi scenari. Amy Sherman-Palladino (si veda THR, ma attenzione che è un articolo con spoiler) non ha escluso la possibilità, ma prima voleva vedere come sarebbero andate queste puntate. Sembra che, genericamente parlando, siano andate molto bene. Ora lei è impegnata con un nuovo pilot per la Amazon, The Marvelous Mrs Maisel, e anche una buona parte del cast è impegnato in altri progetti. Da qualche parte Scott Patterson ha ipotizzato la concreta fattibilità di un ritorno periodico in questa stessa modalità, se non proprio la ripresa di una serie vera e propria. Incrociamo le dita. Gilmore Girls: A Year in the Life è stato magico.

lunedì 21 novembre 2016

YOU ME HER: la prima commedia poliromantica


È la prima commedia poliromantica della TV seriale la deliziosa e coinvolgente You Me Her (Audience - DirecTV), che parla di un amore a tre – sulla stessa tematica la NBC sta lavorando al dramedy Love, Sex and Neighbors, e Shameless affronta la questione nella sua settima stagione (si veda THR in proposito).  

Jack (Greg Poehler, Welcome to Sweden) e Emma (Rachel Blanchard, Fargo) sono felicemente sposati, ma faticano ad avere un figlio e il motivo è che fanno ormai poco sesso. Manca la scintilla. Il fratello di lui, Gabe (Kevin O’Grady), gli suggerisce di procurarsi una escort e, sebbene Jack non sia troppo convinto, lui ci prova e così conosce Izzy (Priscilla Faia, Rookie Blue), studentessa neofita della professione che esplicitamente non prevede comunque il sesso fra le sue prestazioni. Izzy piace subito molto a Jack, ed è reciproca. Trascorrono una serata a bere e chiacchierare, finiscono per baciarsi e vanno un po’ oltre finché lui non mette un freno alla cosa, preso dal senso di colpa. A casa confessa tutto a Emma che, incuriosita, decide di fissare un appuntamento anche lei per conoscere Izzy e su lei pure fa un’eccellente impressione. Emma rivela chiaramente chi è e perché ha voluto conoscerla e, dopo un “lavoro di piede” sotto il tavolo, finiscono per amoreggiare nel bagno del locale dove si erano date appuntamento. Jack ed Emma si “risvegliano” sessualmente l’uno con l’altra ed Emma ammette con il marito di essere bisessuale. I giochi sono fatti, tutti e tre sono interessati. E se Jack ed Emma decidono di aprire il loro matrimonio a una terza partner, Izzy pure è intrigata e trascura quello che dovrebbe essere il suo ragazzo, Andy (Jarod Joseph), perché completamente presa dalla coppia che ha conosciuto. Inizialmente loro propongono di vedersi con lei a pagamento, in seguito, quando è chiaro che tutti e tre si stanno innamorano, rinunciano a quest’idea e cominciano a frequentarsi sentimentalmente e sessualmente.

Ideata e interamente scritta nella sua prima stagione da John Scott Shepherd e ispirata a un articolo apparso su Playboy dal titolo “Sugar on Top” di John H. Richardson, la serie funziona per due ragioni fondamentali. La prima è che è autenticamente romantica e coinvolgente, la seconda è che è realistica nel presentare una relazione non-monogamica nella società contemporanea. E la si mostra come una relazione legittima ed etica, non un tradimento di un più elevato ideale monogamico che è stato disatteso.

Jack ed Emma sono elettrizzati da come si sentono in compagnia di Izzy. È palpabile il senso di esaltazione amorosa, di positivo nervosismo nell’anticipare nuovi incontri. C’è una dimensione fisico-sessuale che è riscoperta di intimità e si mostra come  il sesso può rinvigorire un rapporto, ma questo non è fine a se stesso. I tre si scoprono felici e soddisfatti, c’è un senso di risveglio di passione e di comprensione e amore reciproci. Anche se la serie non usa mai il vocabolo in modo esplicito, si mostra l’applicazione di quella che è una parola chiave nella comunità del poliamore, ovvero “compersione”, che è un po’ l’opposto della gelosia, anche se può convivere anche con questa, ed è “lo stato di gioia empatica che si prova quando una persona che amiamo è felice con un altro suo partner”. (Poliamore – Glossario).

Per tutti loro c’è anche sorpresa nel provare delle emozioni profonde e trasformative in senso positivo in spazi che le convenzioni sociali normalmente non concedono. Jack ed Emma devono ripensare il proprio matrimonio come lo hanno sempre concepito, e Izzy tende, forse anche perché più giovane, a buttarsi a capofitto nelle cose, è affamata di connessione, ma rischia anche molto. Socialmente non è una cosa accettata facilmente: gli amici della coppia sanno e li coprono, ma loro si vedono anche costretti mentire su chi è Izzy per loro. E finiscono per essere ricattati dalla figlia di una vicina di casa. Non vivono nel mondo delle favole, ma nel mondo reale e hanno molto da perdere. Lei è un architetto con prospettive di avanzamento di carriera, lui un assistente rettore di una scuola superiore che ha come motto “integrità, onore, tradizione, eccellenza”. Nel pilot la telecamera – la regia è per tutte le puntate della prima stagione di Nisha Ganatra - mette in evidenza il primo e il terzo termine come a sottolineare che la sua condotta di vita può potenzialmente metterlo in contrasto contro questi principi che dovrebbe incarnare, specie in un momento in cui lo stanno prendendo in considerazione per una promozione. Izzy dal canto suo si sente in balia delle decisioni di due persone che già sono una coppia assodata. Va in profonda crisi, in alcuni momenti, e l’amica e compagna di stanza Nina (Melanie Papalia), nonché collega escort, ne raccoglie le confidenze.

Da parte di tutti e tre c’è una certa dose di coraggio nel concedersi la libertà di esplorare i propri desideri di fronte all’atteggiamento giudicante e disapprovante, potenziale o reale, della società che li circonda,  e l’onestà intellettuale ed emotiva di ammettere che potrebbero trovare la felicità e l’amore al di fuori delle norme culturali in cui sono immersi e che finora hanno condiviso, anche se loro stessi non lo avevano previsto. Parte della forza di You Me Her è l’abilità di presentare queste tematiche con cuore, ma anche con molto umorismo. Quando ad esempio tutti e tre fanno l’amore insieme per la prima volta (1.06) e le circostanze fanno sì che si presenti tutto il vicinato, con loro imbarazzati a cercare di spiegare la situazione, si rimane divertiti, oltre a vederlo come una sintesi in piccolo della posizione che si sentono di avere nei confronti della società più in generale.

“I love you”, si dice in inglese. “I love you more” (Ti amo di più) rispondeva sempre l’altro della coppia. Entra una terza persone e, come dicono i poster promozionali della serie, non si risponde “I love you too” (Ti amo anch’io), ma, con un omofono, “I love you two” (Amo voi due). 

mercoledì 9 novembre 2016

BRAINDEAD: un divertissement politico-fantascientifico


Non arriva né con sorpresa né con delusione la cancellazione dopo una sola stagione di Braindead (CBS, Rai4 in Italia con il sottotitolo “Alieni a Washington”), ideata dai coniugi King già autori di The Good Wife. La serie, sebbene solida, non è riuscita ad essere quella graffiante satira dell’attualità che ci si aspettava fosse, nondimeno ha comunque trasmesso con ironia il messaggio che voleva far passare: la politica americana, o forse la politica in genere, è contagiata da un virus, quello dell'estremismo. E quando questo accade, non importa se si è di destra o di sinistra, ma c’è una sorta di coincidentia oppositorum.  
Questo concetto la serie lo trasmette in modo allegorico: insetti di provenienza aliena, che hanno la forma di una sorta di formiche, arrivano sulla Terra e entrando nella testa delle persone attraverso le orecchie e si mangiano metà del loro cervello. I sintomi del "contagio", che può portare addirittura all'esplosione della testa, sono eloquenti rispetto al loro significato metaforico: perdita di equilibrio, incapacità di sentire, aggressività, disinteresse per l’intimità... oltre ad altro. Gli sceneggiatori acutamente ricordano, facendo diventare testo il metatesto (1.10), che la cultura letteraria ha fornito vari esempi di insetti usati evocativamente in maniera similare, e si citano lo scarafaggio di Kafka, le farfalle di Nabokov, il Grillo Parlante di Collodi.

Siamo a Washington. Laurel Healy (la deliziosa Mary Elizabeth Winstead), una documentarista per cui scarseggia il denaro per finire il progetto che le sta a cuore, decide di lavorare per il fratello Luke (Danny Pino), un politico democratico, ascoltando le richieste e le lamentele degli elettori. Nonostante l’opposta posizione politica, stringe amicizia e poi comincia ad avere un interesse sentimentale per Gareth (Aaron Tveit), capo del personale del rivale del fratello, Red Wheatus (Tony Shalhoub, Monk). Laurel si rende presto conto che alcune persone hanno cominciato a comportarsi in modo strano, e investiga insieme a Gustav (Johnny Ray Gill) e Rochelle (Nikki M. James) su questi insetti, che sono attratti dalla pancetta, amano la musica di The Cars, depongono le uova in fiori di ciliegio e hanno progetti di espansione sulla terra tanto che hanno progettato serre e disegnato i distretti elettorali come cerchi nel grano. Per non attrarre troppo l’attenzione parlando di creature aliene, si cercano esempi molto concreti e si citano la malattia di Lyme e il virus Zika (1.05 e oltre).

Molto è l’umorismo, a partire dall’originalissima modalità del riassunto delle puntate precedenti, realizzato in forma canora, e in un caso fatto della puntata un'altra vecchia serie televisiva, Gunsmoke, che si era preferito vedere al posto (1.11), ma questo non impedisce di trattare tematiche serie, come la tortura (1.07), la manipolazione delle informazioni (1.08), la cavillosità pretestuosa di certe argomentazioni (1.05), l’ostruzionismo, la guerra… Si carbura forse un po’ lentamente, ma in conclusione si rimane comunque appagati da quello che in definitiva è un piccolo divertissement a sfondo politico-fantascientifico.    

venerdì 4 novembre 2016

THIS IS US: famiglia, amore, vita


ATTENZIONE SPOILER. This is us (NBC) narra in parallelo le vicende di quattro persone nate lo stesso giorno, e fra loro c’è un collegamento particolare. Questo si sapeva già prima del debutto della serie. Alla fine del pilot si scopre il collegamento, che una sapiente messa in scena ha saputo celare fino in ultimo: le vicende non sono contemporanee, e le persone in questione sono un padre e i suoi tre figli.

Jack (Milo Ventimiglia, Heroes, Gilmore Girls) Pearson, nel 1980, giorno del suo 36esimo compleanno, diventa padre. La moglie Rebecca (Mandy Moore) aspettava 3 figli, concepiti in occasione del 14esimo Super Bowl, ma uno muore al momento del parto e decidono così di adottare un bebè nato quello stesso giorno, ma abbandonato dai genitori biologici. Al giorno d’oggi, i tre figli sono adulti. Kate (Chrissy Metz) è una donna che lavora come assistente per il gemello, che sin da bambina ha problemi di seria obesità, stato che si riflette sulla sua autostima; ad un gruppo di supporto di persone con problemi di peso incontra Toby (Chris Sullivan) che diventa il suo ragazzo. Kevin (Justin Hartley), il gemello, è un attore che è diventato famoso recitando il ruolo di “The Manny”, un au pair in una popolare sit-com; insoddisfatto della sua carriera e della scarsa considerazione che hanno di lui professionalmente, cerca di dare una svolta alla sua vita cercando ruoli più seri. Randall (Sterling K. Brown), che inizialmente doveva essere chiamato Kyle perché i figli avessero tutti l’iniziale K, ma che poi ha ricevuto il nome scelto dai genitori biologici, nero cresciuto in un mondo di bianchi, è un uomo d’affari di successo; da bambino è stato ritenuto più dotato del normale e mandato in una scuola apposita e da adulto fatica a spiegare quello che fa (1.06) ma è un “weather trader”, e da quello che si capisce è un operatore finanziario che si occupa di transazioni economiche legate al tempo atmosferico; è sposato con Beth (Susan Kelechi Watson) da cui ha due figlie, Annie (Faithe Herman) e Tess (Eris Baker); dopo varie ricerche riesce a trovare il padre biologico, William Hill (Ron Cephas Jones), detto Shakespeare, ex-tossicodipendente che ora ha un cancro allo stomaco al quarto stadio, che accetta di vivere con loro per recuperare per quanto possibile il tempo perduto.

Ideata da Dan Fogelman (Pitch, Galavant, e al cinema Cars e Crazy, Stupid, Love), la serie è un po’ il nuovo Parenthood e un po’ thirtysomething (Ken Olin è alla regia della seconda puntata): atmosfera familiare e buoni sentimenti, ma non a tutti i costi e senza ragione, ma nel tentativo di mostrare persone che cercano di essere al proprio meglio, pur con gli errori, le insicurezze, le delusioni e le batoste del quotidiano, con le gioie e i dolori della vita.  Qui si trova originalità nel taglio inusuale di guardare in contemporanea la vita di genitori e figli in modo sincronico, mostrando che cosa devono affrontare nel momento corrispondente d’età anagrafica. È illuminante e in questo modo si riesce a mette in una certa misura le persone sullo stesso piano.

Si esplicita un ulteriore livello della poetica in chiusura di “The Game Plan” (1.05). Kevin mostra alle nipotine un dipinto fatto da lui che illustra quello che gli ha evocato il copione dello spettacolo teatrale in cui è impegnato. È un sovrapporsi si linee variopinte intrecciate fra loro nel modo più incasinato possibile, in stile Pollock, per intenderci. Il senso è che la vita è piena di colori e quando arriviamo aggiungiamo il nostro colore al dipinto. E anche se la tela non è molto grande, va avanti sempre all’infinito. Ciascuno ha la propria parte di quadro, ma ci siamo tutti ovunque. C’eravamo prima di nascere e ci siamo dopo morti. E i colori che aggiungiamo sono aggiunti l’uno sull’altro, finché alla fine non siamo nemmeno più colori differenti, siamo un’unica cosa, un unico dipinto. Le persone che non sono più con noi perché non sono più in vita sono ugualmente con noi, ogni giorno, e ciascuno ha il suo spazio e ci incastriamo anche se non capiamo ancora come. Le persone che amiamo muoiono, ma questo, anche se non possiamo più vederle o parlare con loro, non significa che non siano ancora nel dipinto. Questo è il senso di tutto. “Non c’è morte. Non c’è tu, o me o loro. C’è solo noi. E questa disordinata, selvaggia, colorata, magica cosa che non ha inizio e non ha fine è proprio qui. Penso che siamo noi”. Infatti, come dice il titolo della serie: questo siamo noi.            

sabato 29 ottobre 2016

THE A WORD: l'autismo in primo piano


Già rinnovata per una seconda stagione, The A Word (BBC1), ha come protagonisti un bimbo autistico – la A del titolo sta appunto per ‘autismo’ - e i suoi familiari ed è stata sviluppata e interamente scritta da Peter Bowkers sulla base di una serie israeliana, Yellow Peppers di Keren Margalit.

Joe Hughes (Max Vento) ha 5 anni. Trascorre gran parte del suo tempo con delle enormi cuffie sulle orecchie, ascoltando canzoni di cui conosce testi e autori, e cantandole a voce alta – la colonna sonora che accompagna le vicende ha una certa pregnanza. Lo fa per tagliare fuori il mondo. Lo incontriamo la prima volta che cammina solo per una solitaria via immersa nella rigogliosa, fredda, silenziosa natura del Lake District nel nord-ovest dell’Inghilterra, finché un camioncino non lo va a riprendere e lo porta a casa. Glielo vedremo fare più volte nel corso delle 6 puntate della prima stagione, così come lo vedremo chiudere ogni volta la porta del tutto prima di aprirla per entrare da qualche parte. È un bambino diverso. E i familiari inizialmente non vogliono accettarlo, ma alla fine devono ascoltare le parole degli esperti. È bravo, gentile e affettuoso, ma ha significativi problemi di comunicazione, ha difficoltà nel processo uditivo, non nel senso di non riuscire a sentire, ma nel dar senso a ciò che sente e del dare priorità a quel che sente, ha difficoltà nella risposta emozionale e comportamenti di auto-rassicurazione. In una parola è autistico, ho meglio è nello spettro dell’autismo perché, spiegano e ribadiscono, non si tratta di un singolo disturbo e non è una malattia, ma si tratta di una serie di comportamenti che creano difficoltà nella comunicazione sociale. La diagnosi è dura per tutta la famiglia.

Mamma Alison (Morven Christie) in particolare non vuole l’etichetta, perché teme che la comunità del paese dove vivono finisca per ridurre suo figlio solo a quello. Cerca di fare il meglio per il piccolo, a rischio di prevaricare gli altri, e trascurando anche la figlia sedicenne Rebecca (Molly Wright) i cui problemi diventano invisibili.  Dopo che la sua prima storia di sesso e amore finisce male riesce a confidarsi più che con i genitori con gli zii che sono venuti a vivere vicini, Eddie (Greg McHugh) che ora gestisce il birrificio di famiglia, fratello della madre, e sua moglie Nicola (Vinette Robinson), che cerca la riconciliazione dopo averlo tradito. Per papà Paul (Lee Ingleby) si tratta del primo figlio biologico e quasi vorrebbe farne un altro per avere una seconda possibilità, pur essendo oberato di lavoro per l’imminente apertura di un gastropub. Nonno Maurice (il sempre eccellente Christopher Eccleston, in un cast tutto molto solido) non sempre ha il miglior rapporto con i figli (Alison e Eddie), pur cercando a modo suo di essere presente per il nipotino e la famiglia. Non  ha ancora superato del tutto la morte della moglie e instaura una relazione con la sua insegnante di musica Louise (Pooky Quesnel), che ha un figlio con la sindrome di Down.

Si comincia a parlare parecchio di autismo in TV, e il modello più vicino che viene alla mente in questo caso è quello di Parenthood, visto anche il similare approccio attraverso la lente del nucleo familiare. Ci sono diversi parallelismi. Qui in The A Word spesso ci sono domande e non risposte. Quale è il tipo di scuola migliore? Meglio lasciare Joe in una scuola “normale”, educarlo in casa o mandarlo in una scuola specializzata a trattare casi simili al suo? (1.02) Che tipo di sentimenti prova il piccolo? Troppi, troppo pochi? Bisogna forzarlo a provarne, a mostrarli? (1.05) Che tipo di relazioni e di vita potrà avere? C’è un Joe più reale di quello che si vede dentro quello che traspare? Per un momento (1.04) Alison si illude che possa essere miracolosamente guarito – gli aneddoti e qualche articolo di letteratura parlano di situazioni in cui, in momenti di febbre alta, i soggetti hanno una diminuzione della loro sintomatologia, cosa che accade a lui. Quale delusione risvegliarsi la mattina successiva e vedere che quella gioia era un’illusione, frammenti di una realtà che devono rassegnarsi a non poter avere. Il grande tema di fondo, legato alla sua situazione specifica, ma anche a quella di tutti i familiari, è quello della comunicazione, di come sia difficoltosa e poco lineare. Messi intorno a un tavolo da una terapeuta, le modalità di ciascuno di gestire il relazionarsi reciproco, talvolta disfunzionale, emergono esplicitamente.

La serie non ha soluzioni facili. È stata criticata perché manca di umorismo, quando certi comportamenti degli autistici spesso provocano involontaria ilarità, e perché nell’essere accurata è stata troppo da manuale, quando il fatto che c’è uno spettro dell’autismo significa proprio che c’è una certa varietà di fenotipi comportamentali, diciamo così, che hanno la propria specifica individualità. (The Guardian) Rimane spazio per superare questi eventuali limiti in stagioni successive. Il prisma dei rapporti familiari e interpersonali in generale sono quello che brilla in questa serie. Spesso i momenti migliori si hanno non quando si guarda direttamente alla tematica scelta, ma quando si mostra la quotidianità che nulla ha a che vedere con quello, ma che ne viene condizionata.