Dalla descrizione di saga epico-fantastica di stampo medievale, mi aspettavo un polpettone noioso, brutale e misogino, condito di effetti speciali di lusso come sola caratteristica a redimerlo. E invece mi sono dovuta ricredere. A Game of Thrones ho dato un’opportunità solo perché tutti ne parlavano bene: Entertainment Weekly (April 8, 2011) diceva che era una “intossicante combinazione di sesso, intrigo politico, melodramma soapy, fantasy e avventura, tutto collocato sullo sfondo del più grandi valori produttivi di alto budget”. Non sempre le lodi sono una garanzia, ma ho voluto dare una chance al programma anche perché nel cast figurava Aiden Gillen, un attore che ho adorato nel ruolo di Stuart Allan Jones nel Queer As Folk britannico. La serie è stata appassionate e trascinante, ricca di colpi di scena e di personaggi complessi, e una vera festa per gli occhi. I valori produttivi in effetti sono stati superbi su tutta la linea, a cominciare dalla sigla, un geniale intarsio di architettura di terre immaginarie che prende vita dinanzi ai nostri occhi. La HBO, che manda in onda la serie negli USA (in Italia GoT chiama casa Sky Cinema1), ci ha abituato alle serie di qualità, ma qui ha superato se stessa.
Innanzitutto Game of Thrones è l’adattamento televisivo (dopo che quello cinematografico era stato respinto dall’autore che non vedeva il grande schermo come il medium più adatto a trasporre in immagini la sua complicata saga) dei romanzi di George R.R. Martin, noti come le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. La prima stagione (che negli Usa ha debuttato nell’aprile del 2011) è basata sul primo libro, diventati due nella traduzione italiana: Il trono di Spade e Il Grande Inverno (Mondadori). George R.R. Martin è considerato una sorta di Tolkien americano, ma ha la reputazione di essere un po’ meno complicato nella mitologia rappresentata, ma decisamente più complesso nella psicologia e multidimensionalità dei personaggi e più contemporaneo anche nel “sistema di valori” messi in scena, pur radicandosi in un immaginario di cavalieri e dame ancorati in una forte tradizione.
Quello in cui sono riusciti David Benioff e D.B. Weiss, che hanno trasposto i romanzi sullo schermo, e con loro gli altri sceneggiatori – lo stesso ideatore Martin, ma anche Bryan Cogman e Jane Espenson (Buffy, Caprica) –, è stato di trasmettere il senso di una storia che ha echi molto forti: è Il Signore degli Anelli, è Shakespeare, è I Soprano, è la Guerra delle Due Rose (a cui si dice ci sia un esplicito riferimento anche per il nome di alcuni dei clan). A me personalmente ha fatto ripensare anche alla Germania di Tacito nelle parti relative ai Dothraki e alle varie incarnazioni del Gesù di Nazareth nella parte finale. Sul Time James Poniewozik lo vede come una miscela di Deadwood, Rome, The Wire e Carnivale, nei toni.
Non mancano una buona quantità di humor e sagacia, e frasi memorabili, da citare, e momenti simbolici che punteggiano storie di sangue, di passione, di tradimenti, di omicidi, di vendette, di potere, di lussuria, di orgoglio, di amore, di famiglia, di onore, di lealtà, di fratellanza, di sogni, di speranze, di guerra, di pace, di umanità… Un intreccio di storie esaltanti e appaganti, con personaggi che ti rimangono dentro come veri. E la certezza dell’incertezza: nessuno è al sicuro, chiunque potrebbe morire. E più di qualcuno lo fa. E ci vedi dietro, come in traslucido, che c’è altro dietro, c’è una mitologia, e sistemi psicologici, filosofici e religiosi, e intrecci familiari che vanno oltre quello che vediamo sullo schermo, che hanno un respiro maggiore, nonostante mai sembrino averne bisogno.
La regia - affidata a Tim Van Patten, Brian Kirk, Daniel Minaham e Alan Taylor, con quest’ultimo a creare le maggiori suggestioni, per me - è sontuosa, magniloquente grandiosa. La scenografia è mozzafiato negli esterni - girati in Irlanda del Nord, in Scozia, in Marocco, che approfittano della natura lussureggiante e dei maestosi panorami - e opulenta di dettagli negli interni, dalle suppellettili, alle armi, agli arredi… I costumi sono curatissimi. La fotografia usa abilmente la luce più adatta alle diverse circostanze (il ghiaccio, il sole) e chiaroscuri richiamano alla memoria le tele dei grandi maestri della pittura Seicentesca, successiva certo al Medioevo, ma ben adatta a rappresentare tanto i fasti della nobiltà, quanto il popolo crasso, facendo convivere decorum e sua assenza in modo giustapposto come nella realtà. La recitazione è di prim’ordine. Non manca nulla, tutto è al suo posto. E il risultato è potente. E coinvolgente.
Molto è stato detto sulla violenza e la rappresentazione della sessualità nella serie. La violenza c’è, ma mi aspettavo molto di peggio, forse perché ero preparata a vederne molta, forse perché è un po’ avulsa dalla mia realtà e quindi in qualche modo meno minacciosa e disturbante. Veder molte teste tagliate di netto, cavalieri che si infilzano con le lance e lingue strappate sono sia coerenti e sensate nel mondo che viene rappresentato che sufficientemente “arcaiche” da non avvelenare di timori la mia fantasia. Ho trovato la serie più truculenta che violenta, e ho decisamente trovato molto più disturbanti diverse scene di True Blood dalla terza stagione che non qualunque scena di violenza di Game of Thrones. È stato notato poi che, rispetto al libro, di proposito, c’è meno violenza sessuale. Quando al sesso, quello c’è in abbondanza. Sulla politica del sesso nella serie può valer la pena leggere un articolo in proposito su The Daily Beast.
I primi dieci minuti già li avevo postati in passato. Sulle vicende, molto complicate e ricchissime di personaggi, mi vi soffermerò in un post successivo.