sabato 25 maggio 2024

IL PROBLEMA DEI TRE CORPI: deludente

Sono sinceramente rimasta delusa dalla trasposizione televisiva de Il problema dei tre corpi (Netflix), tratto dall’omonimo romanzo vincitore dell’Hugo Award di Liu Cixin, che avevo letto in prospettiva, e che era stato annunciato come un banchetto visuale. David Benioff e D. B. Weiss, che già avevano portato sul piccolo schermo Il Trono di Spade, e Alexander Wo sono anche stati convincenti nell’adattare quello che apparentemente era inadattabile, come ha ben osservato Variety per quanto ne esista già una versione cinese, Sān tǐ, nome che fa riferimento agli alieni menzionati nelle vicende.

L’incipit, piuttosto violento, ci vede all’epoca della rivoluzione maoista nella Cina degli anni Sessanta, quando la brillante astrofisica Ye Wenjie (Zine Tseng da giovane;  Rosalind Chao da adulta) viene mandata in un campo di lavoro in Mongolia dopo essere stata costretta a vedere il padre, un professore universitario, picchiato a morte davanti a un pubblico per il quale doveva servire da esempio, e poi, grazie alle sue grandi capacità, trasferita in una remota stazione che cerca il contatto alieno, contatto che lei avvia all’insaputa degli altri, con una razza, i Trisolariani conosciuti come Santì, che spera possano finalmente salvare la razza umana, ma che in realtà vedono noi alla stregua di insetti.

Nei tempi odierni, lei li attende con ansia, con il fervore di una profetessa, e come lei anche Mike Evans (Jonathan Pryce, Il Trono di Spade, The Crown) un attivista ecologico miliardario. In Inghilterra, sua figlia Vera Ye (Vedette Lim), diventata una apprezzata insegnante di fisica, si toglie la vita. Non è la prima scienziata a farlo, e un investigatore della Strategic Intelligence Agency, Clarence "Da" Shi (Benedict Wong), si mette ad indagare e fa rapporto a Thomas Wade (Liam Cunningham, Il Trono di Spade) a capo di un'autorità segreta il cui obiettivo è preservare l'umanità. Viene così in contatto con ex-studenti della docente, “i 5 di Oxford”, fra loro diventati amici, anche lì dove si sono persi di vista e si ritrovano ora al funerale della mentore scomparsa.

Si tratta di Augustina “Auggie” Salazar (Eiza González), che si occupa di ricerca all’avanguardia sulle nanofibre, che comincia a vedere uno strano conto alla rovescia, e riceve l’ultimatum di interrompe quello che sta facendo; Jack Rooney (John Bradley, Josh Bradley, Il Trono di Spade), che nel frattempo ha fatto i soldi come imprenditore del campo degli snack e si gode la vita - lui è un po’ il comic relief in una serie dove di umoristico c’è ben poco; Jin Cheung (Jess Hong), che presto viene coinvolta in un gioco di Realtà Virtuale di tecnologia estremamente avanzata che le permette di venire in contatto con la razza aliena che cerca nella Terra la soluzione ai propri problemi, legati a quello dei tre corpi del titolo (un effettivo problema della fisica); Saul Durand (Jovan Adepo), un assistente di ricerca; e Will Downing (Alex Sharp) che sta morendo di cancro al pancreas ed è innamorato di Jin, sebbene lei non ne sia consapevole.

Lo show ha fatto un egregio lavoro nel semplificare un testo di fantascienza un po’ nerd nella misura in cui, scritto da un autore che è un ingegnere informatico, è infarcito di molti concetti di fisica teoretica e matematica. I passaggi meramente esplicativi sono tenuti al minimo e ben integrati. Anche chi non fosse una cima in queste materie riesce a seguire tutto con estrema facilità. E rilevo con interesse quello che ha fatto osservare Evan Lambert su Thought Catalog, che loda gli autori televisivi per aver dato maggiore equilibrio a un testo maschilista: “Pubblicata dal 2006 al 2010, la trilogia dei Tre Corpi […] non andava sul sottile nel sostenere che le donne non erano in grado di guidare il mondo impedendone la distruzione. Come da tradizione cinese, l'autrice del romanzo Liu Cixin sostiene in ultima analisi la tesi dello yin e dello yang, suggerendo che le donne hanno bisogno della logica degli uomini per trovare un equilibrio e temperare la loro irrazionalità. Inoltre, Cixin trasforma il personaggio dell'ex rivoluzionaria Ye Wenjie in una quasi-cattiva […] viene dipinta come una persona inaffidabile, incompetente e irrazionale. In generale, Cixin non è timido nell'attribuire la colpa della distruzione della Terra a donne come Ye Wenjie e sostiene addirittura che la Terra dei suoi romanzi è condannata perché troppo ‘femminilizzata’”. Si legga il suo pezzo per approfondire, ma la versione televisiva riesce ad evitare il sessismo e la misoginia anche dividendo il protagonista maschio Wang Miao in due personaggi femmine, Auggie e Jin, e riesce anche a fare un adattamento culturale otre che più strettamente narrativo, anche perché c’è una globalizzazione con un cast multi-etnico.

La storia ha momenti di debolezza lì dove i personaggi sono poco caratterizzati (e qui in parte il problema è del materiale di fonte) e la cui funzione all’interno della storia è troppo telefonata: che senso ha avere uno di loro malato di cancro se non per fargli fare una sorte di potenziale deus-ex-machina finale, ad esempio? Le parti investigative, nonostante la bravura dell’interprete, sono state dozzinali, da formulaico crime-show della settimana. Sono trattati temi ambiziosi: antropologia, conquiste intellettuali, potere governativo, numerose questioni morali sull’universo e la sua esplorazione, limiti della scienza, e anche ecologia con la citazione di un testo seminale come “Primavera Silenziosa” di Rachel Carson e la remota minaccia di un’invasione aliena letta anche come metafora della questione climatica, anche nel momento in cui l’agire o non agire nel presente o il lasciare alle generazioni future il problema si pone come una questione sui cui prendere posizione. Nonostante ciò il dialogo è insignificante, dimenticabile, e c’è piattezza, e temo che questa sia una critica condivisa anche da chi ha mostrato più entusiasmo di me verso la serie.

Ci sono stati passaggi, come il disidratarsi e il re-idratarsi degli alieni, che mi sono sempre domandata come avrebbero potuto rendere, o il ridurre a fattine una nave, che mi hanno molto convinta e soddisfatta, così come le ricostruzioni della realtà del videogioco sono notevoli, si vede che non hanno badato a spese, ma al di fuori di quello nulla mi ha colpita nemmeno dal punto di vista visivo. Mi trovo a condividere quello che Phillip Maciak ha scritto su The New Republic nella sua eccellente recensione, ovvero che “il suo stile è anonimo, ancillare, opera di un autore aziendale più che di un'intelligenza artistica”, blando.

La serie è stata riconfermata per una seconda stagione con un numero di episodi imprecisati (pochi, si spera), ma giusto per chiudere le vicende. 

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