venerdì 29 marzo 2013

AMERICAN HORROR STORY: ASYLUM: notevole


La seconda stagione di American Horror Story, “Asylum” (Manicomio), mi pare si possa dire si sia mossa su due piani di lettura: uno l’ho gradito, l’altro molto meno.
Tutti quelli che lavorano come operatori di salute mentale, diciamo così, il programma li ha presentati come instabili loro stessi, cosa che non ho apprezzato. In particolare Sister Mary Eunice (Lily Rabe) è stata un’assassina posseduta dal demonio, il dottor Arthur Arden (James Cromwell) era un nazista sadico. Sister Jude (Jessica Lange) è stata fatta spogliare dell’abito ogni qualvolta ha mostrato cedimenti o dubbi sulla bontà dei rigidi insegnamenti che seguiva. Ho trovato ridondante, e deludente, in questa prospettiva, la rivelazione del dottor Oliver Thredson (Zachary Quinto) come lo psicopatico serial killer noto come Bloody Face che, cresciuto in orfanatrofio e privato del tocco umano e dell’affetto materno che ha sempre agognato da bambino, ammazzava le sue vittime con una maschera di carne umana, si faceva i paralume di pelle umana e usava come posacenere i teschi – un po’ di umorismo nero non guasta. Certo, è sicuramente anche un discorso sul potere e sulla paura, come lascia intuire la posizione ambigua del Monsignore (Joseph Fiennes), che autorizza il male cercando il bene, ma che poi per ragioni di ambizione personale copre quello che sa che è accaduto anche quando se ne rende conto. Che non si salvi nessuno, nel suo ruolo istituzionale, mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Il secondo piano di lettura più significativo, che ho invece molto apprezzato è che viene etichettato come pazzo chiunque si discosti dalla norma sociale riconosciuta, e abbiamo: la giornalista Lana Winters (Sarah Paulson) internata perché lesbica (e le tecniche rieducative della sua sessualità tragicamente ricordano quanto di vero è accaduto  nella storia); il giovane Kit Walker (Evan Peters), un bianco sposato a una nera, accusato di averla uccisa, ma convinto che a rapirgli la moglie siano stai gli alieni; Shelley (Chloë Sevigny), la cui colpa è che le piace un po’ troppo il sesso, trasformata in un mostro senza gambe e pieno di bolle dagli esperimenti del dottor Arden; “Anne Frank” (Franka Potente), che soffre di depressione post-partum e a cui viene praticata una lobotomia…
Nelle potente puntata in due parti intitolata proprio “I am Anne Frank” (2.04 e 2.05) una casalinga che si crede Anne Frank, si presta a una lettura molto chiara: è considerata una pazza perché vede la realtà come è (riconosce in Arthur un nazista ed è infelice della propria vita), ma torna ad essere felice del proprio stato non appena le viene fatta la lobotomia. Bisognava essere lobotomizzati per essere felici del limitante stato di casalinga e madre sempre perfetta e sorridente, dice la serie. Non solo, le parti “felici”, nel registro filmico-estetico, sono state mostrate quasi fossero una vecchia pellicola di film, un’illusione insomma, rispetto alla realtà – tecnica che è stata ripresa in successive puntate.
In generale la serie, anche con Sister Jude che finisce per essere internata lei stessa, permette poi di porsi il quesito su che cosa sia quello che etichettiamo come “malattia mentale”. 
Ian McShane nel ruolo di Leigh Emerson, un Babbo Natale assassino, in una “puntata natalizia” (Unholy Night, 2.08) che la serie si è concessa, è stato a dir poco ispirato. Efficacissimo è stato l’utilizzo della macchina da presa che ora ondulava, ora era capovolta, dava la nausea e disorientava, così come da brivido l’ultilizzo “ossessivo” della canzone Dominique dell’artista “Singing Nun”. La puntata finale di chiusura, “Madness Ends” (2.13) che ha ripercorso le tappe dell’“e-dopo?” con Lana che incontra il figlio Johnny (Dylan McDermott) già cresciuto che vuole emulare il padre Bloody Face poteva anche non esserci, ma ho apprezzato, oltre che il trucco, l’interpretazione di Sarah Paulson nel modo in cui ha recitato il suo personaggio da vecchia e sono rimasta anche ammirata della qualità estetica del video che passava da immagini che dovevano essere girate negli anni ’70 a quelle contemporanee. Questa stagione davvero ha fatto una riflessione estetica sulla qualità delle immagini davvero notevole.
AHS, che si voglia chiamare miniserie o forse più adeguatamente serie di teatro di repertorio o qualcos’altro ancora (si leggano le riflessioni di David Bianculli in proposito), ha un cast stellare – memorabile anche Frances Conroy nel ruolo dell’angelo della morta - che è davvero ai massimi livelli, e avuto una intensa riuscita stagione. Io continuo a pensare, come in passato, che non faccia paura, nel senso che non provoca paura, quanto meno non a me, e il motivo è che è troppo “dell’orrore” per fare davvero paura. Lì dove lo è stata meno, dove ha voluto scioccare il pubblico perché esca dalla proprio stato di noncuranza, per prendere a prestito meta-testualmente il proposito che Lana attribuisce al proprio lavoro (1.13), dove insomma è stata più “vera”, è riuscita a infilare un senso di disagio notevole.
È stato già annunciato il titolo della prossima stagione, “Coven” (Congrega). Si parlerà di donne hanno detto, e di streghe, a giudicare dal titolo. Di femminismo, immagino… non vedo l’ora.

sabato 23 marzo 2013

MR SELFRIDGE: spumeggiante

 
Spumeggiante: così si può definire in partenza Mr Selfridge, la serie inglese (andata in onda da gennaio su ITV, e pronta a debuttare il 31 marzo negli USA sulla PBS – in Italia chissà se e quando la vedremo) sviluppata da Andrew Davies e basata sulla biografia Shopping, Seduction and Mr Selfridge, scritta da Lindy Woodhead, sul fondatore dei grandi magazzini londinesi di Oxford Street che portano il suo nome, costruiti da zero. 
È il 1909. Harry Gordon Selfridge è un americano con un progetto ambizioso, quello di cambiare le abitudini degli inglesi aprendo un lussuoso e spettacolare grande magazzino dove le parole d’ordine sono bellezza, eleganza e qualità, e allo stesso tempo glamour, stile e teatralità – “voglio l’Isola del Tesoro qui dentro, la grotta di Aladino”.  Per far questo vuole offrire i prodotti migliori in vetrine riccamente allestite - assume per il compito Monsieu Leclair (Gregory Fitoussi) - e far sì che ci sia la possibilità di vedere e toccare la merce in un’epoca in cui se entri in un negozio e dici che vuoi solo dare un’occhiata ti rispondono che non sei a una mostra. Il personale a servire la clientela è il migliore disponibile, accuratamente selezionato. Vuole che lo shopping diventi un momento elettrizzante.
Jeremy Piven (Entourage) che interpreta il protagonista infonde nel personaggio un grandissimo entusiasmo. Mail Online lo accosta, fra gli altri, per il suo spirito, al Willy Wonka di Gene Wilder. Un po’ gli è endogeno, lui è un americano sempre ottimista che tutti si aspettano che fallisca ma che vuole sbalordire, però un po’ è anche una facciata (perché aiuta negli affari, per non allontanare investitori, per non demotivare i dipendenti, per andare avanti), e in privato talvolta la lascia cadere. A preoccuparsi sul serio e perfino a spaventarsi ci pensa chi tiene i libri contabili, l’ansioso Mr Crabb (Ron Cook), che gli fa da contrappunto. Il pilot termina con questo scambio fra Mr Selfridge, che ha appena terminato la giornata dell’inaugurazione, e Mr Crabb che ha appena finito di fare due conti:
Mr Selfridge: Grande giorno, Mr Crabb. Grande giorno.
Mr Crabb: Come spettacolo, Mr Selfridge. Come spettacolo.
Mr Selfridge: Buona notte, Mr Crabb.
 
La carica ottimista del visionario commerciante-imprenditore permea tutta la serie, e c’è un senso epico di star facendo qualcosa di grande, di eccitante, di mai tentato prima, quasi un’avventura. 
Harry è circondato da un “entourage” – passatemi il termine, non ho resistito – di donne: la moglie che ama, Rose (Frances O’Connor); Lady Mae Moxley (Katherine Kelly), ricca nobildonna con i migliori contatti sociali della City che decide di finanziarlo; Ellen Love (Zoë Tapper), un’attrice di teatro; Agnes Towler (Aisling Loftus), che lui fa assumere per scusarsi di essere stato la causa del suo licenziamento in un altro negozio. E poi ci sono numerosi altri personaggi minori, come Miss Mardle (Amanda Abbington), a capo della sezione degli accessori, che ha una storia con il capo del personale, Mr Grove (Tom Goodman-Hill).  
Le ambientazioni sono sontuose, il tono leggero e frizzante. “Sarà il nuovo Dowton Abbey?”, si sono chiesti in molti, così come sono stati fatti accostamenti con la serie della BBC The Paradise. L’inizio intanto è godibilissimo, e la serie, la cui prima stagione conta 10 episodi, è stata confermata per una seconda.
Sotto, la sigla d’apertura.

lunedì 18 marzo 2013

CULT: ha le carte in regola per essere un cult

 
Nel nuovo show della CW intitolato Cult, Jeff Sefton (Matt Davies, The Vampire Diaries), un giornalista licenziato per aver fabbricato delle notizie con lo scopo di far finire in carcere alcuni poliziotti corrotti, indaga sulla scomparsa del fratello Nate (James Pizzinato) che poco prima di sparire si era rivolto a lui temendo il peggio e, nell’evenienza che qualcosa di brutto potesse accadergli, lo aveva messo sulla pista di un programma televisivo di cui lui e altri sono grandi fan.
Il programma televisivo all’interno dello show che raccoglie intorno a sé questo adorante pubblico si chiama anche quello “Cult” e parla del leader di un cult, ovvero di una setta, chiamato Billy Grimm, e interpretato dall’attor  Roger Reeves (l’assolutamente perfetto Robert Knepper, Prison Break) che risulta magnificamente viscido e manipolatore. Nello show-all’interno-dello-show, una giovane poliziotta, Kelly Collins, interpretata da Marti Gerritsen (Alona Tal), è una ex-appartenente alla setta che ne è uscita e ora cerca di risolvere i misteri collegati a Billy Grimm e di capire che fine abbia fatto la propria sorella.
Jeff decide di investigare insieme a Skye Yarrow (Jessica Lucas), una ragazza che si è fatta assumere dal programma per scoprire quanto è capitato al padre molti anni prima: ritengono che “Cult” sia più di un  programma televisivo cult, ma che in qualche modo le attività della setta rappresentate nella finzione trasbordino nella realtà. In Cult perciò vediamo sia “Cult” che le investigazioni su “Cult”, pure in onda sulla CW. Alle indagini partecipa anche una poliziotta, la detective Rosalind Sakelik (Aisha Hinds, inusuale scelta di casting) che però ha lei stessa sul polso il logo del programma e non è chiaro fino a che punto sia fan dello show.   
Questo telefilm ideato da Rockne S. O’Bannon (Farscape) trasuda riferimenti meta-testuali, con un esplicito commento non solo sul complesso fenomeno dei cult, ma anche sulle tecniche di televisione convergente e di coinvolgimento trans-mediale del pubblico, sia su larga scala che nei dettagli – l’ideatore di “Cult”, ad esempio,  si chiama Steven Rae, che il nome del produttore esecutivo, nonché sceneggiatore di Cult; il cafè dove si ritrovano alcuni dei fan di “Cult” si chiama “Fan Domain”; vengono pronunciate frasi come “nessuno sa si sicuro se nel programma ci siano dei messaggi o no”.
Con un forte “effetto Droste” di base, è ambizioso e affascinante,  ma sulla base delle puntate iniziali anche complicato e con un potere di trazione limitato. Il look è abbastanza oscuro e vagamente da B-movie, e la sceneggiatura è in equilibrio fra momenti da sbadiglio e chicche, magari non eccezionali, ma potenzialmente citabili, e non mancano i simboli, le frasi tormentone e gli oggetti carichi di significati ulteriori (gli occhiali con lenti una rossa e una blu, una specie di moneta d’oro, i DVD con sopra incisa una “M”, il disegno di una specie di ruota a tre braccia uncinate, il logo dello show …)
Questa serie ha insomma tutte le caratteristiche per diventare davvero un cult, quanto buono è ancora da vedere. Per ora la parte più affascinante di Cult è “Cult”. È eccessivo scrivere, come ha fatto Glenn Garvin per il Miami Herald, che guardare il programma è come “cercare di leggere un romanzo di Kafka in sanscrito. Da cieco. E ubriaco.”, perché è sicuramente molto più intellegibile di quanto non sia stato ad esempio il re-make de Il Prigioniero, ma decisamente si va verso un “trip mentale”. Ed è il tipo di storia in cui davvero è necessario avere una fede incrollabile negli autori e nel fatto che abbiano chiaro un piano.  In più di un’occasione si pensa a “Lost”, guardando le puntate, e alle tecniche con cui ha ingaggiato gli spettatori,  e si riflette molto sulle modalità con cui la passione per un programma può trasformarsi in ossessione per i “veri credenti”. A coglierlo, deliziosamente contorto. Che la rete dopo la prima puntata ne abbia cambiato il giorno di messa in onda non è un buon segno.

lunedì 11 marzo 2013

Il 29 aprile il ritorno di OLTL e AMC

 
Ebene sì, ce l’hanno fatta: le cancellate soap della ABC One Life to Live e All My Children tornano dalla morte come nel più classico dei colpi di scena del genere.  Come riporta il sito We Love Soaps, c’è finalmente una data: la tanto sospirata ripresa avverrà il 29 aprile, online, su The Online Network (TOLN) della Prospect Park.

Nuovi episodi di 30 minuti ciascuno saranno disponibili quotidianamente in streaming su Hulu (www.hulu.com), anche se purtroppo non ancora per l’Italia, e saranno scaricabili anche dallo store di iTunes.

Jeff Kwatinetz e Rich Frank, della casa di produzione Prospect Park - che ha fortemente creduto in quest’idea, anche quando sembrava irrealizzabile per via di contrasti con il sindacato degli attori – hanno dichiarato: “Ringraziamo i fan la cui tenacia nel vedere il ritorno di questi show ha reso possibile questo storico momento. Siamo determinati a ripagare il loro supporto dando vita ad episodi nuovi e creativamente all’avanguardia che sia i fan, che legioni di nuovi spettatori, ameranno”.

Consulente creativa sarà Agnes Nixon. Come dire: un nome, una garanzia.

 

sabato 9 marzo 2013

OH MY GOD: geniale promo per lo speciale di Louis C.K.


Il promo dello speciale di Louie CK intitolato “Oh my God”, in onda sulla HBO il 13 aprile, è un gioiellino in sé, per come mette a nudo le convenzioni di questo genere di spot promozionali, risultando ad un tempo parodistico e auto-deprecatorio. Geniale.

venerdì 8 marzo 2013

LAVORI SPORCHI: Mike Rowe non è choosy


Capita di pensare “che schifo!” guardando il programma ma non è perché Lavori Sporchi (DMAX, ore 16.05) sia fatto male, ma perché alcuni mestieri sono davvero ingrati. “Choosy” non è di certo un aggettivo che nessuno si sognerà mai di applicare a Mike Rowe, che si presta a svolgere una tantum un lavoro proprio per illustrarcelo.
 
Non tutti hanno a che fare con fogne, letame o altre amenità del genere, tutti sono però impegnativi e richiedono non solo perizia, ma anche una buona dose di stomaco o di forza. Sporco perciò non ha il senso solo di lercio, ma include tutta quella serie di professioni in qualche modo “toste”. Fare il bottaio ad esempio, montando doghe in legno,  inserendo cerchi in metallo, applicando farina nella capruggine, cauterizzando il cocchiume, verificando la tenuta della botte finita…   di certo non è per mammolette, come il conduttore non si esime dal sottolineare spesso con tono un po’ machista.
 
Si impara molto, e viene fatto notare anche come si filma. Soprattutto, si capisce quanta riconoscenza si deve a chi compie lavori umili, ma indispensabili.

 

venerdì 1 marzo 2013

HOMELAND: la seconda stagione

 
Ha avuto un piccolo calo Homeland nella seconda stagione, rispetto alla prima, pur rimanendo una serie assolutamente eccellente. Si è un po’ “24izzata”, anche se rispetto a “24” mantiene comunque una dimensione più intima e riflessiva che la rende più umano. Parte a distanza di poco da dove si era terminato il primo ciclo: Carrie (Claire Danes) comincia a riacquistare un certo equilibrio mentale, dopo che si era fatta fare l’elettroshock per gestire la sua depressione bipolare alla fine della prima stagione, e viene richiamata momentaneamente per incontrare una informatrice a Beirut che si fida solo di lei; Nicholas (Damian Lewis) è ora un deputato e si apre per lui la possibilità di essere candidato alla vicepresidenza.
Uno dei punti di  forza del programma è quella di non temere di bruciarsi le cartucce troppo presto. I personaggi vengono messi all’angolo in posizioni da cui non riesci ad immaginare come possano uscirne, ma lo fanno. E le mosse, anche attese, vengono fatte in tempi inaspettati: la rivelazione che Carrie aveva ragione e Brody era un potenziale terrorista non è avvenuta a fine stagione, come magari ci si poteva aspettare, ma presto (2.04). Avviene non appena gli autori compromettono il suo personaggio in modo più deciso, facendogli uccidere un uomo solo per evitare di essere scoperto  (2.03) e decidono di riscattarlo facendo collaborare con gli Stati Uniti. E la cattura e uccisione di Abu Nazir, pure un potenziale narrativo da season finale, è invece utilizzato nel sottofinale (2.11), ideando per la più intima finale un colpo di scena ancor più sorprendente.

Gli attori, tutti eccellenti, brillano nel mostrare la propria ferita vulnerabilità e nel perdersi e ritrovarsi – a questo proposito, centra il bersaglio una puntata come “The Clearing” (2.07) in cui Saul (Mandy Patinkin) riesce a promettere a Aileen, in isolamento, una stanza con una finestra in cambio di informazioni, per poi vederla togliersi la vita. Sempre magnifico il rapporto padre-figlia fra Brody e Dana (Morgan Saylor), la cui storia secondaria di omissione di soccorso in seguito ad un incidente stradale pure è degno di nota, per come tocca i temi della responsabilità e della colpa, ma anche dell’essere adolescenti e genitori. Su tutto svetta come sempre il rapporto fra i due protagonisti principali, ora di gatto e topo, ora d’amore.  Come sempre, una serie intensa da non perdere.