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Si
rincorrono i tributi alla memoria dello chef-narratore e personalità televisiva
Anthony Bourdain, che si è tolto la vita nei giorni scorsi. Mi piaceva molto e
mi ha rattristato la sua scomparsa. Mi sono resa conto che “avevo nel cassetto”
alcuni “appunti”, scritti ancora nel 2011, sulla quinta stagione di No
Reservations with Anthony Bourdain. Non li avevo mai pubblicati perché mi mancavano delle puntate da vedere.
Non importa, lo faccio ora anche così. È il mio piccolo modo di rendergli
omaggio.
Ogni
città ha uno stile e un’atmosfera tutta sua e Bourdain ne tiene conto nel modo
con cui la racconta. Scrive, viaggia, mangia… e parla con le persone, famose al
grande pubblico e famose per coloro per cui cucinano ogni giorno, fosse anche
solo per i propri familiari. Le relazioni fra le persone sono importanti tanto
quanto il cibo, si costruiscono attraverso di esso e rendono l’esperienza del
suo consumo più ricca e intensa. E lui vi si sofferma, chiedendo spiegazioni,
accomodandosi intorno al tavolo delle case che la gente apre per lui mettendosi
così a sua disposizione. Un misto di vita sociale e di esperienze gustative casalinghe.
In un mondo globale si mostra l’eccezionalità dei luoghi singoli, dove
permangono tradizioni conservate spesso da tempi immemorabili. Irripetibili. Il
locale sopravvive su tutto con la sua ricchezza, particolarità, gusto.
Mexico
(5.01). Prendersi il tempo di fare le cose per bene. Ore di
lento sobbollire. Persone che ti parlano attraverso il cibo, ti dicono qualcosa
su di sé, della propria famiglia, del loro Paese, della loro zona, della loro
città, e alcuni dei venditori di cibo di strada più veloci del mondo. Guida è
il suo amico-cuoco Martin, entrato negli Stati Uniti in modo illegale a 17
anni, per poi trovare successo dietro ai fornelli e riuscire a ottenere in
seguito la cittadinanza. Dieci anni ci sono voluti perché tornasse nel suo
Paese la prima volta. Un corrida, le tacos, bevande impronunciabili, l’isola
delle bambole, dove bambole mostruose tengono lontani gli spiriti… Le mani del
Messico: persone che fanno le cose a mano, tutto a mano, quello stesso
giorno; il passaggio del cibo da una
mano all’altra. L’abile preparazione dei piatti, sapori, consistenze, colori,
dice qualcosa di personale: da dove viene il cuoco, qui è dove sono stato,
questa è la mia storia, questo è quello che amo.
Venezia
(5.02). Un ritratto incantato fra calli e canali, fra gli
echi del passato e le suggestioni del presente, fra palazzi, ristoranti e
tavole di casa in giardino e trattorie e bacari. In Piazza San Marco, alla
Giudecca, a Burano, a Marghera, al Lido… Si scopre la Venezia più tipica, dai
cicchetti (che però sono bicchierini alcolici, non stuzzichini, nel solo
piccolissimo fraintendimento in un abbondantissimo rincorrersi di specialità)
alle ombre, dalle moleche
al fragolino, al fegato alla veneziana, alle sarde in saor, baccalà
mantecato, bigoli in salsa, risotto Go e pasta: perché “senza la pasta la vita
è un peccato contro Dio e tutto ciò che c’è di buono e decente a questo mondo”.
Veneziani come artisti, in cucina e fuori, con passione, pazienza, e la piccola
presunzione di essere migliori degli altri. È catturata nella sua essenza e
scoperta di nuovo anche per chi la conosce bene, con osservazioni pregnanti e
un sapiente uso di filtri che trasmette il senso della storia e della civiltà
che si condensa sulle superfici di Venezia. Una lettura colta e golosa.
Washington
DC (5.03). Città visibile e invisibile, di potere e
di impotenza, città dove ci sono bellissimi monumenti a rappresentare
bellissime idee: così la descrive Bourdain dopo un inizio in cui le
interruzioni di aerei, elicotteri, macchine, sirene, bambini hanno bloccato
qualunque ripresa. Dal locale di chili esistente dai tempi di Martin Luther
King, all’apparente banale tipico hamburger vicino al “museo delle spie” sulla
cui “arte” impara qualche trucco, alla conversazione con George Pelecanos, al
pollo di cui tutti parlano, al megacentro di specialità vietnamite fra cui uno
dei tanti locali tipici prepara carne cruda molto lunga da masticare accanto a
formaggio fatto in casa, da raccogliere con un pane spugnoso e immergere in una
salsa fatta fermentare perfino con la coca-cola, agli artistici assaggini di un
raffinato mini bar, all’ex-galeotto che lavora in una cucina che non solo aiuta
gli affamati, ma insegna un mestiere ai fornelli e offre un futuro a persone
che non ne avrebbero uno diversamente… La capitale non è solo potere e
politica, ma gente comune, con passati talvolta difficili, che lavora
duramente.
Le
Azzorre (5.04). Il verde, l’Oceano, la natura rude, i
“buchi” nella terra che odorano come se le terra scoreggiasse, le isole
sperdute dove si mangiano frutti di mare, la terra incontaminata e i sapori che
mescolano oceano e Mediterraneo, staccandosi da quest’ultimo e dal vicino
Portogallo in modo deciso, nella percezione di una identità autonoma.
Chicago
(5.05). La sola altra metropoli degli Stati Uniti, secondo
il conduttore, a parte New York. I migliori hot-dog del mondo e il miglior
panino, una bomba chiamata “i tre porcellini”, e una quantità di cibi da strada
“cattivi” in senso buono e cibi iper-raffinati di pesce e frutti di mare, o di
cucina “terroristica”, dove anche il menù è commestibile. Una metropoli, ma
rilassata.
Food
Porn (5.06). Cibo e pornografia usano un “linguaggio
visuale” simile e in questo parallelo tracciato da Bourdain è facile vedere
fino a che punto: dalle inquadrature dei dettagli, ai mugugnii di piacere, al money
shot dei programmi televisivi. Ma pornografia è anche piacere di guardare
senza poi di fatto fare, e quello è anche il senso di “pornografia del cibo” in
questa puntata: i cuochi più diversi preparano per Bourdain (mentre lui li
guarda da una sala cinematografica) quello che è per loro il non plus ultra
del cibo, siano capelli d’angelo in una salsa di ricci di mare e una copertura
di caviale o sia un uovo basotto ricoperto da una fonduta di formaggio e
scaglie di tartufo nero. Giapponese, coreano, francese e italiano che trovano
unità creativa sotto lo stesso menù al Momofuku per un originalissimo pantagruelico
pasto che vede il cuoco dichiarare che pane e burro sono per lui la pornografa
del cibo. Il maiale usato in tutte le sue parti, dalla coda ripiena al naso, da
una impossibile ghiottoneria all’altra appoggiate, una volta cotte, in modo da ricostruire l’animale su un tagliere che ne
riproduce l’immagine, pezzo per pezzo: sono la specialità di un gruppo di
cuochi che se lo consumano mezzi nudi. Cioccolata trattata in modo tale da
sembrare gioielli. Il porno personale di Bournain: pho vietnamita, una zuppa di
pasta lunga, carne, verdure e ingredienti vari – calda, gustosa, “slurp”osa. E
si vuole una versione culinaria di qualche feticcio? Basta andare magari in
Corea o in qualche altra parte del mondo dove i piatti qui guardati sono
comunemente apprezzati – insetti compresi. Piacere, voluttà, peccato. A volte
viene in forma semplice, altre volte in vesti sofisticate. Un’orgia di cibo di
proporzioni epiche.
Filippine
(5.07). Polpettine di pollo fritte immerse in salse e
mangiate da un lungo stuzzicadenti, tofu con sciroppo di tapioca bevuto da un
bicchierino di plastica, “pansit” (tagliolini di pasta di riso conditi in modo
vario)… Un giro in una “dampa”, mezzo mercato, mezzo locale dove ti cucinano a
piacimento ciò che hai comprato. Un vero melting pot in cui è difficile
indicare le influenze culinarie e in cui il cibo nazionale è l’adobo (ovvero
qualunque combinazione di cibo passata con aglio, cipolla, peperoncini
piccanti, salsa di soia). Tanto latte di cocco. Sisig.
La
Manhattan che sta sparendo (5.08), lo Sri Lanka (5.09)
Vietnam
(5.10). Un viaggio fra passato e presente, un Paese dove la
guerra del Vietnam è chiamata “la Guerra americana”, dove marito e moglie
subito dopo sposati hanno dovuto combattere uno contro l’altro negli scontri
fra Vietnam del Nord e del Sud. Un Paese brulicante di gente dove Bourdain
pensa di magari trasferirsi un anno con la famiglia e dove dice addio a una
cuoca che si è presa cura di lui e di
cui incontra la famiglia e alle cui ceneri rende omaggio. Un Paese dove la gente vive ancora in gran
parte come un secolo fa e dove il tempo si ferma il lasso di una deliziosa
minestra calda, un Paese che sembra immune alla globalizzazione salvo poi
scoprire nel centro boutique di Dolce & Gabbana, Luis Vuitton, Gucci. Le
campagne delle risaie, il locale dove si cucina illegalmente che si nasconde
per il tempo di un passaggio della polizia per poi riprendere alacremente, le
baguette farcite di ogni ghiottoneria…
Chile
(5.11), Australia (5.12), la Rust Belt (5.13), Cibo di strada
(5.14), San Francisco (5.15), la Tailandia (5.16), Montana
(5.17), Domande Scottanti (5.18), Quartieri Esterni di New York
(5.19).
Sardegna (5.20). Casa. È quella la sensazione che dà a Bourdain
la Sardegna, e per una ragione molto specifica. Sua moglie Ottavia è italiana e
i suoi familiari abitano in Sardegna. È perciò tutta la famiglia quella che lui
ha reclutato per portarci in provincia di Nuoro, ad Oristano e in altre
località dell’isola. Pane Carasau con pecorino, salumi e vino rosso;
malloreddus; pasta con la bottarga che gli mette la scintilla negli occhi;
ricotta fresca ricoperta con un filo di miele; carne d’asino. Di specialità ne
assaggia molte, come sempre, gira per le strade, ammira i graffiti sui muri,
conversa infilando qui e lì una parola di italiano. E coglie al volo il fatto
che per molti italiani, con una cucina così, uscire a mangiare al ristorante è
quasi un “character flaw”, un difetto del carattere. Come è vero!
Come
sempre, anche per la quinta stagione, di 20 puntate, tanti luoghi, tante
ghiottonerie e tanta cultura.
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