Premetto che non ho
letto “Looking for Alaska - Cercando Alaska”, ma ho comunque familiarità con la scrittura di John
Green per aver letto “Colpa delle Stelle” e “Let it snow, let it snow, let it
snow”, di cui è da poco disponibile su Netflix la trasposizione in film. Sono
consapevole perciò del fenomeno per adolescenti che ha rappresentato, ed ero
curiosa di vedere che cosa ne sarebbe uscito nella versione realizzata in
accoppiata con un altro nome molto popolare della scrittura per young adults, come si dice ora, e in
questo caso sul versante televisivo, ovvero con Josh Schwartz (Gossip Girl, The OC, Nancy Drew), che ne ha ricavato un omonimo adattamento in 8 parti. Spiritualmente si percepisce che c’è affinità fra i due
autori. Green
è qui fra i produttori esecutivi.
Siamo nel 2005. Miles “Pudge - Ciccio” Hater
(Charlie Plummer), un ragazzo con una fascinazione per le ultime parole
pronunciate dalla gente prima di morire, lascia i genitori in Florida per
frequentare in Alabama la Culver Creek Academy, alla ricerca del suo “Grande
Forse”, come disse il poeta francese Rabelais in
punto di morte. Suo compagno di stanza, Chip “il Colonnello” Martin (Denny
Love), è una specie di istituzione nella scuola per i suoi scherzi, perpetrati
soprattutto contro i Weekday Warriors – i Settimana Corta, un gruppo di ragazzi
ricchi della scuola con cui c’è una forte rivalità. Chip presenta a Miles la sua
migliore amica, Alaska Young (Kristine Froseth – la conosciamo per The Society, ma questa produzione è
antecedente), una ragazza che non vuole tornare a casa per le feste e si
interroga su “Come esco da questo Labirinto?”, citazione da un libro di
Marquez. Miles si innamora di lei. I tre fanno presto comunella, insieme ad
altri amici, fra cui Takumi (Jay Lee), si confidano gli uni con gli altri, e
organizzano attività e scherzi insieme, nonostante l’occhio vigile del severo,
ma umano direttore del liceo, Mr Starnes (Timothy Simons), detto l’Aquila. Nelle
vite dei ragazzi un ruolo di rilievo lo ha anche l’anziano insegnante di
religioni del mondo, il Dr Hyde (un sempre mirabile Ron Cephas Jones, This is us).
Gioca sull’effetto nostalgia
questa miniserie pre-cellulari – il protagonista chiama i genitori da un
vecchio telefono a filo attaccato al muro. È una storia di formazione,
che nella sua trasposizione televisiva non stravolge nulla, ma è solida e amabile,
pur con una nota di dolore. Il punto forte sta nella trama e nei personaggi con
una verbalità un po’ alla Dawson’s Creek,
ovvero con adolescenti che parlano molto, con molta appropriatezza linguistica
e riferimenti letterari e con una consapevolezza che dimostra una maturità notevole
per la loro età, anche rispetto alla capacità di guardare e ammettere onestamente le proprie emozioni. Più prosaica
è la regia, nonostante noti bene LaToya
Ferguson su Indiwire quando osserva
che Schwartz ricrea qui quella che è uno delle sue iconiche scene di The OC, ovvero quella del pilot in cui
Ryan, diretto a Chino, passando in auto, dal sedile posteriore della macchina vede
Marissa – qui è Miles che vede Alaska, sebbene Miles sia più un Seth Cohen che
un Ryan Atwood.
I protagonisti vengono
mostrati nella vulnerabilità dovuta alla loro età, nell’incertezza di sapere quello
che vogliono essere e di cercare un senso alla vita, e il valore delle relazioni.
La vena filosofico-riflessiva viene sia resa più esplicita che più incisiva all’interno
della diegesi attraverso quello che i ragazzi studiano a scuola. Ricevono dal loro insegnante il compito di
rispondere a un quesito: qual è la domanda più importante a cui gli esseri
umani devono rispondere? Ci interroghiamo sul senso della vita, su quale sia il
miglior modo di vivere, sulla morte, sul valore della sofferenza. Le varie
tradizioni spirituali rispondono a proprio modo e ciascuno lo fa con la propria
vita. In questo gli adulti rappresentati sono particolarmente riusciti, nel
senso che loro stessi hanno e contemporaneamente non hanno la risposta. Sono
più maturi, ma non completi, potremmo dire. È fin troppo facile rappresentare
gli adulti presenti nella vita di persone di quest’età come bidimensionali,
macchiette distanti e poco in contatto con la realtà, ma non qui, dove gli adolescenti
stessi sono in grado di vederli sì come delle autorità che li limitano, ma con una
propria storia e le proprie difficoltà. Questo equilibrio fra le generazioni
pure è un elemento di sintonia con The OC.
Il confine fra scherzi e
bullismo avrebbe potuto essere approfondito di più, specie in un momento storico
come questo, e sono ragazzi che bevono e fumano, ma condivido l’osservazione di
Kathryn
VanArendonk su Vulture, quando
dice che ovviamente non si arriva agli eccessi di un Euphoria,
ma che la differenza è che queste dissolutezze sono rappresentate più come un
dato di fatto che non con intenti allarmisti o celebrativi.
Looking for Alaska in versione TV (Hulu) non è una folgorazione, ma
nemmeno una perdita di tempo. La nota distintiva alla fine è l’ordinarietà
delle vicende, in un certo senso, ma forse proprio in questo c’è pregnanza, c’è
umanità. Quello che è messo a fuoco in modo notevole, anche perché permea in
modo diffuso tutto l’arco narrativo, è il senso che la vita è un “to be continued” con margini non
sempre definibili, con tante incertezze e sbavature, che sono fuori dal nostro
controllo, è fatta di rimpianti e delusioni, e nonostante questi si va avanti,
conservando i ricordi belli. Crescere, diventare adulti, è impararlo, anche se
non diventa mai più facile affrontarlo.