È terminata con un gran botto, in senso letterale, la prima stagione di The Walking Dead, la serie ambientata in una terra post-apocalittica brulicante di zombie composta da soli 6 episodi. Già al debutto mi ero domandata se avessero un senso tutto il maschilismo e la misoginia che avevo notato nel telefilm. Praticamente comincia con il protagonista, uno sceriffo, che spara una pallottola in fronte a una bambina di età delle elementari. Ha lunghi capelli biondi, pigiamino rosa e vestaglia pesante, ciabattine a coniglietto e orsacchiotto tenuto con una mano. Certo, è uno zombie, ma questo non la rende meno riconoscibile nei suoi tratti di genere sessuale e non impedisce a Rick (Andrew Lincoln), prima di riconoscerla come una non-morta, di chiamarla “little girl”, bambina.
La prima vera conversazione fra Rick e il suo collega Shane (Jon Bernthal), in un pilot avaro di dialoghi, vede quest’ultimo, un co-protagonista, chiedersi quale sia la differenza fra uomini e donne. Nella sua esperienza non ha mai conosciuto una donna che sappia spegnere la luce. La trova sempre accesa, e tutte le donne sono così, argomenta, è una ragione di cromosomi: a lui tocca spegnere quelle che trova accese e suggerisce che bisognerebbe rimproverarle ricordando che se loro e ogni altro “paio di tette” a questo mondo si ricordassero che l’interruttore va in due direzioni non ci sarebbero problemi di riscaldamento globale. Lui, naturalmente, nel farlo effettivamente presente, ne dà una versione più gentile, dice, ma lei lo incalza con una voce da “Esorcista” (che lui imita) dicendogli che le ricorda suo padre. E lui vorrebbe dirle “Bitch (come sostantivo lo traduciamo pur sempre “cagna”, “puttana”, “stronza”, “sgualdrina”, in italiano), vuoi dirmi che hai sentito questa cosa per tutta la vita e sei così dannatamente stupida da non sapere ancora come spegnere la luce?”. Rick, seduto accanto a lui nella pattuglia della polizia, ride. E sarebbe in fondo politicamente scorretto, ma divertente, se fosse una battuta, se non fosse che all’inizio della conversazione specifica che non è una battuta, ma una conversazione seria. Dopo il “sermone” (un’autodefinizione di Shane) Rick dice che la sua donna spegne le luci, ma poi manifesta la sua insoddisfazione al fatto che lei vuole che lui “parli” e quando lo lui fa, lei sembra sempre irritata da quello che dice e lui non capisce perché. Lei, davanti al bambino, si è domandata se a lui interessi veramente di loro o meno. Lui non farebbe mai una cosa tanto crudele e questa è la differenza fra uomo e donna, per lui. Una conversazione del genere, nel pilot, chiaramente mette in cornice il tipo di relazione uomo-donna che si concepisce. E non serve essere chissà che femminista per cogliere il forte tono da uomo di Neandertal.
A rinforzare il concetto di dominazione maschile sulla donna arriva la scena di sesso nella seconda puntata. Rick è creduto morto e Shane fa sesso con Lori (Sarah Wayne Callies), moglie dell'amico. A ulteriori visioni mi è sembrata sufficientemente innocente, ma l’effetto in un primo momento è stato di una certa violenza, non solo perché lui la prende alle spalle tappandole la bocca e buttandola sull’erba (l’intento era giocoso, anche se lei si è inizialmente spaventata), ma perché la scena finisce con lui che la gira e lei è schiacciata sull’erba del bosco in cui si trovano.
È nella terza puntata (“Tell it to the frogs”) però che in qualche modo la questione viene affrontata. L’ecologia della serie, se così vogliamo chiamarla, è così fortemente improntata sul maschilismo repressivo che le stesse protagoniste lo commentano: gli uomini sono quelli che prendono le decisioni, sono i soggetti dell’azione, si accaparrano le armi e si occupano dei mezzi di trasporto; le donne sono impegnate a cucinare, a lavare i panni, a stirare, a stare con i bambini. A un certo punto un gruppo di donne è impegnato a lavare presso il fiume, mentre Shane gioca nell’acqua con il figlio di Rick, e il marito di una delle donne le controlla da distante. Una osserva che comincia a interrogarsi sulla divisione del lavoro. Una delle altre, nel commentare la situazione, si limita a dire: “Il mondo è finito, non hai ricevuto il promemoria?”. “E così e basta”, incalza un’altra, che sappiamo, e scopriremo meglio in seguito, essere vittima di costante abuso e violenza da parte del marito. Questa alla fine è la spiegazione che la serie dà: è la fine del mondo, è un mondo brutale e ingiusto, dove a comandare è chi è più bestia degli altri e in cui gran parte della popolazione che cammina ha il cervello di uno zombie in senso letterale. Non ci si può aspettare nulla di diverso. Avrebbe senso, se non fosse che… non ne ha.
Queste sono parole; la storia, e l’etica del programma, dicono una cosa molto diversa. Se fosse vero, lì dove i viventi cercano di preservare quello che li rende tali, quello che li rende umani, come il cercare di dare sepoltura ai cadaveri, ad esempio, cercherebbero di preservare la parità come qualcosa di valore, come qualcosa di “naturale”, non concessa a piacimento dall’uomo. Nei dettagli invece, si costruisce una smaccata, fortissima, sinceramente insultante misoginia. Si trova nella conversazione fra Shane, Lori e suo figlio, in cui Lori parla di sé dicendo “I’m a girl” - sono una femmina, intende, ma usa "bambina", non donna, per riferirsi a se stessa. Certo, si può controbattere, lo fa per mettersi a livello del figlio, ma comunque… Shane poco dopo chiama il bimbo “little man”, piccolo uomo. Si trova nella frase di Lori che chiede spiegazione a Rick del perché voglia tornar nella città brulicante di zombie dopo che si sono appena ritrovati: “make me understand”, gli dice. Certo è il verbo corretto, “fammi capire”, ma non posso non notare la scelta di quel “make me”, quasi da imposizione. Si trova nella conversazione fra Lori e suo figlio, dove lei va per dirgli di non essere preoccupato per il padre ed è lei che, mezza con le lacrime agli occhi, finisce per essere consolata e rassicurata da lui. Non dubito che i bambini sappiano essere saggi e più forti dei genitori in alcune occasioni, ma qui il messaggio sembra un altro. E quando Andrew, il marito violento di una delle donne, insulta e aggredisce Andrea (Laurie Golden), una del gruppo che si oppone al fatto che lui ordini alla moglie di venir via, dopo averle rimproverate perché mentre lavoravano si erano messe a ridere, quatto donne adulte riescono a mala pena a tenergli testa, e interviene Shane a ‘ravanarlo’ di botte per salvare le “damigelle in difficoltà”. La forza bruta prevale sulla ragionevolezza qui, ma è un mondo tale in partenza, non un mondo reso tale dagli zombie, fra i quali peraltro sembra esserci parecchia parità, al contrario. Son tutti amenti allo stesso modo. Perfino quando le donne sono lì che lavano e si raccontano che cosa manca loro della vita precedente, e una dice la macchinetta del caffè, l’altra il computer e i messaggini e una confida “il vibratore”, incalzata anche dalla vittima di violenza domestica che ammette che manca anche a lei – cosa che provoca l’ilarità generale poi rimproverata loro da Andrew – viene da chiedersi se dovesse proprio mancare quello che in fondo è un simbolo di sessualità maschile, ma qui mi sembra forzare troppo la lettura in senso univoco. Ammetto che ci ho pensato però. Quando ti senti insultato, rischi di leggere tutto in quella prospettiva. Diciamo che non arriva come una sorpresa il fatto che Shane tenti di violentare Lori, in “TS-19” (1.06).
Il problema non è che The Walking Dead mostri il maschilismo. Ci mancherebbe altro. Il mondo ne è pieno e va benissimo che ci sia spazio per rappresentare anche quello. Il problema è che The Walking Dead non solo non propone alternative, non sembra nemmeno vederne di possibili. A The Walking Dead sembra che maschlismo e misoginia piacciano parecchio. A me no.