giovedì 31 dicembre 2020

La LISTA DELLE LISTE dei migliori programmi del 2020

Come ogni anno Metacritic compila una lista delle liste con il meglio della produzione dell’anno appena trascorso secondo le liste di fine anno dei critici televisivi delle maggiori testate.

Qui trovate il report con l’indicazione dei criteri con cui la lista è stata compilata. La lista viene aggiornata fino a fine gennaio per cui può subire variazioni nel tempo e conviene andare sulla pagina ufficiale per vedere il risultato finale.

Al mio scrivere, i migliori programmi TV del 2020, sono stati giudicati:

1. I May Destroy You

2. Better Call Saul          

3. The Queen's Gambit

4. Ted Lasso      

5. Normal People           

6. Mrs. America               

7. What We Do in the Shadows

8. Schitt's Creek              

9. How to With John Wilson

10. The Mandalorian

11. The Crown

12. The Last Dance

 BoJack Horseman

14. The Good Lord Bird

15. Better Things

16. PEN15

17. The Boys

18. The Great

19. Lovecraft Country

20. Never Have I Ever

 P-Valley Starz

22. The Good Place

23. City So Real

24. Small Axe

25. The Baby-Sitters Club

 I Hate Suzie

 Harley Quinn DC Universe

domenica 27 dicembre 2020

LE MIGLIORI NOVITÀ del 2020, secondo me

 

Chi mi segue da tempo sa che a fine anno non indico mai quelli che per me sono i programmi migliori dell’annata, ma restringo la mia lista a quelli nuovi che valuto meritevoli, per quanto produzioni già avviate in precedenza riservino indubbiamente ottime visioni. Per il 2020 non potrei prescindere da The Crown, Sex Education, Ramy, The Good Fight, l’Amica Geniale, After Life e con ogni probabilità diversi altri programmi ancora.


 Ma ecco le migliori novità, secondo me.  

Normal People: forse perfino meglio del già fantastico libro. Per me quest’anno ha svettato su tutto. Ne ho parlato qui.

The Great: esilarante come poche. Prima di Normal People credevo che per me avrebbe avuto il podio. Qui la mia recensione.

I May Destroy You: una argomento scomodo e un personaggio respingente, ma una serie notevole – qui quello che ne ho pensato.

Mrs America: la storia del femminismo che merita di continuare a venire raccontata: qui.

Unorthodox: non tornerà perché era una miniserie, ma potente. Qui il mio post.

Little America: una serie antologica – ne ho scritto qui.

Lovecraft Country: ovvero quando il risveglio delle coscienze al razzismo impone di riscrivere la narrativa con cui si descrivere la realtà: qui.

I Hate Suzie: conto di parlare prossimamente di questa serie britannica in 8 puntate in cui Billie Piper, anche co-autrice, interpreta un’attrice la cui vita viene sconvolta quando un hacker ruba dal suo cellulare delle foto compromettenti di natura sessuale.

The Hunting of Bly Manor: la seconda incarnazione di The Haunting, serie antologica dedicata ad ogni stagione ad una diversa magione, è questa volta ispirata a un romanzo di Henry James e riesce a coinvolgere e ad andare al di là del racconto di genere. Già la prima stagione mi era piaciuta (sebbene non ne abbia mai scritto), questa altrettanto.


E una menzione onorevole va a:

Zoey’s Extraordinary Playlist: ne ho parlato qui solo al debutto, ma è cresciuta nel tempo e continuerò sicuramente a seguirla.

Never Have I Ever: Non ho avuto ancora occasione di scriverne, ma questa serie per adolescenti è realizzata con garbo ed è appropriata all’età.


Purtroppo, come sempre, e forse anche di più, dato il moltiplicarsi delle produzioni, alcune serie, che da quello che leggo potrei ritenere meritevoli, semplicemente non ho ancora avuto l’occasione di vederle. Penso a titoli come The Queen’s Gambit, The Good Lord Bird, P-Valley, The Boys


martedì 22 dicembre 2020

DASH & LILY: romantico e natalizio

 

Più che una serie è un film espanso diviso in tanti segmenti quante sono le puntate ma, sia quello che sia, Dash & Lily (Netflix) è una rom-com adorabile e perfettamente riuscita in particolare perché, per una volta, l’amore fra i due non nasce dal nulla per il solo fatto di essere scritto su un copione, ma si capisce che cosa attragga l’uno dell’altra. Certo, ci sono coincidenze ed elementi scontati, ma poco importa, sono declinati con leggerezza e brio, ed è un perfetto escapism romantico natalizio sullo scenario di una New York vestita a festa.

Lily (Midori Francis)  è una diciassettenne che adora il Natale. Quest’anno, i suoi genitori, che non glielo hanno detto ma dovranno trasferirsi per lavoro, vanno alle Fiji durante le feste; il nonno (James Saito), con cui solitamente trascorre gran parte del suo tempo, lascia la città per raggiungere una sua fiamma con cui vorrebbe potersi sposare; il fratello Langston (Troy Iwata) ha un ragazzo, Benny (Diego Guevara),  con cui trascorre romantiche giornate e serate; a lei rimangono solo gli amici adulti con cui va a cantare le Christmas carols in giro per la città. Si sente sola.

Dash (Austin Abrams) pure è un adolescente, e odia il Natale. I genitori, separati, pensano che sia uno a casa dell’altro; la sua ex Sofia (Keana Marie) si è trasferita altrove, ma torna giusto in tempo per rischiare di essere un ostacolo al suo futuro sentimentale, e il solo ad essergli vicino è l’amico Boomer (Dante Brown) che lavora in una pizzeria.

Langston dà a Lily un gran suggerimento: mettere un’agenda rossa accanto ai libri che preferisce, nella sezione dedicata a Salinger, nella sua libreria del cuore, con delle iscrizioni per chi lo troverà e delle “sfide”. E così lei fa. Il diario viene trovato da Dash. Loro imparano a conoscersi vicendevolmente proprio attraverso quelle pagine che si passano l’un l’altra con istruzioni varie.

In questo modo si confidano, ma riescono anche a spingersi ad essere delle versioni migliori si se stessi, imparando a lanciarsi in situazioni inusuali e a rilassarsi, e a essere più coraggiosi emozionalmente. Non ricordo a chi va attribuita la frase per cui bisognerebbe innamorarsi con gli occhi chiusi, ma qui è quello che avviene, in un certo senso, perché sebbene i protagonisti si incontrino anche in un paio di occasioni, senza saperlo, tutta la loro relazione si costruisce in absentia. Qui appunto non c’è il grande amore a prima vista o l’irresistibile attrazione, ma i personaggi si innamorano mostrandosi reciprocamente quello che pensano e provano, ammettendo le proprie paure e vulnerabilità. Nel loro essere separati, ma uniti, sono anche particolarmente adatti a questa situazione di pandemia.

Io non conosco la città a sufficienza da accorgermene da sola ma Meghan O’Keefe su Decider scrive: “La stessa New York City non si presenta come appare ai turisti delle festività natalizie, ma ai nativi. Certo, ci sono scatti del Macy's Santaland e del Rockefeller Center brulicanti di gente indaffarata, ma la maggior parte dell'azione si svolge in punti di riferimento locali come The Strand, Two Boots e la Morgan Library. L'intera serie è una celebrazione di come la città diventa luminosa nei periodi più bui dell'anno”. Le fa eco Judy Berman sul Time, che osserva come la serie vada ben oltre l’impegno a rappresentare accuratamente la geografia della Grande Mela, ma di come “si scambia la generica Manhattan da rom-com di carrozze trainate da cavalli per la New York estremamente specifica occupata da due adolescenti idiosincratici. C'è il noleggio di pizze e video al Two Boots nell'East Village, la torta al Four & Twenty Blackbirds di Gowanus, una gita al luogo di noleggio di costumi del Theatre Development Fund ad Astoria. Al posto delle Rockettes a Radio City, ci sono le decorazioni natalizie esagerate che adornano le case nel quartiere semisuburbano di Dyker Heights a Brooklyn. Anche se è probabile che la maggior parte di questi luoghi si trovino in qualsiasi guida turistica decente, il fatto di vederli raramente raffigurati in storie d'amore sul piccolo schermo conferisce a questa una vitalità unica”.

Ideata da JoeTracz (Una serie di sfortunati eventi)  e basata sulla serie di libri young adult “Dash and Lily’s Book of Dares” di David Levithan e Rachel Cohn (che ne ha anche scritto la 1.07), le otto puntate della prima stagione scivolano via in un’atmosfera briosa e festosa. E c’è una sensazione da favola – e alla scarpetta di Cenerentola si sostituisce uno stivale rosso . Dolce,  ma non sciropposo.

domenica 13 dicembre 2020

WE ARE WHO WE ARE: di Guadagnino - Giordano - Manieri

 


Non riesco a decidere se mi è piaciuto molto o se sia un esperimento gonfiato e sopravvalutato We are who we are, la serie diretta da Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome) per HBO e Sky Atlantic, co-scritta insieme a Francesca Manieri e Paolo Giordano, il vincitore del premio Strega per La Solitudine dei Numeri Primi, autore del soggetto. La narrazione sembra non sapere dove vuole andare, ma lo sa, e questo è l’aspetto più affascinante della scrittura, è più un “ti mostro la vita” di un “ti racconto una storia”. Siamo nel 2016, subito prima dell’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, in una base americana a Chioggia. Protagonisti principali sono due adolescenti. L’originale è in inglese e in dialetto veneto, prevalentemente, con qualche comparsa di italiano. 

Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer) è un ragazzo quattordicenne che si trasferisce con le sue due madri in Italia, dopo che una delle due, Sarah (una sempre convincente Chloë Sevigny, Big Love) è stata promossa ed è diventata il nuovo colonnello a capo della base militare, dove lavora come infermiera militare anche l’altra madre, moglie di Sara, Maggie (Alice Braga). È un ragazzo difficile e con seri problemi comportamentali. Non solo ha difficoltà con l’autorità, come è evidente fin dal pilot dal suo atteggiamento nel momento in cui gli chiedono di scattare la foto per il tesserino identificativo, nel non ascoltare gli inni nazionali, nell’essere scomposto e disattento a scuola… odia quello che la madre rappresenta, ma si va al di là della più banale ribellione adolescenziale: Fraser schiaffeggia (1.01), aggredisce tirandole i capelli (1.04) e insulta la madre con epiteti pesanti e le fa il trattamento del silenzio (1.05). Non che in casa sembrino preoccuparsene più di tanto, a dire il vero. Il solo rimedio è abbracciarlo ed eventualmente commentare che quell’ambiente non lo aiuta. È un grande amante della moda e della lettura, sempre immerso con il naso in qualche libro – cosa che da spettatrice mi è parsa più un modo di atteggiarsi, che non una vera passione, nel senso che mi è passata l’idea che fosse un modo per gli autori di redimerlo come un animo tormentato e profondo ed evitare che lo considerassimo un teppistello sbandato che ha bisogno urgente di un aiuto psicologico perché è una persona in serie difficoltà. Si prende una grande cotta per Jonathan (Tom Mercier), un giovane ufficiale assistente della madre.

Fraser appena arrivato conosce una serie di persone, fra cui Britney (Francesca Scorsese), ma quella con cui lega davvero è la migliore amica di lei, Caitlin Poythress (Jordan Kristine Seamón), figlia di un ufficiale trumpiamo, Richard (Scott Mescudi), e di Jenny (Faith Alabi), con cui vive, insieme anche al fratello Danny (Spence Morre II), che è attratto da e studia la cultura musulmana. La giovane donna, che si sviluppa proprio nel corso della miniserie, pensa di seguire le orme professionali del padre, a cui è molto legata: con lui va in barca la mattina presto, va a caccia, impara a fare a pugni e a sparare. Anche se a casa non se ne accorgono è in crisi identitaria rispetto al proprio genere sessuale di appartenenza, usa i propri capelli per farsi dei finti baffi e cerca di farsi passare per un ragazzo, e scopre in definitiva l’identità di ciscuno è in costante cambiamento. Frequenta la scuola e un nutrito gruppo di amici, ma il padre non vede di buon occhio il fatto che si accompagni a Fraser.      

Si tratta essenzialmente di una storia di coming-of-age, quindi gli adolescenti sono in primo piano. Questi ragazzi saranno anche meno problematici e ansiogeni per gli adulti di quanto non siano  quelli di Euphoria – come ha giustamente notato anche Ben Travers su IndieWire - , ma se non altro in quel caso nessuno cerca di spacciarci i loro comportamenti come qualcosa di bello e desiderabile, la loro apparente assenza di inibizioni come uno stato di paradisiaca innocenza, ma si vede l’atteggiamento autodistruttivo e disperato per quello che è. La mia osservazione nasce anche da un commento post-episodio di Guadagnino che si sofferma su una sorta di festa di nozze che la gang tiene per due di loro che si sono sposati. Entrano furtivamente in un’abitazione di lusso (1.04), una villa di proprietà di russi assenti in quel momento, e si comportano come fosse casa loro. Il regista vede quel luogo per loro come un Eden di libertà. Io da spettatrice l’ho vissuto come un comportamento da selvaggi, pure mezzi fatti, e quello che ho visto è più simile alla mia idea di inferno che di paradiso. Alla loro età so che mi avrebbe spaventata oltre che schifata.

In quell’abitazione poi i ragazzi tornano in seguito alla morte dell’allora sposo (1.07) e vandalizzano i locali – spingono un pianoforte contro una vetrata che si frantuma in mille pezzi, sfogano l’aggressività cercando di demolire un bancone e randellando a destra e a manca. Certo, esprimono il proprio dolore, è evidente, ma nessuno che si preoccupi di condannare questi atteggiamenti. Se non giudicare la persona è importante, non approvare per questo comportamenti deleteri non solo è umano, è necessario per quelli che nelle vite di questi ragazzi hanno un ruolo educativo. Nessuno vuole la predica, ma questo laissez-faire menefreghista mi pare anche decisamente poco realistico in un ambiente militare. Tutto è avvenuto senza la minima conseguenza: nemmeno una parola. Per il resto devo dire che vivo relativamente vicina a una base militare americana e ci sono entrata qualche volta. Da quello che  ho visto da esterna mi sembra che ne abbiano fatto un ritratto accurato, dalle case, al commissary in cui Britney porta Frazer a fare un giro proprio nel pilot, alla vita in generale.

Non è solo un teen drama, in ogni caso. Anche gli adulti, e più nello specifico i genitori dei due ragazzi hanno una porzione della storia a loro dedicata. Tutti gli attori, adulti e no, hanno fatto un lavoro egregio e non ci sono propriamente tematiche, quanto echi di tematiche. Ci sono notevoli sottigliezze. Di certo la visione non è stata una perdita di tempo, ma non posso dire che mi sia passato il messaggio ultimo che, a detta del regista nell’intervista post-ultimo episodio, sarebbe la loro eredità spirituale di questo lavoro narrativo, ovvero il desiderio di amare e di esser amati. Non mi ha nemmeno sfiorato, e al massimo lo intravedo dopo che è stato esplicitato. Vedo invece “l’irregolarità” apprezzata expicitis verbis dal protagonista (1.08) in campo d’abbigliamento come l’essenza nella forma e contenuto di quello che ho visto.

 “Siamo chi siamo” è il titolo del programma. Sono chi sono.

giovedì 3 dicembre 2020

LOVECRAFT COUNTRY: il vero orrore è il razzismo

 


La poetica che fonda Lovecraft Country (HBO, Sky Atlantic), tratto dall’omonimo romanzo di Matt Ruff, è piuttosto esplicita: creare una serie a tinte horror con mostri, magia e antichi culti per mostrare che il vero orrore non sta lì, ma nella vita quotidiana per i neri che devono vivere il pervasivo razzismo sistemico. Siamo negli Stati Uniti degli anni ’50, ma il Country, il Paese in questione, è qualunque presenti quella realtà e di qualunque epoca. Lovecraft è in riferimento allo scrittore americano Howard Phillip Lovecraft (1890 – 1937) che è uno dei padri fondatori di questo genere di letteratura – e se ne recuperano in TV temi ed estetica – ed era dichiaratamente razzista. Come scrivono su Slate: “Il romanziere nero N.K. Jemisin ha sostenuto in modo convincente che il razzismo di Lovecraft è al centro dell'orrore che intendeva trasmettere nella sua opera: un terrore cosmico ed esistenziale unito a un profondo disgusto fisico”.

Sottotitolato “La Terra dei Demoni” in italiano, e ideato da Misha Green, la serie di HBO ha come protagonista Atticus detto “Tic” Freeman (Jonathan Majors), un veterano della guerra in Corea che, di ritorno a Chicago, legge una lettera del padre scomparso, Montrose (Michael K. Williams) che lo invita a scoprire un misteriosa eredità di famiglia nel Massachussetts. Si mette così in viaggio nell’America dell’epoca della segregazione.  Con lui va suo zio George (Courtney B. Vance), che scrive una guida stile-Green Book (qui una buona spiegazione di che cosa fosse, nel caso) e che è sposato con Hippolyta (Aunjanue Ellis), che ha passione per l’astronomia e da cui ha una figlia, Diana (Jada Harris). Insieme a loro va anche l’amica Letitia “Leti” Lewis, abile fotografa che ha un contrastato rapporto con la sorellastra maggiore, Ruby (Wunmi Mosaku). Sulla via incontrano orrori soprannaturali e fin troppo umani e presto si imbattono nella Loggia di Ardham, progettata da Titus Braithwhite, schiavista di cui Atticus sarebbe un discendente e fondatore di una società segreta dedita all’occulto chiamata i Figli di Adamo, ora reclamata dalla figlia di lui, Christina (Abbey Lee). Nel corso delle vicende, Atticus ritrova anche una giovane aspirante infermiera che aveva conosciuto in Corea, Ji-Ah (Jamie Chung), che è più di quello che sembra.

Alcune atmosfere – specie quelle legate alla Loggia di Ardham - ricordano Watchmen, che ne condivide le tematiche razziali. Quest’ultimo lo valuto come intellettualmente, narrativamente ed esteticamente più ambizioso e riuscito, anche se più astruso. Qui la trama è solida e avvincente e fra orribili creature che divorano gli umani, scheletri che si rianimano, resurrezioni, pozioni trasfiguranti, rituali magici, case infestate e spiriti demoniaci, esperimenti e viaggi nel tempo e nello spazio, l’aspetto più propriamente ludico è assicurato, ed è una visione molto easy. Ma il piano metaforico e allegorico, o anche quello più propriamente reale – penso anche solo al pilot dove lo sceriffo locale dopo il tramonto ha il diritto di linciare chiunque trovi e i protagonisti sono costretti a una rocambolesca fuga in macchina - sono quelli più pregni di significato e non sono mancate vette notevoli.

Qui ci si affida a molti aspetti iconici dell’horror, di cui conosce bene il canone, ma per l’autrice nulla è sacro, tutto è opzionale, e fa di questa libertà la sua forza. Si vuole comprendere il passato, ma per andare al futuro. La serie è al contempo anche un family drama che mostra dolore e ingiustizia e che cosa significa doversi battere per la liberà. Ed è una storia on the road. La Green, apprezzata per Undergroud, che considera una serie “sorella” (cfr. TV Top 5, del 14 agosto 2020), e che ha scritto anche per Heroes, ha dichiarato che nella sua formazione, e quindi nell’intendere i propri programmi, molto ha influito Battlestar Galactica. Puntate come la season finale poi hanno un gusto molto alla Buffy per me.

Non vedo, come ha sostenuto il New York Times, nel ben scritto e ben argomentato articolo firmato da Maya Phillips, che nel cercare di capovolgere gli stereotipi razziali, sessuali e di genere abbia finito per rinforzarli lanciando messaggi offensivi e privi di gusto in modo gratuito, facendo riferimenti a vere persone della storia nera solo in modo “ornamentale”, come riferimento, senza che abbiano una pregnanza tale da rendere onore a quelle sofferenze e ferite personali e generazionali. Colgo l’osservazione, ma mi pare un peccato veniale, così come è vero che si trattano temi come l’essere gay o trans volendone esplorare l’umanità e i traumi, ma non vedo che si faccia conflagrare l’essere queer con l’essere i cattivi della situazione, semmai si mostra come chi è marginalizzato dall’essere nero non si accorge, nonostante quello che vive, che chi è demonizzato per altre caratteristiche fa esperienza di una situazione similare. Rigetto in toto le accuse di colorismo per il fatto che la più chiara Leti sarebbe più centrale rispetto alla sorella dalla pelle più scura.     

Un aspetto che ho apprezzato molto sono gli effetti speciali, che di solito non mi interessano granché. In particolare le trasformazioni di Ruby che attraverso una pozione diventa una donna bianca e poi torna nera, sono state estremamente viscerali e soddisfacenti, ogni volta che sono state mostrate, sia nell’aspetto visuale che metaforico.

Non tutte le puntate sono ugualmente riuscite, ma si riesce nel delicato compito di rendere godibilmente leggere tematiche molto toste e sgradevoli.