martedì 30 luglio 2024

DEAD BOY DETECTIVES: un teen drama sovrannaturale scacciapensieri

   

Sarà che non conoscevo in precedenza i personaggi di Dead Boy Detectives, ideati originariamente da Neil Gaiman e Matt Wagner per la DC Comics, per cui avevo aspettative su come dovessero essere, ma ho trovato gustosissima questa serie gotico-sovrannaturale portata da Steve Yockey su Netflix dopo che inizialmente doveva debuttare su HBO Max. Poi il ritmo è diventato più tradizionale, ma nel pilot è stato così incalzante per me, e con il plot segmentato in momenti con una titolazione apposita che ne scandisce le parti che conserva anche in seguito, che ho pensato che era proprio adatta alla generazione attuale che vuole momenti agili “spelled out”, esplicitamente spiegati rispetto a quello di cui tratteranno. Una forte mitologia e protagonisti affascinanti testimoniano il talento di Gaiman, ma mi hanno anche fatto ripensare a Buffy. Non è a quel livello come serie, ma nessuno vieta che possa crescere. Gagliarda anche la sigla.     

Protagonisti sono due fantasmi di ragazzi poco più che adolescenti: Edwin Payne (George Rexstrew) che è finito all’inferno, dopo che i suoi compagni di college nel 1916 lo hanno offerto in sacrificio, e dopo decenni di torture è riuscito a scappare; e Charles Rowland (Jayden Revri), ragazzo punk dell’era Thacheriana già oggetto di abusi domestici da parte del padre, morto nel 1989 a seguito di bullismo da parte dei compagni di classe per ipotermia ed emorragia interna. Se il primo è ingessato e un po’ saputello, il secondo è apparentemente sempre di buon umore. Cercano di scampare alla Morte (Kirby Howell-Baptiste), e intanto gestiscono una loro agenzia per risolvere casi sovrannaturali, per aiutare spesso i defunti a lasciare finalmente questo piano di realtà in cui sono intrappolati seppur morti e raggiungere l’aldilà. Un giorno si rivolge a loro una ragazza medium, Crystal Palace (Kassius Nelson), che come tale è in grado di vederli, a cui ha rubato la memoria un demone, David (David Iacono). Presto si unisce al duo e si spostano per un caso da Londra a Port Townsend, Washington, dove rimangono bloccati (solitamente riescono a spostarsi da un luogo all’altro attraverso gli specchi). Crystal affitta una stanza sopra la macelleria Tongue & Tail gestita da  Jenny Green (Briana Cuoco) e fa amicizia con un’altra affittuaria, la confettosa Niko Sasaki (Yuyu Kitamura), che a causa di un’esperienza di pre-morte pure riesce a vedere Edwin e Charles e diventa ufficiosamente parte di un quartetto.

Nella cittadina americana hanno a che fare con una serie di personaggi ricorrenti, che aggiungono fascino a questa serie adolescenziale: hanno feroci scontri con Esther Finch (Jenn Lyon), una strega immortale che fa di tutto per rimanere giovane, e che ha trasformato il suo corvo in un attraente ragazzo Monty (Joshua Robert Colley) per avvicinarsi a loro per distruggerli; devono eludere la Night Nurse (Ruth Connell), che si occupa del dipartimento di soggetti smarriti dell'Aldilà che cerca di individuarli per riportarli dove ritiene debbano stare, e il Re dei Gatti (Lukas Gage), che si è invaghito di Edwin; il solo ad aiutarli in qualche occasione è Tragic Mick (Michael Beach) un tricheco diventato uomo che rimpiange la sua forma passata e che gestisce un negozio di oggetti magici.

Uno degli aspetti migliori della serie è l’amicizia fra i due protagonisti, entrambi con un passato tragico alle spalle e che ci sono sempre l’uno per l’altro; le due ragazze si sono unite in seguito, ma Chrystal in particolare si è integrata subito. Molto spassoso è stato come hanno giocato sull’omosessualità repressa di Edwin in considerazione che, oltre alla naturale timidezza, proviene da un’epoca diversa dalla nostra. Si è riuscito a flirtare un po’ con i doppi sensi, che inizialmente lui non coglieva o con cui si sentiva a disagio, per arrivare progressivamente a un riconoscimento di se stesso che è stato comunque intenso e delicato.

Si sono ben amalgamate le classiche tematiche adolescenziali e tropi del genere (ad esempio l’amore non corrisposto) a quelle gustosamente horror, ma non con l’estetica macabra che pare caratterizzasse il lavoro di Gaiman, ma più giocoso  - un leggero steampunk incontra Heath Robinson, dice bene il Guardian - e di fatto però anche trascurabile. Quello che motiva la missione della Dead Boy Detective Agency è ha un che di amaro: le loro morti non avevano importanza e nessuno le ha mai risolte e loro vogliono di garantire che altre anime non vengano dimenticate come loro e così, fra mostri, demoni e spiritelli dispettosi dei denti di leone che possono essere conservati in un barattolo, risolvono il caso della puntata, accumulando anche una mitologia molto densa.

Un perfetto scacciapensieri: una serie pop-corn che spero rinnoveranno perché intendo proseguirla.

sabato 20 luglio 2024

THE NEW LOOK: creare è sopravvivere

Mi aspettavo si parlasse molto di più di moda, nella serie The New Look (AppleTV+), che ha come protagonisti Christian Dior e Coco Chanel, invece inaspettatamente ma come è presto evidente dalla sigla del programma, molta dell’attenzione è rivolta alla seconda Guerra Mondiale: a quello che nel contesto di questo evento storico è accaduto intorno ai personaggi, al senso della loro professione in simili tempi e circostanze e ai compromessi con cui questi due creatori di haute couture sono dovuti scendere a patti, in qualche caso. Non che non ci sia spazio in ogni caso anche per le creazioni sartoriali. Lo stesso titolo della serie deriva dalla definizione che di una collezione di Dior del 1947 è stata fatta da Carmel Snow (Glenn Close), capo-redattrice dell’edizione americana di Harper’s Bazaar che, assistendo alla prima sfilata dello stilista a Parigi, ha esclamato: “It's such a new look!”. 

Ispirata a eventi reali, la serie esordisce in una prestigiosa cornice: Dior (un sempre spettacoloso Ben Mendelsohn, Bloodline) è stato invitato alla Sorbonne davanti ad un gruppo di studenti che gli pongono delle domande. Una ragazza gli chiede se è vero che Coco Chanel (una risoluta, dinamica, impeccabile Juliette Binoche) ha chiuso la sua attività durante la guerra, mentre lui ha vestito le mogli della gerarchia hitleriana. Anche Cristóbal Balenciaga si è rifiutato, sottolineano, a cui fra parentesi è stata dedicata un’altra recentissima serie TV (Disney+). Gli organizzatori vorrebbero che non si sollevasse la questione, ma lui accetta di rispondere. Partono così le vicende che mostrano molti più chiaroscuri che non una divisione manichea in bianco e nero.

Allora lui lavorava per l’atelier di Lucien Lelong (John Malkovich), che in effetti ha scelto di continuare la propria attività e ha vestito le donne naziste, anche se umanamente fa la figura del gran signore in tutto il corso della narrazione; Dior ha utilizzato però i guadagni per finanziare la sorella, Catherine (Maisie Williams, la Arya di Game of Thrones, che brilla nelle atrocità che deve subire, del resto ha avuto una buona scuola, verrebbe da dire), membro della resistenza, poi catturata, torturata e finita nel campo di concentramento di Ravensbruck, e ha fatto di tutto per aiutarla. Coco Chanel dal canto suo non ha tenuto aperto il suo negozio, ma ha avuto relazioni e problematici contatti con persone legate al regime, come Hans von Dincklage (Claes Bang), detto “Spatz,” e si è cercato di reclutarla come spia insieme all’amica Elsa Lombardi (Emily Mortimer, che racchiude in sé un paio di amiche dell’icona della moda), tanto che aveva un suo nome in codice e a lungo non è potuta rientrare nella capitale francese perché sospettata di collaborazionismo, anche se lei ha sempre negato e si vede che la torbidità della sua posizione è dettata più dalle circostanze che da una presa di posizione. Però, per poter accedere al proprio conto bancario che le era precluso si è avvalsa delle leggi ariane a detrimento dei propri soci ebrei. Il mondo che si ritrae è perciò difficile, e si evidenzia come, ad essere in una posizione di rilievo, talvolta non si riesce a districarsi dal potere anche volendo.

Nella Francia del secondo conflitto mondiale ci ha portato di recente Transatlantic, ed è stato inevitabile, in qualche caso, ripensarci. In The New Look, ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damages), si è molto più crudi: la serie non distoglie lo sguardo degli orrori della guerra. Quando Coco si ritrova a cena con Heinrich Himmler (Thure Lindhardt) si rabbrividisce a sentirgli dire come il loro obiettivo fosse di eliminare il loro senso di appartenenza, quindi le loro cose, quello che possevedavo e poi la loro dignità, la loro speranza, l’anima. È difficile assistere alle torture a Catherine, anche nella misura in cui in sono in fondo solo accennate – non ci si compiace nel mostrare le situazioni più abbiette, ma si percepisce l’autentica mostruosità di quanto è accaduto, e si soffre dell’ansia e della paura di Christian che non sa che cosa sia capitato alla sorella. Perfino il suo ritorno, giustamente, mostrava i segni della tragedia vissuta sulla propria pelle e nella propria mente. La sorte delle collaborazioniste, rapate a zero e insultate e infamate per la strada dopo la liberazione, incarnate una per tutte dalla famosa attrice Arletty, paiono un inferno del contrappasso (1.04). Il ritorno spettrale dei sopravvissuti è accolto con lo sgomento nell’osservare la realtà che sopraffà la gioia (1.05). Non è solo uno sfondo, è parte essenziale della narrazione.

Allo stesso tempo la moda come arte è vista come atto creativo di riscatto, mezzo di sopravvivenza, tentativo salvifico di andare avanti e di offrire speranza attraverso la bellezza. Questo è quello che si ripropone Dior, timido, riservato, non grande amante di un accesso di attenzioni. Vuole provare emozioni, sognare, vivere, costruire un nuovo mondo attraverso la propria elegante inventiva. Vive nell’atto di disegnare e creare i propri abiti, non gli interessa la fama, se non come scotto per poter fare quello che ama fare. Ha uno smisurato talento, ma sono gli altri che sanno più di lui metterlo economicamente a frutto. E se, terminata la guerra, in tutta la Francia non c’è stoffa da confezionare abiti veri e ci si deve accontentare di vestire delle bamboline-manichino, che al teatro della moda ricevono 100.000 visitatori, quando ha l’opportunità di avere un proprio atelier, complice il mecenatismo di un danaroso re de cotone, rimane l’uomo corretto che non sottrae le modelle ai proprio colleghi, ma preferisce scegliere una prostituta presentatasi insieme a molte, dopo un annuncio messo sul giornale. Deve rassegnarsi a sottrarre ai colleghi le sarte, ma anche lì poi si giunge a un compromesso. La rivalità non è mai fare lo sgambetto agli altri, domina la correttezza, l’amicizia sincera, un’etica del lavoro che insegna a perseverare con dignità. E ci tiene immensamente alla famiglia, che sia la sorella a cui dedica la sua prima fragranza, Miss Dior – e confesso che la prossima volta che vado in profumeria mi fermerò ad annusarla pensando alla serie, conoscendone l’origine -, che sia il fratello che si trova in un sanatorio (l’ospedale psichiatrico dell’epoca) o il compagno (che si vede molto poco in realtà, ma è presente).

Diversamente dagli abiti degli stilisti ritratti, la serie ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damagesnon lascia a bocca aperta. La recitazione è impeccabile, ma i dialoghi potrebbero essere più incisivi e c’è una tendenza a sovraspiegare. Quando muore il padre di Christian (1.08), che poco prima gli aveva chiesto di andare a trovarlo, cosa che lui aveva rimandato di fare perché troppo pieno di lavoro, piange la sua morte e si arrabbia con se stesso. Non serviva che rimettessero in voiceover la conversazione avuta fra i due poche scene prima: ci arriviamo da soli che parte della sua reazione è il rimpianto di non aver acconsentito alla richiesta del padre. Questo accade troppo spesso. Una prevista seconda stagione è in ogni caso benvenuta.

mercoledì 10 luglio 2024

EXPATS: l'effetto delle tragedie

Nonostante sia una scelta ragionevolmente basata sul nome del libro di Janice Y. K. Lee da cui è tratta, ovvero The Expatriates (2016), in italiano diventato “Expats - La vita delle altre”, Expats, la miniserie in sei puntate ideata da Lulu Wang per Prime ha per me un titolo completamente sbagliato, perché fuorviante. Che si tratti di espatriati che vivono a Hong Kong è incidentale, non è quello il fulcro delle vicende, ma il tema principale, come senza mezzi termini dichiarano in apertura, è come facciano a sopravvivere quelle persone che involontariamente hanno causato delle tragedie, come fanno a perdonarsi e a farsi perdonare e a mettersi il passato alle spalle, come gestiscono la responsabilità di quanto è accaduto, come continuano con il senso di colpa e con il desiderio di una vita alternativa, e quando si meritino la compassione. Il punto focale è l’effetto che le tragedie hanno sulla vita delle persone, e sottolineo tragedie, perché non c’è un momento di leggerezza che sia uno in questa produzione emozionalmente molto carica.

Siamo a Hong Kong, sullo sfondo di proteste che si sono verificate nel 2014, e le tre protagoniste principali sono Margaret Woo (Nicole Kidman), ora casalinga che ha lasciato temporaneamente il lavoro per seguire il marito Clarke (Brian Tee) all’estero, che ha tre figli; Hilary Starr (Sarayu Blue), una donna di origina indiana che è la migliore amica di Margaret e che ha il matrimonio con David (Jack Huston) in crisi, incerta se avere un figlio o meno, e che considera un’amica la sua donna delle pulizie, Puri (Amelyn Pardenilla); e Mercy Cho (Ji-young Yoo), una giovane coreano-americana neolaureata alla Columbia University, che è convinta che la sua vita sia maledetta, dal momento che glielo ripetono da quando è nata. Margaret, stizzita e un po’ gelosa del rapporto che Essie (Ruby Ruiz), la tata filippina dei suoi figli, ha con loro, decide di non portarsela dietro quando esce per fare un giro al mercato serale della città, ma coinvolge invece Mercy, che ha da poco conosciuto, e le affida il più piccolo dei suoi figli, Gus, che vuole vedere una bancarella un po’ più distante. Mercy per distrazione perde di vista per un momento il piccolo che scompare nel nulla. Segue la frenetica ricerca, vana, e a seguire la disperazione più totale di tutti i coinvolti. Mercy, anche, comincia una relazione con David.

La miniserie riesce a brillare lì dove mette il dito nella piaga di ciascuna delle tre donne protagoniste: l’agonia della madre che ha perso un figlio e diventa ossessionata dall’obiettivo di ritrovarlo, a scapito di tutto il resto, degli altri figli ad esempio, tormentata dal senso di colpa e nella speranza che sia ancora vivo ma contemporaneamente anche timorosa del sollievo che potrebbe essere saperlo morto rispetto alle possibili alternative; i rapporti conflittuali di Hilary con i genitori: con la madre rimane bloccata in un ascensore ed è l’occasione per un feroce scambio di prospettive, con la figlia che ha visto negli anni gli abusi del padre e che non vuole un matrimonio in cui deve accettare le amanti del marito; la deriva di Mercy, abbandonata a sè stessa, nonostante una madre che si offre di aiutarla, divorata dal senso di colpa e allo sbando su quello che è meglio fare, con un passato che torna sempre a galla. Sentimenti crudi, spogliati di ogni finzione.

Sono notevoli anche gli aspetti in cui si riflette sulle classi, il denaro e il privilegio che queste donne danno per scontato, in cui si vede il loro egocentrismo: con nonchalance usano le persone al loro servizio nell’illusione che siano amiche, persone di famiglia. Lascia perfino a disagio. Durante i 90 minuti di “Central” (1.05), una puntata più lunga delle altre, ad essere al centro della narrazione sono proprio queste ultime, durante un tifone. Vediamo così che Essie, che videochiama il figlio nelle Filippine, vorrebbe raggiungerlo e finalmente smetterla di occuparsi dei figli degli altri, per dedicarsi al nipotino e, anche se non visto, è anche suo il dolore per la perdita di Gus, considerato tutto il tempo che gli dedicava; e vediamo Puri che scambia gossip con altre amiche sulle persone per cui lavora: Hilary la vede come un sostegno e incoraggia i suoi sogni di partecipare a una competizione canora, passando una serata insieme a sorseggiare del vino e a provare vestiti, ma sul dunque se ne dimentica. È chiaro come non sono nulla di più di staff domestico retribuito, a dispetto di qualunque dichiarazione in direzione diversa. Personalmente penso che sia anche normale, perché non è facile trovarsi dislocati in un Paese straniero, molto distante dal proprio, e aspettarsi che un espatriato possa intenderne facilmente le dinamiche socio-politiche o culturali anche sforzandosi, che voglia farlo preso dalla propria vita e che possa considerare qualcuno che ha assunto da poco tempo come una persona effettivamente significativa da un punto di vista emotivo. Troverei strano l’opposto. Quello su cui si fa luce è la mancata consapevolezza della realtà. Alla fine dei conti le protagoniste ignorano quello che non le riguarda e il contesto in cui si svolge, e non se ne rendono nemmeno conto, e forse in questo aspetto il titolo riesce ad avere un senso. In ogni caso questa produzione che medita sul privilegio, anche di fatto di potersi permettere l’inconsapevolezza, è pure stata oggetto di polemiche su questo fronte, accusata di essere sorda alla difficile situazione politica del Paese e di aver ricevuto dei permessi speciali per girare durante il lockdown per il COVID, evitando così restrizioni imposte ad altri.  

Nonostante momenti di grande forza, e una recitazione impeccabile da parte di tutte, piena di sottigliezze e contraddizioni, è nella coesione fra le varie parti che la narrazione è debole e non convince, e nonostante sia viscerale nel portare alla luce con onestà e credibilità tormenti e disillusioni, il tono greve alla fine risulta anche tedioso.  

lunedì 1 luglio 2024

BRIDGERTON: la terza stagione

Anche con la sua terza stagione Bridgerton si conferma una gustosa caramellina. Questa stagione mi ha convinta meno di altre rispetto alla coppia che era sotto i riflettori, Colin Bridgerton (Luke Newton) e Penelope Featherington (Nicola Coughlan), ma solo perché sono stati un po’ affrettati nel far sì che lui si rendesse conto dei suoi veri sentimenti, diversamente sono rimasta soddisfatta. E quante scene hot! Chi si sarebbe immaginato che una serie così mainstream e “di buoni sentimenti” (non siamo Game of Thrones, voglio dire) mostrasse scene a tre non con uno, ma ben due dei suoi leading men? Una era proprio con Colin con delle prostitute, e francamente non l’ho trovata particolarmente in linea con il personaggio, se non nella misura in cui lo si voleva far vedere ora smaliziato uomo di mondo. Potevano trovare un altro modo. L’altra era con Benedict (Will Tilston) e c’erano di mezzo i sentimenti e una storia vera e propria e in quel caso non mi è affatto dispiaciuta, anche perché per come era stato visto finora quel personaggio che non mostrasse attrazione anche per gli uomini mi era parso poco credibile. Audace, per quello che siamo abituati a vedere.

In primis bisogna riconoscere a Shondaland, che produce la serie, di aver saputo dimostrare con i fatti che non è poi così difficile realizzare la diversità sullo schermo se proprio lo si vuole. Inclusività e varietà basta volerle. Quand’è l’ultima volta che si sono visti tanti neri e bianchi insieme a pari merito? Evviva. E si è fatto lo stesso con la forma corporea. Non si non può notare l’ovvio. Parte del personaggio di Penelope è narrativamente condizionato dal fatto che è grassa.

Quando una giornalista ha commentato sul coraggio che la Coughlan ha avuto a mostrarsi senza veli, lei brillantemente ha risposto: "Sapete, è difficile, perché penso che le donne con il mio tipo di corpo, le donne con un seno perfetto, non si vedono abbastanza sullo schermo. Sono molto orgogliosa di far parte della comunità dei seni perfetti. Spero che vi piaccia vederli". È stata una battuta intelligente che ha creato ilarità, ma sappiamo ben tutti, anche perché in passato ha sempre riferito il fatto che le facevano bodyshaming grassofobico, che vedere una protagonista con la sua mole oggetto del desiderio romantico e sessuale maschile, al pari di chiunque altra, non è qualcosa che si veda di frequente. Ed è fantastico che ci sia.

La prima scena di sesso fra Pen e Colin (3.05) è stata davvero magnifica. Hanno mostrato lei nuda frontalmente dalla vita in su e lui totalmente nudo da dietro. Sono stati spinti, ma hanno saputo calibrare alla perfezione anche il consenso e il fatto che lei era vergine e “ingenua” – per tutte e tre le sorelle Featherington è stato reso chiaro che non se ne intendessero molto su quello che significasse andare fino in fondo, cosa giocata anche sull’ilarità, quando al “sorellastre di Cenerentola” della situazione dovevano cercare di rimanere incinte, ma era evidente che non mettessero in pratica attività consone all’ottenimento del risultato. Quindi un applauso su questo fronte.

E poi, per rimanere in tema di peso, la protagonista di questo arco non è mai stata definita solo dal suo aspetto fisico e ridotta a quello e basta. Certo, nessuno si aspettava attirasse un marito, ed è sempre stata la “carta da parati” dei balli, ignorata e sottovalutata da tutti;  anche per questo era potuta diventare la temuta scrittrice Lady Whistledown, che fa tremare l’alta società con i suoi gossip veritieri, e spesso impietosi. Penelope è sempre stata un personaggio a tutto tondo: tenera, amabile, intelligente, arguta, osservatrice, attenta, generosa, ma a tratti anche crudele. Attraverso il suo alter ego ha potuto prendersi delle rivincite, ma in primis esprimere se stessa.

Inizialmente il futuro sposo non gradiva questa sua attività, per il fatto di esserne stato ferito in passato, ma anche per invidia, come ha ammesso in seguito. Messa alle strette nello scegliere fra l’amore e la sua attività di scrittrice, che le dava potere e indipendenza, non è stata pronta a rinunciare alla seconda per il primo. Ha combattuto per mantenere questa parte della sua identità. Quando Cressida (Jessica Madsen) per un momento (3.05), mentendo, confessa di essere lei la temuta penna, Penelope se ne sente ragionevolmente usurpata. Alla fine, al centro dei riflettori di una grande festa da ballo ammette la verità e se ne prende oneri e onori (3.08).

Negli ultimi anni vari articoli hanno esaminato come il gossip abbia avuto un ruolo importante nelle relazioni sociali, per le donne in particolare, a cui non era permesso molto altro, e come sia stato spesso vilipeso proprio perché associato a loro, svilito a chiacchiera oziosa e demonizzato anche per il ruolo di solidarietà fra loro che creava. Sempre più studi lo esaminano non necessariamente come arma in negativo ma come strumento di potere sovversivo femminista.

In Bridgerton si è ragionato con leggerezza sulla condizione della donna e sul fatto che poter spettegolare significa poter avere una voce. In questa stagione si è parzialmente riabilitata la figura negativa e macchiettistica della madre di Pen, Portia Featherington (Polly Walker). Parlando con lei, la figlia si chiede che cosa ne sia dei suoi sogni se rinuncia alla sua scrittura. L’amara replica è stata “le donne non hanno sogni, hanno mariti”, con la conseguenza che una volta sposate sono i sogni dei mariti a diventare i loro. Se ci si crogiola nella fantasia della storia romantica e del vissero per sempre felici e contenti, non ci si limita alla favola da romanzo rosa, ma si mostra anche la verità della spietatezza del “mercato matrimoniale”, come viene chiamato senza mezzi termini, dove il valore della donna è solo legato al suo essere “sposabile”, nulla di meno romantico. Il personaggio di Cressida, che pure un po’ di backstory ha reso più umano e tridimensionale, è pure visto in quella prospettiva. Tanto zucchero e qualche pilloletta, insomma.

Come sempre ci sono stati costumi e  scenografie da sogno, e ci si può lamentare di storyline secondarie e scene riempitivo occupate da altri personaggi che hanno tolto spazio alla coppia, a cui un po’ più di tempo insieme non sarebbe guastato, e ci si sarebbe avvantaggiati di qualche episodio in più, se si escludono le considerazioni dei costi di produzione, ma al di là di molte critiche condivisibili, motivi per celebrare questo period drama che tanto buzz suscita ce ne sono anche al di là del semplice godersela come scacciapensieri.