Già rinnovata per una
seconda stagione, The A Word (BBC1),
ha come protagonisti un bimbo autistico – la A del titolo sta appunto per ‘autismo’
- e i suoi familiari ed è stata sviluppata e interamente scritta da Peter
Bowkers sulla base di una serie israeliana, Yellow
Peppers di Keren Margalit.
Joe Hughes (Max Vento) ha
5 anni. Trascorre gran parte del suo tempo con delle enormi cuffie sulle
orecchie, ascoltando canzoni di cui conosce testi e autori, e cantandole a voce
alta – la colonna sonora che accompagna le vicende ha una certa pregnanza. Lo
fa per tagliare fuori il mondo. Lo incontriamo la prima volta che cammina solo
per una solitaria via immersa nella rigogliosa, fredda, silenziosa natura del Lake
District nel nord-ovest dell’Inghilterra, finché un camioncino non lo va a
riprendere e lo porta a casa. Glielo vedremo fare più volte nel corso delle 6
puntate della prima stagione, così come lo vedremo chiudere ogni volta la porta
del tutto prima di aprirla per entrare da qualche parte. È un
bambino diverso. E i familiari inizialmente non vogliono accettarlo, ma alla
fine devono ascoltare le parole degli esperti. È bravo, gentile e
affettuoso, ma ha significativi problemi di comunicazione, ha difficoltà nel
processo uditivo, non nel senso di non riuscire a sentire, ma nel dar senso a
ciò che sente e del dare priorità a quel che sente, ha difficoltà nella
risposta emozionale e comportamenti di auto-rassicurazione. In una parola è
autistico, ho meglio è nello spettro dell’autismo perché, spiegano e ribadiscono,
non si tratta di un singolo disturbo e non è una malattia, ma si tratta di una
serie di comportamenti che creano difficoltà nella comunicazione sociale. La
diagnosi è dura per tutta la famiglia.
Mamma Alison (Morven
Christie) in particolare non vuole l’etichetta, perché teme che la comunità del
paese dove vivono finisca per ridurre suo figlio solo a quello. Cerca di fare
il meglio per il piccolo, a rischio di prevaricare gli altri, e trascurando
anche la figlia sedicenne Rebecca (Molly Wright) i cui problemi diventano
invisibili. Dopo che la sua prima storia
di sesso e amore finisce male riesce a confidarsi più che con i genitori con
gli zii che sono venuti a vivere vicini, Eddie (Greg McHugh) che ora gestisce
il birrificio di famiglia, fratello della madre, e sua moglie Nicola (Vinette
Robinson), che cerca la riconciliazione dopo averlo tradito. Per papà Paul (Lee
Ingleby) si tratta del primo figlio biologico e quasi vorrebbe farne un altro
per avere una seconda possibilità, pur essendo oberato di lavoro per l’imminente
apertura di un gastropub. Nonno Maurice (il sempre eccellente Christopher
Eccleston, in un cast tutto molto solido) non sempre ha il miglior rapporto con
i figli (Alison e Eddie), pur cercando a modo suo di essere presente per il
nipotino e la famiglia. Non ha ancora
superato del tutto la morte della moglie e instaura una relazione con la sua
insegnante di musica Louise (Pooky Quesnel), che ha un figlio con la sindrome
di Down.
Si comincia a parlare
parecchio di autismo in TV, e il modello più vicino che viene alla mente in
questo caso è quello di Parenthood,
visto anche il similare approccio attraverso la lente del nucleo familiare. Ci
sono diversi parallelismi. Qui in The A
Word spesso ci sono domande e non risposte. Quale è il tipo di scuola
migliore? Meglio lasciare Joe in una scuola “normale”, educarlo in casa o
mandarlo in una scuola specializzata a trattare casi simili al suo? (1.02) Che
tipo di sentimenti prova il piccolo? Troppi, troppo pochi? Bisogna forzarlo a
provarne, a mostrarli? (1.05) Che tipo di relazioni e di vita potrà avere? C’è
un Joe più reale di quello che si vede dentro quello che traspare? Per un
momento (1.04) Alison si illude che possa essere miracolosamente guarito – gli
aneddoti e qualche articolo di letteratura parlano di situazioni in cui, in
momenti di febbre alta, i soggetti hanno una diminuzione della loro
sintomatologia, cosa che accade a lui. Quale delusione risvegliarsi la mattina
successiva e vedere che quella gioia era un’illusione, frammenti di una realtà
che devono rassegnarsi a non poter avere. Il grande tema di fondo, legato alla
sua situazione specifica, ma anche a quella di tutti i familiari, è quello
della comunicazione, di come sia difficoltosa e poco lineare. Messi intorno a
un tavolo da una terapeuta, le modalità di ciascuno di gestire il relazionarsi
reciproco, talvolta disfunzionale, emergono esplicitamente.
La serie non ha
soluzioni facili. È stata criticata perché manca di umorismo, quando certi
comportamenti degli autistici spesso provocano involontaria ilarità, e perché
nell’essere accurata è stata troppo da manuale, quando il fatto che c’è uno
spettro dell’autismo significa proprio che c’è una certa varietà di fenotipi
comportamentali, diciamo così, che hanno la propria specifica individualità. (The
Guardian) Rimane spazio per superare questi eventuali limiti in stagioni
successive. Il prisma dei rapporti familiari e interpersonali in generale sono
quello che brilla in questa serie. Spesso i momenti migliori si hanno non
quando si guarda direttamente alla tematica scelta, ma quando si mostra la
quotidianità che nulla ha a che vedere con quello, ma che ne viene condizionata.