venerdì 28 febbraio 2025

SHŌGUN: un lodatissimo polpettone

Ho trovato che Shōgun (Disney+) sia stato ben realizzato e ben recitato e, tratto dal romanzo del 1975 di James Clavel basato su fatti storici (anche se i nomi rispetto agli eventi reali sono stati cambiati), che fosse narrativamente ben costruito, ma contemporaneamente lo ritengo sopravvalutato dalla critica genericamente intesa che lo ha lodato profusamente e ricoperto di riconoscimenti – è stata la serie più premiata nella storia degli Emmy: ne ha ricevuti ben 18, compreso quello per la miglior serie drammatica, per cui ha vinto anche il Golden Globe, che si è portata a casa anche per le altre categorie per cui era candidata.

Siamo nel 1600 in Giappone (si è girato in giapponese, lì dove i personaggi lo erano, ed eventualmente in inglese, ma le riprese sono state fatte in Canada) e con la morte del Taiko si è quasi sull’orlo della guerra civile: il potere è diviso fra cinque reggenti il cui compito è quello di proteggere l’erede, ma ci sono contrasti fra loro. La nave olandese Erasmus naufraga su una penisola di pescatori, nella zona a Sud di Edo. I membri dell’equipaggio vengono subito uccisi (uno viene bollito vivo), ma non l’inglese John Blackthorne (Cosmo Jarvis, forse il meno convincente fra gli interpreti) che chiamano l’Anjin, il “pilota”, quando non semplicemente “il barbaro”. I cattolici locali portoghesi rappresentati dal padre gesuita Martin Alvito (Tommy Bastow) insinuano che è un pirata per eleminarlo da una potenziale concorrenza commerciale  ̶  lui che è protestante e stava cercando di scoprire quale fosse la rotta per il Giappone tenuta segreta dai portoghesi per avere il monopolio. A dispetto di simili accuse, il feudatario locale Kashigi Yabushishige (Tadanobu Asano) decide di risparmiarlo. Viene fatto condurre a Osaka da uno dei reggenti, Yoshii Toranaga (Hiroyuki Sanada), che gli altri accusano di tradimento perché è il più potente fra loro e lo temono, e questi lo tiene al suo servizio imparando ad apprezzarne le doti. Toranaka accosta a John come interprete la nobile Toda Mariko (Anna Sawai, molto migliorata da Monarch) che, convertita alla fede cristiana, sa l’inglese. Fra i due nasce l’amore (una scelta di finzione: i corrispettivi della vita reale non hanno mai avuto una storia), oltre che un profondo rispetto, e John impara molto sulla cultura locale che, fatta di regole e feroci fedeltà, spesso non riesce a comprendere del tutto, soprattutto quando non sembra dar peso alla vita umana. Emblematico è stato quando un giardiniere si è ucciso per un ordine banale (1.05).

Non ho letto il romanzo, né visto la precedente miniserie che ne era stata tratta negli anni ’80 che aveva Richard Chamberlain nel ruolo di Blackthorne, e quindi non riesco a fare un paragone, anche se leggo che questa versione è stato molta accurata rispetto al materiale di origine e che ci sono voluti molti anni – una decina, pare - a traslare la storia sul piccolo schermo. Un pro è sicuramente che si è evitato un eccesso di eurocentrismo, visto che oggidì siamo più consapevoli di prospettive altre, voglio credere. Mike Hale sul New York Times, che ben osserva che fra i punti di forza ha il fatto di non essere “eccessivamente sentimentale o sensazionalista” scrive che “se i creatori dello show mostrano una maggiore sensibilità agli stereotipi, ciò non impedisce a questo ‘Shogun’ di mostrare i segni di un familiare giapponismo cinematografico. È presente nella feticizzazione della morte (ricorre il seppuku) e nel contrasto centrale tra l'individualismo occidentale di Blackthorne e la devozione al dovere e al sacrificio dei personaggi giapponesi. Il sesso è estetizzato; una cameriera è membro di una gilda segreta di assassini (anche se il personaggio non è più una ninja a tutti gli effetti, come nel 1980). Il dialogo continua a sbocciare in poesia”. Tutto vero, ma se sono peccati sono veniali, perché in parte sono effettivi elementi di quella cultura e sensibilità.

È un opulento (leggi anche estremamente costoso) affresco di un periodo storico, tratteggia con forza scontri di potere condotti con molta eleganza e diplomazia apparentemente invisibile, lascia un intenso sottotesto di rivalità religiose che mascherano l’interesse per “seta, oro e armi”, parla di strategia di guerra, e delinea molto bene i suoi personaggi in un contesto che ha molto di esotico, indubbiamente parte del fascino della serie, che introduce anche espressioni giapponesi che impreziosiscono il dialogo. La forza sta nel descrivere eventi epici, con intense eppur misurate interpretazioni che mostrano passioni trattenute, dominate, secondo una classica tradizione del Sol Levante. Luke Winkie su Slate dice: “è divertente, violento, straordinariamente sciocco, spesso incisivo e, soprattutto, totalmente leggibile: un'impresa abbastanza rara che merita di essere sottolineata”. Concordo su quest’ultimo aspetto nel senso che dà delle coordinate di base su quell’epoca, ma non ti serve un’enciclopedia per capire “il patrimonio coloniale dei domini protestanti e cattolici, il decoro militare giapponese, le sottili linee di distinzione tra impero e shogunato, e così via”, e non si mette a farti lezione, cosa che avrebbe appesantito ulteriormente la narrazione.

Viste le lodi sperticate che ha ricevuto dalla critica, mi sfugge qualcosa di questa creazione di Justin Marks e Rachel Kondo, perché la sensazione finale per me è comunque che questa miniserie sia stata ben realizzata, con tutti gli elementi al posto giusto, ma che in definitiva sia un polpettone con scarso impatto emozionale.

martedì 18 febbraio 2025

INDUSTRY: una fenomenale terza stagione

“Il denaro doma la bestia. Il denaro è pace. Il denaro è civilizzazione. La fine della storia è il denaro”: così dice Eric (Ken Leung) nel suo ispirato discorso aziendale nella season finale di una fenomenale terza stagione di Industry, ideata dagli ex-consulenti finanziari Mickey Down e Konrad Kay, parole, confesserà poi, che ha preso a prestito da un racconto di Denis Johnson pubblicato sul New Yorker nel 2014 intitolato “The Largesse of the Sea-Maiden”, da cui il finale della terza stagione trae il titolo: “Infinite Largesse”. 

La serie (HBO – BBC1; ho parlato della prima stagione qui e non ho invece scritto sulla seconda) è fenomenale, una delle migliori in assoluto, e in crescita, per cui mi rammarico che ancora in Italia non venga trasmessa. In realtà, pur essendo il denaro e l’etica capitalista necessariamente molto visibili per una narrazione ambientata nel mondo dell’alta finanza, è stato meno il fulcro in questo arco (la messa in onda originaria è andata dall’11 agosto al 29 settembre 2024), più interessato ai rapporti di classe. È stata proprio uno studio su quei rapporti, sulla difficoltà di cambiare classe sociale nonostante il portafoglio di cui uno possa ritrovarsi a godere e nonostante l’illusorietà della mobilità sociale; in un conteso come quello britannico che fa da sfondo alle vicende, anche sull’inevitabilità del classismo. E parallelamente, in mezzo agli intrighi, la politica, la plutocrazia, i media, la società, il privilegio, la pressione performativa sul lavoro, la meritocrazia, il desiderio, il passato, è uno studio sui personaggi ognuno a modo loro spezzato dalla vita, ma che cercano di andare avanti nonostante tutto.

ATTENZIONE SPOILER IMPORTANTI  

La Pierpoint  ̶  la banca londinese per cui lavorano i protagonisti e che nelle battute finali (3.08) verrà chiusa sei mesi dopo l’egregio lavoro di Eric di coinvolgere i finanziatori egiziani Al-Miraj per tenerla a galla  ̶  investe in un’azienda che è in procinto di essere quotata in borsa, la Lumi, il cui CEO è Sir Henry Muck (basta cambiare una lettera del cognome e si capisce facilmente che tipo di multimiliardario visionario intende rappresentare), interpretato da un Kit Harrington che dimostra di non essere memorabile solo come il Jon Snow di Game of Thrones. Presto lui comincia a mostrare interesse per Yasmin (Marisa Abela), alle prese con la scomparsa del padre, Charles (Arthur Levy), accusato di appropriazione indebita per aver sottratto soldi alla propria casa editrice, la Hanani Publishing. In seguito (3.06), con dei flashback si viene a scoprire che, in vacanza in Italia sullo yacht del padre, dopo una feroce litigata con lui durante la quale lei gli augura la morte, lui ubriaco si è buttato in acqua per stizza e ripicca, e lei non ha fatto nulla per aiutarlo mentre stava affogando ed è così morto. A saperlo è solo Harper (Myha'la Herrold), che alla fine della stagione precedente era stata licenziata dalla Pierpoint per aver falsificato le proprie credenziali sul curriculum, e ottiene un lavoro come assistente esecutiva in una piccola azienda, dove conosce una manager di portfolio, Petra (Sarah Goldberg), con la quale si mette in affari. Harper è brillante ma senza scrupoli: Otto (Roger Barcley), padrino di Henry, la saluta con un “ecce Brute”, in una di quelle gemme di dialogo (3.08) che fanno apprezzare una volta di più la serie. Robert (Harry Lawtey), dopo che si ritrova la propria cliente che lo usava come boy toy morta a letto, diventa una sorta di liaison fra la Henry e la Pierpoint. L’amicizia fra lui e Yasmin li conduce finalmente ad ammettere l’amore l’uno per l’altra, ma il giorno stesso in cui fanno l’amore lei decide di sposare Henry (3.08) in un gran colpo di scena. Rishi (Sagar Radia) è perseguitato da crescenti debiti di gioco che conducono all’assassinio a sangue freddo di sua moglie davanti ai suoi occhi nel girono del proprio compleanno. Sweetpea (Miriam Petche) è una nuova assunta alla Pierpoint, che a fine stagione viene chiusa, come dicevo a inizio paragrafo. Lei ed Eric si ritrovano così senza lavoro.

Tutti gli eventi portano ad un calo di sipario su una fase della serie, che finora può essere descritta come un incrocio fra Succession, Mad Men e qualcuno ha azzardato anche Girls. Allo stesso tempo è un mondo a parte che mai abbiamo visto in TV, con un linguaggio proprio (per me difficile da comprendere sinceramente, e non per l’inglese, in italiano sarebbe uguale, l’alta finanza non fa per me). Non c’è uno stile espositivo, ma il ritratto caratteriale di ciascuno, e le debolezze e i punti di forza di ciascuno bene emergono dalle relazioni, dalle interazioni reciproche.

È brutale e feroce, implacabile. Basti pensare a “Nikki Beach, or: So Many Ways to Lose" (3.06) puntata in cui Yasmin ricorda quello che è accaduto con col padre e quella in cui lei e Harper si distruggono verbalmente a vicenda: Yasmin la accusa di trovare utile per sè stessa il suo dolore, Harper le vomita addosso gli stessi dolorosi insulti del padre: “senza talento, puttana, inutile”.  Le persone sono un mezzo per un fine (3.06) e “la verità non è importante” (3.07). Un altro buon esempio è il ludopatico Rishi, naturalmente, quando viene pestato e si presenta al lavoro sanguinante (3.04), per cui nessuno mostra preoccupazione, e la morte della moglie alla fine ci porta ai limiti de I Soprano. Ed non si può non pensare a Eric, licenziato senza mezzi termini.

È priva di sentimentalismo. Yasmin e Robert si ameranno anche, ma appartengono a due mondi diversi, e Robert non se la prende nemmeno quando vengono annunciate le  nozze di lei con Henry nella season finale. Intorno a una lunga tavolata la regia fa scomparire tutto e rimangono idealmente soli i due innamorati: “mi dispiace” dice lei; “capisco” replica lui. Ma il vero brillante gioiello di scena è quando si fermano a una stazione di servizio sulla via per la tenuta di Henry. Lei lo vede grattare un “gratta e vinci” e cristallizza una volta in più (altre volte ci sono riferimenti, ad esempio col cibo) che lui viene dalla working class, diversamente da lei. 

È capace di convivere con l’ambiguità. A fine stagione Yasmin prende con sé una dipendente dello yacht su cui era stata in Italia, che al tempo era incinta, che aveva visto sul suo letto far sesso orale con suo padre. La donna è esplicita nel dire che, in altre occasioni, c’erano state molte bambine in quei party. Scene intense, anche per la reazione e per come sono costruite, ma noi pubblico rimaniamo con il dubbio se anche Yasmin sia stata molestata dal padre da piccola. Questa incertezza esiste anche sul piano finanziario, dove ci sono molti avvenimenti e piccoli colpi di scena, l’idea è che i mercati siano solo “fumo e specchi” (3.02), ma indistinguibili dalla realtà, perché la percezione è la realtà: “il denaro è un’illusione. È un costrutto sociale basato sulla fiducia” (3.04). E scrive bene Aramide Tinubu su Variety, quando dice che “(n)el corso degli otto episodi, gli spettatori vedono in ogni momento come la percepita responsabilità sociale non riesca a mascherare un nucleo marcio”.

Partito forse un po’ in sordina, ora Industry è uno sleeper hit acuto, audace, sicuro di sé, che non si contiene. Non è un caso che su Metacritic la terza stagione abbia un punteggio di 86 e una collezione di sfavillanti critiche positive.

sabato 8 febbraio 2025

TOMORROW AND I: un Black Mirror tailandese

Uscita per la prima volta nel paese d’origine lo stesso giorno in cui ha debuttato su Netflix in Italia, ovvero il 4 dicembre 2024, Tomorrow and I, il cui titolo originale è Anakhot, è una serie antologica che può ben essere definita la Black Mirror tailandese che, come scrive IMDB, “esplora l'intersezione tra tecnologie futuristiche e cultura thailandese e le inimmaginabili tensioni e dilemmi morali che nascono dal loro inevitabile conflitto”, e come dice la piattaforma di messa in onda stessa, mostra “un futuro distopico in cui la tecnologia raschia la superficie delle tradizioni, mettendo a nudo gli strappi nel tessuto culturale”.

Quattro sono le puntate di quella che presumibilmente è solo una prima stagione.

ATTENZIONE SPOILER

1.01     “Pecora nera”: un’astronauta di una stazione spaziale internazionale, Noon, in un incidente al rientro muore poco prima di completare una missione di tre anni che l’avrebbe finalmente riunita al marito, Nont, molto innamorato di lei. Nonostante il parere contrario dei familiari, lui decide di clonarla con l’aiuto di un’amica di lei, la dottoressa Vee, che già si occupa di clonazione di animali domestici. Nel farlo scopre un segreto che lei aveva gelosamente custodito: in realtà si sentiva un uomo e se non aveva fatto la transizione era solo per non opporsi alla famiglia d’origine.

1.02    “Paradiso distopico”: una giovane donna, Jessica, costruisce un impero grazie a robot del sesso addestrati da esperti per poter esaudire ogni possibile desiderio e fantasia in Paradise X: l’Oasi del Piacere. I conservatori si oppongono al progetto, pur servendosene ampiamente. In definitiva viene affossato, ma non prima di svelarci che l’intento dell’imprenditrice era di liberare gli esseri umani dalla schiavitù del sesso a pagamento di cui era stata vittima prima sua madre, poi lei stessa da bambina.

1.03     “Buddismo digitale”: il buddismo si sviluppa attraverso pratiche che, con un apposito device di intelligenza artificiale chiamato ULTRA, danno punti di merito e di demerito: buone azioni così come previste dalle scritture buddiste fanno guadagnare punti, che si possono poi riscattare per pagare le bollette o comprare quello che si vuole. Nessuno si rivolge più ai templi, che sono in crisi. Un monaco tradizionale, Anek, è contrario finché non incontra uno dei maggiori responsabili di questa tecnologia che gli fa intendere di aver avuto lo stimolo dal proprio passato che ha visto i genitori soccombere davanti a monaci criminali che chiedevano beni promettendo l’aldilà; in questo modo le buone azioni danno beni nell’aldiqua, mercificandole però. Si può quantificare quanto uno è una brava persona? Come? Con che conseguenze? Anek che era scettico, avendo un passato da ingegnere, decide di organizzare un sistema rivale e ha un enorme successo finché l’accesso alla coscienza del monaco a capo del monastero più importante non rivela un passato di molestie ai minori.

1.04    “La ragazza calamaro”: dopo quasi 3 anni di piogge incessanti in tutto il mondo, il mondo è sott’acqua e se i cittadini più ricchi possono vivere in città sopraelevate, i quartieri più poveri sono quelli più a rischio. L’acqua alta porta virus e mutazioni per gli animali. C’è un vaccino, AquaVac, che potrebbe ripararli, ma il governo che non ha il denaro per farlo avere ai meno abbienti e finge che non serva. Ha qualche effetto collaterale ben visibile però: spuntano sul mento tentacoli come barba. Due intraprendenti bambine, una con il dono per il canto, l’altra con una notevole capacità da manager, riescono a portare luce sulla grave situazione in cui versano, una partecipando a una gara canora, l’altra smascherando (letteralmente, potremmo dire) le menzogne del governo. Finalmente tutti hanno il sospirato vaccino, ma ecco che torna il sole.     

Ambientate in un futuro prossimo immaginario, la serie è affascinante innanzitutto perché ci mostra un contesto a cui noi occidentali siamo poco abituati. Quand’è l’ultima vota che so è visto un programma tailandese dove la maggioranza della popolazione è buddista? Si esaminano i rapporti familiari, l’amore, le credenze religiose, le motivazioni che spingono verso certe idee e lo sviluppo che hanno a contatto con la natura umana. Si parla di identità, di cambiamento climatico – “Perché hanno sfruttati il pianeta senza pensare a noi?” –, di disparità economiche, di sfruttamento sessuale, e cosa molto significativa visto quello che si sente rispetto al turismo sessuale in quelle terre, di pedofilia. Naturalmente raccontano il futuro per spiegarci il presente e la società attuale, per interrogarli, e con un intento parenetico. Lo si fa con molto coraggio e schiettezza e con argomenti inusitati.

Non tutte le puntate, che hanno la regia di Paween Purijitpanya che è anche uno dei co-ideatori insieme a Pat Pataranutaporn e Jirawat Watthanakiatpanya, sono ugualmente riuscite. Per me “Buddismo digitale” è la meglio riuscita, e a seguire “Pecora nera”, poi le altre. Tutte sembrano a volte narrativamente ingenue nella loro costruzione, un po’ sempliciotte (si pensi a come avviene la clonazione, ad esempio, anche paragonata a “Orphan Black: Echos”). Forse vengono da un Paese alle cui modalità narrative non sono abituata, ma credo si sarebbe avvantaggiato di qualche taglio e di un montaggio più incisivo. Le storie si prendono il loro tempo, e anche se non risultano lente, e la visione alla fine lascia comunque appagati, perché è colorata e con una propria identità forse poco rifinita ma autentica e genuina.