martedì 27 marzo 2012

TOUT LES HABITS DU MONDE: abbigliamento come cultura

Spesso trattiamo moda e modi di vestire come qualcosa di frivolo, dimenticando che raccontano della cultura di un popolo, dell’identità e dei costumi di un Paese. Questo ricorda e illustra la ghiotta serie documentaristica Tout Les Habits du Monde, andato in onda Rai5, alle ore 17.55 e mi auguro presto in replica.
Sono rimasta davvero affascinata da questo programma perché spiega l’abbigliamento in modo nuovo, decodificando veramente elementi del vestiario che diversamente avrei letto con i criteri miei. All’interno di una cultura sono talmente interiorizzati da non necessitare spiegazioni, e invece attraverso questi video si fanno viaggi culturali all’estero che davvero spezzano un codice e aprono inusitate prospettive. Formalmente non è nulla che non si sia già visto altrove – filmati corredati da spiegazioni di una voce fuori campo, brevi interviste – è proprio il contenuto, e come viene affrontato, come connessione con la cultura, a costituire la novità.
Recentemente sulla Thailandia, ad esempio, si è scherzato dicendo che forse l’abito non fa il monaco, ma fa il bonzo, seguendo giovani ragazzi per cui vestire secondo la tradizione religiosa è una sorta di rito di passaggio all’età adulta anche quando avviene solo per alcuni giorni. Si rasano la testa e i capelli vengono abbandonati nel fiume e con essi simbolicamente i peccati, poi indossano l’abito monacale color zafferano: è in otto parti e non possono uscire finché non sanno indossarlo alla perfezione, perché diversamente nuocerebbe alla reputazione del tempio. Ci si è soffermati sull’amore di quel popolo per le uniformi: tutti ne hanno una, a seconda della categoria o del lavoro di appartenenza, ed è spesso motivo di orgoglio. Gli studenti ad esempio hanno gonna o pantaloni neri e camicia bianca. Quello che li distingue sono non l’abito, ma i distintivi e le spille. E, fintanto che i rigidi criteri di abbigliamento sono seguiti, gli uomini possono usare le uniformi femminili, poiché i katoi (donne rinchiuse in corpi maschili) sono accettati senza problemi, anche in accordo alla filosofia buddista. È ammessa la “confusione” fra generi sessuali  più di quella fra classi sociali.
In Egitto, ci si è soffermati sulle differenze fra l’abbigliamento di campagna, dove la galabia è portata con orgoglio e ha un taglio laterale per poterci infilare un lembo per sollevarla con agilità, e la città, dove gli uomini portano i pantaloni; si è riflettuto sul valore simbolico che ha la camicia alla Nasser; si sono dotate le differenze fra i veli indossati dalle varie donne, e su come per le occasioni importanti ci siano saloni di bellezza che li sistemano come fossero autentiche acconciature…
Affascinante. 

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