È
stata costruita con sensibilità e acume la serie Sorry for you loss, trasmessa su Facebook Watch (canale televisivo
di Facebook: qui il link
per vederla), per una prima stagione di 10 puntate che ha raccolto eccellenti
recensioni. Gli argomenti principali sono il lutto, la depressione e il
suicidio, per cui evidentemente non si tratta di tematiche allegre. Il registro
è drammatico, ma non da svenamento, il tocco non è esattamente leggero, ma non
è nemmeno tale da provocare acuto dolore nello spettatore.
Leigh Shaw (Elizabeth
Olsen) è recentemente rimasta vedova, si è presa un’aspettativa dal lavoro di
giornalista di una rubrica di consigli per il sito web Basically News e si è trasferita a vivere con la madre Amy (Janet
McTeer), che gestisce una sua palestra, la Beautiful Beast, e la sorella Jules
(Kelly Marie Tran), ex alcolista che lavora come insegnante di fitness presso
la madre. Leigh, fresca del lutto - il titolo è l’equivalente italiano di “spiacenti
della tua perdita” e la sigla di fissa su questa scritta fra una serie di
messaggi di condoglianze che appaiono e scompaiono dallo schermo – rivive nei
ricordi il marito Matt (Mamoudou Athie), un insegnante di inglese con ambizioni
da fumettista che soffriva di seri problemi di depressione, e cerca di superare
il lutto, grazie anche alla presenza del fratello di lui, Danny (Jovan Adepo),
con cui però ha un rapporto conflittuale. Rimane il dubbio: la
morte di Matt è stata incidente o suicidio?
Ideata da Kit
Steinkellner, la serie tocca un tema caldo del momento nel panorama televisivo,
quello del lutto, presente in forme diverse, ma in qualche caso unito ai temi
della depressione e del suicidio come qui. Possiamo
pensare a titoli come The First, A Million Little Things, Kidding, The Haunting of Hill House, This is us…
Gli aspetti affrontati
sono molti: di chi è e a chi appartiene il lutto, che non è l’esclusiva di una
sola persona, la presenza o l’assenza degli altri come testimoni della propria
sofferenza, l’effetto sugli altri e la reazione e le aspettative altrui al
proprio dolore, il senso e la risposta alle condoglianze, i tempi necessari a
superare una perdita, il comparare il dolore (“tu puoi avere un altro marito,
io non posso avere un altro fratello” – 1.01), il che cosa sia di conforto, lo
sforzo personale per superare la sofferenza, il significato degli oggetti
legati ai ricordi, la consapevolezza che molto delle persone non si conosce, i
piccoli dettagli, le reazioni emotive
inaspettate, come ci comportiamo con chi ci è vicino in momenti in cui siamo
fortemente provati e vulnerabili, la ricerca di senso, il desiderio di rendere
onore alla persona venuta a mancare, la felicità e le aspettative realistiche
dalle relazioni, le cicatrici…
La protagonista,
coraggiosamente da parte della narrazione, non è solo triste, ma è un groviglio
di emozioni, ed è intrattabile, a lungo, prende male tutto quello che le dicono.
Il riportare alla memoria è centrale: talvolta è un ricordo cosciente, a volte
compiuto, altre volte volatile, in qualche caso è a cascata – un pettitino
trovato in un cassetto innesca il ricordo delle nozze, poi del funerale (1.08)
– o frammentario e fuggevole – Leigh non ricorda la battuta che Matt le ha
raccontato quando si sono conosciuti a un party, che poi finalmente le sovviene
(1.10).
Il parlare, o il non
farlo, è una colonna importante di riflessione. In un gruppo di auto-aiuto la
vedova condivide le proprie emozioni, ma nella vita reale spesso preferisce
tecere, mentire o comunque non dire della morte del proprio marito. A chi dirlo?
Quando dirlo? Si dice o non si dice per se stessi o per gli altri? “Qualche
volta l’atto più generoso è tenersi le cose per sé” (1.07) viene detto ad un
certo punto (con echi trasversali rispetto alle storyline della puntata). Se
non dirlo alla donna che ora vive felice nella casa che tu abitavi con lui può
avere senso (1.09), non rivelarlo all’uomo con cui fai l’amore e che vorrebbe
una storia con te sembra irrispettoso (1.10). Si ha occasione di meditare a
lungo su questi aspetti visto che la ritrosia verbale è reiterata.
“Se il dolore finisce, lui è andato” (1.10). È una serie dolorosa, sul
dolore. Il senso è che la morte non è la fine del mondo, ma è la fine di un
mondo, è imparare a vivere di nuovo con il dolore, a sopravvivere, a superarlo
(1.01), mantenendo intatto il legame con la persona persa. È
anche addentrarsi, come nelle favole si entra nella foresta, nel luogo che in
assoluto fa più paura, per scoprire chi si è (1.10). Anche come
spettatori.