È
una serie arrabbiata e con toni satirici Dear
White People (Netflix), basata su un film di Justin Simien dallo stesso
titolo e ambientata in un immaginario college della Ivy League, la Winchester
University. Segue un gruppo di studenti neri in un contesto istituzionale
prevalentemente bianco, con le conseguenti questioni di ineguaglianze sociali.
Parla di integrazione e (auto)segregazione, di tensioni razziali e politiche
identitarie e sociali, di assimilazione e di appropriazioni culturali, di
pregiudizi e di ipocrisie, di diritti e di entitlement,
di cultura e di proteste, di privilegio bianco, di potere, dell’essere inermi e
del fare la differenza, con anche in primo piano quello che Coates chiama la distruzione del
corpo nero, a cui sono (nei fatti, se non sulla carta) autorizzate le forze di
polizia.
Ogni puntata si
concentra su un personaggio diverso, ma come protagonista spicca la studentessa
Samantha White (Logan Browning) che conduce un programma radiofonico
studentesco che porta il titolo della serie stessa (Carissimi Bianchi, in italiano). Le stoccate della sua lingua
affilata non risparmiano nessuno. Frequenta Gabe (John Patrick Amedori), un
bianco, e questo la mette in una posizione delicata, tanto più che suscita le
gelosie di Reggie Green (Marque Richardson), innamorato di lei, e a sua volta
oggetto dell’interesse di Joelle (ashley Blaine Featherson), che non si fa
illusioni sulla situazione. All’esordio delle vicende motivo di scontento e di
contrasto è il Pastiche, un giornale
satirico scritto da ragazzi bianchi che organizza una festa blackface (il tipo di trucco teatrale
usato dai non-neri per rappresentare i neri), giudicata prontamente razzista. Presto
le unioni studentesche nere, e l’intera
scuola, si ritrovano a discutere animatamente della questione anche per capire
come risolvere l’incidente. Uno di questi gruppi è guidato da Troy Fairbanks
(Brandon P. Bell), figlio del rettore, oppresso dal padre che lo vuole far
diventare una figura politica di spicco contro i suoi desideri. Ha una ragazza,
Colandrea “Coco” Conners (Antoinette Robertson), molto ambiziosa, che ha
programmi molto precisi – ha già deciso il nome dei figli che avranno, ad
esempio - per il loro futuro come power couple - punta alla casa Bianca. Per
Troy ha una cotta segreta il suo compagno di stanza, il timido, ma risoluto
Lionel Higgins (DeRon Horton), che scrive per il giornale scolastico, The Winchester Indipendent.
Se le 10 puntate della
prima stagione debuttano con una rivolta sdegnata contro una festa razzista, con
il progredire delle puntate il dibattito si fa più rovente e dolente
affrontando l’attualissima problematica delle violenze della polizia nei
confronti di neri innocenti presi di mira solo perché tali. Black-ish (in “Hope”, 2.16) aveva parlato
della questione in una memorabile puntata; qui la si mette in scena
coinvolgendo proprio uno dei protagonisti. Durante una festa al campus (1.05),
un ragazzo bianco usa un epiteto razzista nel ripetere le parole di una
canzone. Alla richiesta di non farlo, seguono spintoni, scoppia una rissa e la
polizia interviene. Contro Reggie, innocente, la guardia di sicurezza del
campus punta la pistola, che non abbassa finché non vede il tesserino
identificativo che lo qualifica come studente. Tutti sono ragionevolmente
sconvolti dall’evento, che è sezionato da
un punto di vista sociale e politico e razziale, e da un punto di vista umano,
psicologico e personale - Reggie, uno
degli studenti più bravi, si isola e in una serata a microfono aperto in un
locale, si esibisce in uno slam di poesia intitolato “una pallottola”.
In una locandina, la
serie ritrae Sam con un megafono. È un riferimento
all’ultima puntata della stagione in cui viene organizzata una protesta, ma è un
simbolo di quello che i protagonisti (e la narrazione) cercano di fare: far
sentire la propria voce più forte, amplificare perché venga notato il dolore (un
tema forte e ripetuto) che li fa scendere in strada, invitare a essere svegli,
consapevoli. Perché il passo fra l’affermazione razzista apparentemente innocua
e la brutalità non è poi così lungo.
Se c’è predica, è
infarcita di umanità e umorismo, non è pedante. C’è una quasi irreale
iper-consapevolezza da parte dei personaggi delle sottostanti dinamiche filosofico-politico-culturali,
con scoppiettanti dotti riferimenti, anche ermetici (almeno per me, bianca, forse
troppo ignorante di cultura nera), me se lo si accetta da Aaron Sorkin o Kevin
Williamson non si vede perché non lo si possa fare qui. Molti personaggi si prendono
un po’ nelle frange del narrazione – ma non il delizioso cane (bianco) Sorbet
(o Sorbetto, in italiano), devo dire, sulla cui sorte si rimane in ansia alla
fine, pur con una punta di umorismo – ma quella che rimane distintiva è la voce
autoriale che spinge a una maggiore consapevolezza. Si tratta di una voce che si
riascolterà con piacere nella confermata seconda stagione, e che molti bianchi,
come del resto io stessa, penso abbiano probabilmente la necessità di sentire.
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