Sono sinceramente rimasta
delusa dalla trasposizione televisiva de Il
problema dei tre corpi (Netflix), tratto dall’omonimo romanzo vincitore
dell’Hugo Award di Liu Cixin, che avevo letto in prospettiva, e che era stato
annunciato come un banchetto visuale. David Benioff e D. B. Weiss, che già
avevano portato sul piccolo schermo Il
Trono di Spade, e Alexander Wo sono anche stati convincenti nell’adattare
quello che apparentemente era inadattabile, come ha ben osservato Variety — per quanto ne esista già
una versione cinese, Sān tǐ,
nome che fa riferimento agli alieni menzionati nelle vicende.
L’incipit, piuttosto
violento, ci vede all’epoca della rivoluzione maoista nella Cina degli anni
Sessanta, quando la brillante astrofisica Ye Wenjie (Zine Tseng da
giovane; Rosalind Chao da adulta) viene
mandata in un campo di lavoro in Mongolia dopo essere stata costretta a vedere
il padre, un professore universitario, picchiato a morte davanti a un pubblico
per il quale doveva servire da esempio, e poi, grazie alle sue grandi capacità,
trasferita in una remota stazione che cerca il contatto alieno, contatto che
lei avvia all’insaputa degli altri, con una razza, i Trisolariani conosciuti
come Santì, che spera possano finalmente salvare la razza umana, ma che in
realtà vedono noi alla stregua di insetti.
Nei tempi odierni, lei li
attende con ansia, con il fervore di una profetessa, e come lei anche Mike
Evans (Jonathan Pryce, Il Trono di Spade,
The Crown) un attivista ecologico
miliardario. In Inghilterra, sua figlia Vera Ye (Vedette Lim), diventata una
apprezzata insegnante di fisica, si toglie la vita. Non è la prima scienziata a
farlo, e un investigatore della Strategic Intelligence Agency, Clarence
"Da" Shi (Benedict Wong), si mette ad indagare e fa rapporto a Thomas
Wade (Liam Cunningham, Il Trono di Spade)
a capo di un'autorità segreta il cui obiettivo è preservare l'umanità. Viene
così in contatto con ex-studenti della docente, “i 5 di Oxford”, fra loro
diventati amici, anche lì dove si sono persi di vista e si ritrovano ora al
funerale della mentore scomparsa.
Si tratta di Augustina “Auggie”
Salazar (Eiza González), che si occupa di ricerca all’avanguardia sulle
nanofibre, che comincia a vedere uno strano conto alla rovescia, e riceve
l’ultimatum di interrompe quello che sta facendo; Jack Rooney (John Bradley,
Josh Bradley, Il Trono di Spade), che
nel frattempo ha fatto i soldi come imprenditore del campo degli snack e si
gode la vita - lui è un po’ il comic relief
in una serie dove di umoristico c’è ben poco; Jin Cheung (Jess Hong), che
presto viene coinvolta in un gioco di Realtà Virtuale di tecnologia
estremamente avanzata che le permette di venire in contatto con la razza aliena
che cerca nella Terra la soluzione ai propri problemi, legati a quello dei tre
corpi del titolo (un effettivo problema della fisica); Saul Durand (Jovan Adepo),
un assistente di ricerca; e Will Downing (Alex Sharp) che sta morendo di cancro
al pancreas ed è innamorato di Jin, sebbene lei non ne sia consapevole.
Lo show ha fatto un
egregio lavoro nel semplificare un testo di fantascienza un po’ nerd nella
misura in cui, scritto da un autore che è un ingegnere informatico, è infarcito
di molti concetti di fisica teoretica e matematica. I passaggi meramente
esplicativi sono tenuti al minimo e ben integrati. Anche chi non fosse una cima
in queste materie riesce a seguire tutto con estrema facilità. E rilevo con
interesse quello che ha fatto osservare Evan
Lambert su Thought Catalog, che loda
gli autori televisivi per aver dato maggiore equilibrio a un testo maschilista:
“Pubblicata dal 2006 al 2010, la trilogia dei Tre Corpi […] non andava sul sottile nel sostenere che le donne
non erano in grado di guidare il mondo impedendone la distruzione. Come da
tradizione cinese, l'autrice del romanzo Liu Cixin sostiene in ultima analisi
la tesi dello yin e dello yang, suggerendo che le donne hanno bisogno della
logica degli uomini per trovare un equilibrio e temperare la loro
irrazionalità. Inoltre, Cixin trasforma il personaggio dell'ex rivoluzionaria
Ye Wenjie in una quasi-cattiva […] viene dipinta come una persona
inaffidabile, incompetente e irrazionale. In generale, Cixin non è timido
nell'attribuire la colpa della distruzione della Terra a donne come Ye Wenjie e
sostiene addirittura che la Terra dei suoi romanzi è condannata perché troppo ‘femminilizzata’”.
Si legga il suo pezzo per approfondire, ma la versione televisiva riesce ad
evitare il sessismo e la misoginia anche dividendo il protagonista maschio Wang
Miao in due personaggi femmine, Auggie e Jin, e riesce anche a fare un
adattamento culturale otre che più strettamente narrativo, anche perché c’è una
globalizzazione con un cast multi-etnico.
La storia ha momenti di
debolezza lì dove i personaggi sono poco caratterizzati (e qui in parte il
problema è del materiale di fonte) e la cui funzione all’interno della storia è
troppo telefonata: che senso ha avere uno di loro malato di cancro se non per
fargli fare una sorte di potenziale deus-ex-machina finale, ad esempio? Le
parti investigative, nonostante la bravura dell’interprete, sono state
dozzinali, da formulaico crime-show della settimana. Sono trattati temi ambiziosi:
antropologia, conquiste intellettuali, potere governativo, numerose questioni
morali sull’universo e la sua esplorazione, limiti della scienza, e anche
ecologia con la citazione di un testo seminale come “Primavera Silenziosa” di
Rachel Carson e la remota minaccia di un’invasione aliena letta anche come
metafora della questione climatica, anche nel momento in cui l’agire o non
agire nel presente o il lasciare alle generazioni future il problema si pone come
una questione sui cui prendere posizione. Nonostante ciò il dialogo è
insignificante, dimenticabile, e c’è piattezza, e temo che questa sia una
critica condivisa anche da chi ha mostrato più entusiasmo di me verso la serie.
Ci sono stati passaggi,
come il disidratarsi e il re-idratarsi degli alieni, che mi sono
sempre domandata come avrebbero potuto rendere, o il ridurre a fattine una nave,
che mi hanno molto convinta e soddisfatta, così come le ricostruzioni della
realtà del videogioco sono notevoli, si vede che non hanno badato a spese, ma
al di fuori di quello nulla mi ha colpita nemmeno dal punto di vista visivo. Mi
trovo a condividere quello che Phillip
Maciak ha scritto su The New Republic
nella sua eccellente recensione, ovvero che “il suo stile è anonimo, ancillare,
opera di un autore aziendale più che di un'intelligenza artistica”, blando.
La serie è stata riconfermata per una seconda stagione con un numero di episodi imprecisati (pochi, si spera), ma giusto per chiudere le vicende.
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