Gli autori Ryan Murphy e Brad Falchuck (entrambi di Glee e Nip/Tuck) lo avevano definito, già in occasione del primo promo, come un thriller psicosessuale, e ora che American Horror Story ha debuttato (sull’americana FX dallo scorso 5 ottobre, in Italia su Fox da novembre) la definizione sembra appropriata.
Ben (Dylan McDermott, The Practice) e Vivien (Connie Britton, Friday Night Lights) Harmon per superare un periodo difficile - hanno perso il bambino che aspettavano e lei ha trovato lui a letto con una studente – hanno deciso di trasferirsi da Boston a Los Angeles, insieme alla figlia Violet (Taissa Farmiga), un’adolescente che si autoferisce procurandosi dei tagli alle braccia. Acquistano una casa, dove sono avvenuti degli omicidi e che è infestata da varie presenze e apparizioni.
Fanno presto conoscenza con la governante Moira, ma mentre tutti la vedono come una signora anziana (Frances Conroy, Six Feet Under), Ben la vede come una giovane affamata di sesso (Alex Breckenridge) che cerca di sedurlo. E ricevono le visite inaspettate della ragazza con la sindrome di down Adelaide (Jamie Brewer) - che dice a tutti che in quella casa moriranno, cosa effettivamente avvenuta a due gemelli molti anni prima, e non solo a loro – e della madre di lei, la loro sinistra vicina di casa Constance (Jessica Lange), che chiama la figlia “mongoloide” e dice che se avesse saputo come sarebbe uscita avrebbe abortito – è in poche parole una versione drammatico-horror di Sue Sylverster di Glee, molto insultante e molto poco politically correct. Ben viene seguito da Larry (Danis O’Hare, True Blood), un uomo sfigurato da un incendio (ma potremmo scherzosamente dire dalla serie precedente, dove era un vampiro lasciato ustionare al sole) e il solo sopravvissuto a quella casa. Vivien, che non fa sesso con il marito da praticamente un anno, ha un incontro sessuale con un uomo in una tuta di lattice, che lei crede il marito (lo è o no?). La giovane Violet a scuola è oggetto di un feroce bullismo (un tema molto caro a Murphy e Falchuck) e fa amicizia con uno dei pazienti del padre, che è uno psicologo, il coetaneo Tate (Evan Peters) che ha molte fantasie omicide.
American Horror Story: prendo una parola alla volta.
American. Troy Patterson su Slate scrive: “Per ora, American Horror Story non è la grande storia d’orrore americana ma piuttosto una nottata di spavento veramente buona. Il titolo porta più peso di quanto il suo contenuto possa reggere. Mi fa ricordare la recensione di Joyce Carol Oates di American Wife di Curtis Sittenfeld: ‘C’è un’esperienza distintamente americana? L’Americano, di Henry James; Una Tragedia Americana, di Theodore Dreiser; Un Americano Tranquillo, di Graham Greene; Il brutto americano, di William Lederer e Eugene Burdick; Pastorale Americana, di Philip Roth; e American Psycho di Bret Easton Ellis – ciascuno suggerisce, nel suo stesso titolo, una dimensione mitica in cui personaggi fittizi intendono rappresentare tipi o predilezioni… ‘Americano’ è una identità carica di ambiguità, e di quelle parabole allegoriche di Hawthorne in cui ‘bene’ e ‘male’ sono misteriosamente congiunte.’ Non preoccupatevi troppo di tutto questo. Questo cibo spazzatura gourmet vi dà puro male (…)”.
Horror. Non c’è stato alcunché che mi abbia provocato la più minima paura e la serie è più adeguatamente descritta come un thriller che non una vicenda dell’orrore. Mira a disturbare, ad inquietare, con la sigla (sotto) che ben trasmette il senso generale del programma. L’uso di immagini a flash e soprattutto un sapiente utilizzo del montaggio, che togliendo alcuni fotogrammi stacca di continuo scene che diversamente sarebbero lineari, sono quello che stilisticamente colpisce di più. Come riferimenti sono stati citati Psycho, Rosemary’s Baby, The Others, al cinema, e in tv mi ha fatto ripensare soprattutto a Twin Peaks, e alla soap gotica cult degli anni ’60 Dark Shadows – la prima immagine, della casa vittoriana che è il fulcro delle vicende, tanto protagonista quanto le persone in carne ed ossa, mi ha immediatamente richiamato alla memoria Collinwood. C’è anche una buona dose di kink, come c’è da aspettarsi coerentemente alla premessa, e non ricordo di averne mai visto in partenza di così esplicito, in TV. In qualche modo la memoria mi ha anche richiamato, in proposito, la puntata “Baba Yaga” della serie nostrana Valentina, ma dato che l’ho vista una sola volta nell’anno della messa in onda (il 1988) ed il ricordo è quello che è, non so quanto dar credito a questo parallelismo. Da subito in ogni caso risulta chiaro che il vero orrore non è tanto quello sovrannaturale, ma quello della vita quotidiana, dei demoni personali e relazionali, del mondo, un luogo che l’originale definisce filthy, lurido, sporco, perverso, turpe, schifoso. La vita è il vero orrore.
Horror. Non c’è stato alcunché che mi abbia provocato la più minima paura e la serie è più adeguatamente descritta come un thriller che non una vicenda dell’orrore. Mira a disturbare, ad inquietare, con la sigla (sotto) che ben trasmette il senso generale del programma. L’uso di immagini a flash e soprattutto un sapiente utilizzo del montaggio, che togliendo alcuni fotogrammi stacca di continuo scene che diversamente sarebbero lineari, sono quello che stilisticamente colpisce di più. Come riferimenti sono stati citati Psycho, Rosemary’s Baby, The Others, al cinema, e in tv mi ha fatto ripensare soprattutto a Twin Peaks, e alla soap gotica cult degli anni ’60 Dark Shadows – la prima immagine, della casa vittoriana che è il fulcro delle vicende, tanto protagonista quanto le persone in carne ed ossa, mi ha immediatamente richiamato alla memoria Collinwood. C’è anche una buona dose di kink, come c’è da aspettarsi coerentemente alla premessa, e non ricordo di averne mai visto in partenza di così esplicito, in TV. In qualche modo la memoria mi ha anche richiamato, in proposito, la puntata “Baba Yaga” della serie nostrana Valentina, ma dato che l’ho vista una sola volta nell’anno della messa in onda (il 1988) ed il ricordo è quello che è, non so quanto dar credito a questo parallelismo. Da subito in ogni caso risulta chiaro che il vero orrore non è tanto quello sovrannaturale, ma quello della vita quotidiana, dei demoni personali e relazionali, del mondo, un luogo che l’originale definisce filthy, lurido, sporco, perverso, turpe, schifoso. La vita è il vero orrore.
Story. Il sopracitato critico di Slate ha osservato, in modo che ho trovato simpatico e azzeccato, che se questo telefilm fosse un libro sarebbe un incrocio fra un volume che raccoglie critiche cinematografiche, vista la pletora di horror da cui “ruba”, e il DSM-IV. Forte è anche la valenza meta testuale. Che cosa ci fa paura? Le storie sono modi in cui controlliamo la paura, dice Ben al suo paziente. È perciò una storia intesa come modo di mostrare, affrontare e controllare la paura? La TV non ha avuto molte serie vagamente definibili come horror – e finché sono come Harper’s Island, si capisce anche il perché. American Horror Story è un originale. Il pilot è stato convincente. Già la seconda puntata, ispirata a veri omicidi, ha avuto un calo e sono stati più i momenti che a me hanno procurato ilarità che non terrore. Murphy e Falchuck non sono noti per la sottigliezza, amano il gridato, le tinte forti. Credo che American Horror Story sia un programma da non perdere, uno di quelli a cui in futuro si farà spesso riferimento. Quanto buono sia però, lo dirà solo il tempo.
sono decisamente d'accordo.
RispondiEliminala prima puntata mi aveva entusiasmato parecchio, la seconda mi ha lasciato invece più perplesso. a questo punto la curiosità per la trza è molto alta.
comunque il pilot è secondo me tra i più intriganti degli ultimi anni e per stile registico mi sembra una delle poche novità rilevanti dell'annata..
Ma sì, aspetto la terza anch'io, secondo me merita comunque come horror, è ben fatto!
RispondiEliminaDa quel che ho letto la terza puntata dovrebbe essere dedicata al passato di Moira. Si prospetta interessante.
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