martedì 29 aprile 2025

THE RESIDENCE: uno spassoso whodunit

Ispirata all’omonimo libro saggistico scritto da Kate Andersen Brower, The Residence di ShondaLand, ideata da Paul William Davies (Scandal), ha al centro delle vicende una investigatrice troppo magnetica e iconica per essere sfruttata per una sola stagione: Cordelia Cupp (Uzo Aduba, Orange is the New Black) è quel genere di detective alla Sherlock Holmes, Miss Marple e Colombo che risolve i casi grazie alla sua attenta capacità di osservazione, ascolto e deduzione. Talvolta pare vacuamente interessata ad altro, nel suo caso al birdwatching, ma puoi star certo che non si è persa un dettaglio.

Non si sovverte un genere, lo si frutta al meglio. Il giallo ha perciò un gusto antico, quello in cui tutti i colpevoli sono riuniti in un solo posto, secondo la classica tradizione di Agatha Christie, e in questo caso il luogo è d’eccezione: la Casa Bianca. La narrazione si muove su due piani temporali: la notte dell’omicidio dell’usciere capo A.B. Wynter (Giancarlo Esposito, Breaking Bad, Better Call Saul, ineccepibile in un ruolo che doveva essere di Andre Braugher, alla cui memoria è dedicata la season finale), responsabile di tutto il personale della residenza presidenziale, che aveva dichiarato poche ore prima “sarò morto prima della fine della serata”, quando ad indagare viene chiamata dal capo della polizia Larry Dokes (Isiah Whitlock Jr.) proprio Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, che viene affiancata dall’agente speciale dell’FBI Edwin Park (Randall Park, WandaVision), nonostante il consigliere capo Harry Hollinger (Ken Marino, Party Down) spinga affinché la morte venga dichiarata un suicidio; e c’è poi una seconda linea temporale, quella di un'udienza del Congresso durante la quale il senatore Aaron Filkins (Al Franken) ascolta i vari testimoni di quanto è accaduto in quell’occasione, spesso interrotto dalla senatrice Margery Bay Bix (Eliza Coupe, Happy Endings), che accusa l'amministrazione del presidente Perry Morgan (Paul Fitzgerald) di aver coperto l’avvenuto.

In sé la serie non è qualcosa di cui correre a raccontare in giro, ma è un cozy mystery infarcito di umorismo, è perciò gradevole con un misto di mistero e humor, politica dei rapporti e gossip sulle relazioni fra i sospettati, anche se Cordelia si rifiuta di chiamarli così; la dimora di 1600 Pennsylvania Avenue è un personaggio a sé, ricostruita anche con un modellino che ce ne fa vedere la sezione. Sono 132 stanze, e i potenziali colpevoli sono ben 157, dal momento che l’omicidio si è verificato in occasione di una cena di stato piena di ospiti organizzata dal presidente e dal First Gentleman, il marito Elliot Morgan (Barrett Foa),  con l’obiettivo di risanare rapporti incrinati con l’Australia – curioso notare che ad interpretare il primo ministro australiano è Julian McMahon (Nip/Tuck), che nella vita reale è il figlio di un ex-primo ministro australiano William McMahon. Fra gli ospiti ci sono Kylie Minogue (che interpreta se stessa) e Hugh Jackman (che in realtà non compare). Lilly Schumacher (Molly Griggs) segretaria del presidente, che ha le idee molto chiare su come vuole che le cose cambino, e Colin Trask (Dan Perrault), agente dei servizi segreti esilarante nel suo vagamente patetico timore reverenziale, cercano di tenere tutto sotto controllo.

A “dare l’allarme” è stato il  grido di shock della suocera del presidente, Nan Cox (Jane Curtin), che ha trovato il cadavere. Chi sarà il colpevole fra i numerosi idiosincratici personaggi? Molti avevano litigato con il leale e severo Wynter quella sera. L’assistente usciere Jasmine Haney (Susan Kelechi Watson, This is us) che fa da cicerone e spiega come funziona la gestione della casa, che sperava di prenderne il posto prima che lui rinunciasse ancora alla pensione? La valletta Sheila Cannon (Edwina Findley) perennemente ubriaca che rimpiange l’amministrazione precedente e le è stato impedito di interagire con gli ospiti durante la serata? Il pasticcere Didier Gotthard (Bronson Pinchot) la cui creazione è stata relegata in una stanza meno prestigiosa o la chef Marvella (Mary Wiseman) che arrabbiata lo aveva minacciato di morte? Magari il fratello del presidente Tripp Morgan (Jason Lee) che vive lì in modo parassitario? Forse la cameriera Elsyie Chayle (Julieth Restrepo) o l’ingegnere-idraulico Bruce Geller (Mel Rodriguez)? Non lo rivelerò se non per dire che l’immagine del/la colpevole è fra le immagini dei personaggi indicati della locandina della serie.

Cordelia Cupp, tutta sicura di sé al punto da essere perfino arrogante, e arguta nelle battute di spirito, impaurisce con la sua calma gli interrogati. Il più delle volte si siede in silenzio davanti a loro che si contorcono a disagio e finiscono per spifferare tutto. È gioiosa perché sa di essere brava. I tempi comici sono impeccabili ed Edwin Park le fa da spalla alla perfezione, sempre un passo indietro e a rincorrerla sia fisicamente che metaforicamente nei suoi ragionamenti, un po’ impressionato un po’ intimorito. Fa uscite inaspettate, come quando alla domanda di come definisca il sesso dice che è qualcosa che le piace di più dei beni immobili e meno del bird-watching. E quest’ultima passione travolge tutto, perché è sempre un momento buono per praticarla e perché fornisce ottimi paragoni in quello che sta per dire, spesso davanti all’esasperata reazione degli altri. Le prove si accumulano, le relazioni fra i vari personaggi vengono alla luce.  

Uno spassoso whodunit di puro intrattenimento.  

sabato 19 aprile 2025

RIVALS: salace, gustoso intrattenimento

Lo spassoso, esuberante, gustoso, eccessivo Rivals (Disney TV+), ambientato nel mondo della concorrenza spietata fra le televisioni indipendenti inglesi negli anni ’80, offre una critica metatestuale a se stessa nella season finale della prima stagione (1.08). Due emittenti si stanno scontrando per ottenere la concessione: la Corinium, che l’ha avuta finora, e la neonata Venturer. Quest’ultima si vende come l’immagine del focolare intorno a cui ci si raduna per sentire delle storie. Il piccolo schermo, sostengono, ha il potere di riunirci, di portare nuove idee, aiuta a perdonarci, è una finestra sulla vita delle altre persone, cerca la verità e si pregia di integrità; è in definitiva la più grande forma d’arte creata dall’uomo. La prima di contro, che definisce questa posizione una di “lirismo saccente”, offre al contrario quello che il pubblico vuole e dietro a una facciata di moralità ci sono manipolazioni e puro interesse arrivista, dove ci si finge ipocritamente distanti da volgarità e violenza si nasconde il letamaio di abusi ignorati perché più comodo per gli affari. A quale modello si ispira Rivals? A quest’ultimo  ̶  rivalità, tradimenti, edonismo  ̶  sembra strizzarci l’occhio: mentre nella diegesi di sottofondo su uno schermo scorrono le immagini del magniloquente discorso pro-nobiltà della televisione, assistiamo a un omicidio non intenzionale; o così almeno pare – nel libro, che non ho letto, questa scena pare non ci sia e che il personaggio sia non solo vivo in seguito ma pure significativo nello svolgimento della trama; cosa ne farà il programma? Cerchiamo il piccante, il torbido, l’osceno. L’ironia e l’umorismo sono quello che permettono a Rivals di scollarsi da quel genere vagamente soap-operatico in cui si muove, pur avvalendosi dei suoi stilemi, perché contemporaneamente lo irride. È come se ammettesse di essere tutto quello, una Dallas o Dynasty dei giorni mostri in salsa British, ma smaliziata per averne la piena consapevolezza e attenta a non condonarla nei suoi aspetti più beceri, se non per un momentaneo innocuo divertimento, posizione che la redime.

Siamo nel 1986, Lord Tony Baddingham (David Tennant, Doctor Who, Broadchurch, Good Omens), uno che sul caminetto ha inciso il motto della famiglia “pacifico è il Paese che è ben armato”, sposato con Monica (Claire Rushbrook), per inalzare il profilo della propria emittente televisiva, la Corinium, il cui più grande successo è “Quattro uomini in campagna” la cui attrattiva è mostrare uomini mezzi discinti, assume l’apprezzato giornalista della BBC Declan O'Hara (Aidan Turner, Poldark, Being Human), a cui viene affidato un suo talk show, che si trasferisce in una grande casa di campagna nella bucolica fittizia contea di Rutshire, nella regione delle Cotswolds nel sud-ovest dell’Inghilterra, con la moglie Maud O'Hara (Victoria Smurfit) ex-attrice che già in passato lo ha tradito e a cui la scelta del marito sta stretta, e alle sue figlie, Agatha detta ‘Taggie’ (Bella Maclean), che aspira ad avere una sua attività di catering, e Caitlin (Catriona Chandler), che presto va in collegio. Lord Baddingham assume anche una talentuosa produttrice americana, Cameron Cook (Nafessa Williams) con cui intreccia una relazione, e mira a distruggere, dal momento che non riesce ad averlo dalla sua parte, un suo grande rivale che non sopporta e verso il quale schiuma di rabbia, l’adorato donnaiolo perennemente arrapato Rupert Campbell-Black (Alex Hassell), ex-campione olimpico di equitazione diventato poi politico conservatore e ministro dello sport, di cui si prende una gran cotta Taggie e che dopo un’iniziale ostilità con Declan ne diventa amico, rivelandosi più corretto di quanto non ci si aspettasse da lui. Grande amica di Rupert, e prima a salutare la famiglia di Declan appena si insediano nella nuova case, è Lizzie Vereker (Katherine Parkinson, The It Crowd, Humans), scrittrice di romanzi rosa frustrata da un marito che la ignora, James (Oliver Chris), un vanesio conduttore alla Corinium, e presto sviluppa sentimenti romantici per il ben più attento Freddie (Danny Dyer), un imprenditore di successo nel campo dell’elettronica, sposato senza amore con Valerie (Lisa McGrillis) a cui interessa prevalentemente la scalata sociale. Qui il trailer ufficiale.  

Basato sull’omonimo romanzo del 1988 di Jilly Cooper e con una sigla che è un incrocio fra The Morning Show e Bad Sisters, Rivals, già rinnovato per una seconda stagione, si lancia con gusto spavaldo e gioiosamente scandaloso nell’arena di rivalità, appetiti rampanti e maligni dispetti del “decennio dell’avidità” e dell’ostentazione dell’opulenza, in un calibrato mix di nostalgia e satira, radicato in una recitazione eccellente. Rivals è un piacere nella misura in cui riesce ad essere senza vergogna e senza scuse, nelle sfuriate di Baddingham, nelle capriole d’alcova di Rupert, che Taggie incrocia la prima volta mentre gioca a tennis in costume adamitico, in Maud che arriva su un cammello per capodanno che è anche festa di compleanno di suo figlio, nelle maliziose frasi “birichine” per le quali si sghignazza, che sia l’appassionato “che bello sentire il software diventare hardware” (1.08),  il riferirsi al “calore biblico del suo cespuglio in fiamme” (1.05) o a lui (Rupert) vestito da Babbo Natale che trova lei nuda a letto che lo invita ad infilare un lungo pezzo di carbone nella sua calza (1.03)… insomma i doppi sensi non mancano. Fra una partita a croquet e un garden party o una battuta di caccia, una trasferta in Spagna per una award ceremony, una bottiglia di champagne che viene stappata o un volo in elicottero, si è dissoluti e salaci, ma attenti anche a decostruire dinamiche sociali e guerre di classe, privilegiati e paria, con affilata veridicità – il reverendo anglicano troppo “amichevole” stupra una dipendente della Corinium e a lei si chiede di dimenticare perché lui è troppo importante, il collaboratore gay si domanda se si esista veramente se nessuno si accorge di te e devi fare tutto nell’ombra… Come osserva Zoe Williams sul Guardian il programma non finge che gli anni ’80 non fossero così: “L'omofobia velenosa e senza ritegno della politica Tory; gli stupri taciuti, lo sfruttamento sessuale, l'abuso di potere, l'oggettificazione. Per non parlare della disuguaglianza, dello snobismo, dell'eccesso di volgarità, della deferenza davvero nauseante nei confronti dell'aristocrazia - una resa vile alla loro innata superiorità - e del razzismo e della misoginoir”. (NB. Misoginoir è una crasi fra misoginia e noir, e quindi fa riferimento alla quella misoginia specificatamente rivolta alle donne nere).

Scritta da Dominic Treadwell-Collins e Laura Wade insieme agli sceneggiatori della loro writers room è intrattenimento che può vantare anche diversi premi e che ha raccolto entusiaste reazioni sia dal pubblico che dalla critica. 

mercoledì 9 aprile 2025

ADOLESCENCE: una miniserie necessaria

Memorabile, necessaria. A meno che nell’ultimo mese non abbiate vissuto da eremiti, è probabile che abbiate profusamente sentito parlare della mirabile, celebrata, acuta, scorticante miniserie britannica Adolescence (Netflix), rilasciata lo scorso 13 marzo. Mutatis mutandis è per quest’anno quello che l’anno scorso è stata Baby Reindeer, e non solo sta venendo sezionata da un punto di vista artistico (come accade a un Severence), ma sta avendo un forte impatto socio-culturale con potenziali evidenti dirette conseguenze: una politica inglese, Anneliese Midgley, sostenuta dal primo ministro Starmer, ha chiesto che la serie venga proiettata in Parlamento e nelle scuole. Ideata da Jack Thorne e Stephen Graham è un pseudo-giallo drammatico poliziesco, anche se è un’etichetta che sta strettissima, in cui un ragazzino di 13 anni, Jamie Miller (Owen Cooper) viene accusato dell’omicidio di una coetanea compagna di scuola, Katie Leonard (Emilia Holliday), che viene trovata pugnalata sette volte. Siamo nello Yorkshire, in Inghilterra.

Nella prima puntata l'ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e la sergente capo Misha Frank (Faye Marsay) arrestano il ragazzo che viene condotto alla stazione di polizia, mentre lui si dichiara innocente. Gli viene affiancato un avvocato e il padre Eddie (Stephen Graham, che è il co-autore, non un omonimo) fa da garante al figlio. Seguono la procedura, viene visitato. Mi ha colpito la gentilezza con cui lo hanno trattato. Nella seconda puntata, tre giorni dopo, la polizia si reca nell’istituto scolastico del ragazzo,  dove studia anche il figlio di Bascome, e interrogano alcuni ragazzi, fra cui Jane (Fatima Bojang), migliore amica della vittima. Che dettaglio fantastico quando presentano lui ma non lei alla classe, poi scusandosi! Nel terzo episodio il giovane Jamie, sette mesi dopo il suo arresto, ha un colloquio con una psicologa forense, Briony Ariston (Erin Doherty), che deve fare una valutazione e relazione su di lui che, in attesa del processo, si trova in una struttura di detenzione minorile. Per me è stato il più riuscito: fa una dissezione chirurgica di quello che vuole essere il tema principale, la rabbia maschile e le sue radici. È recitato alla grande, ma in primo luogo è scritto in modo mozzafiato, nel mostrare Jaime che da solo con una donna cerca di sfidarla e di provocarla, di come lei eccellente nel suo lavoro ma profondamente scossa debba mostrarsi indifferente alle minacce e agli scatti d’ira, e di come lui in fondo sia solo un bambino ma non per questo poco pericoloso. Il quarto e ultimo episodio, molti mesi dopo, a ridosso del processo in cui il figlio annuncia di volersi dichiarare colpevole, è concentrato sui familiari e in particolare sui genitori.  

Con la regia di Philip Barantini, ogni singola puntata è un unico piano sequenza, quindi segue in tempo reale e senza stacchi di scena tutti gli eventi che si susseguono nella puntata, un notevolissimo vero tour de force, coreograficamente e anche attorialmente, che dà forza di realtà impattante a quello che vediamo perché non ti permette davvero di staccare mai. Ti lascia senza respiro. Il solo che ho letto che lo ha trovato privo di senso e giudicato un mero gimmick, un trucchetto che distrae dalla storia, è Robert King (The Good Wife, The Good Fight), che ha giudicato il programma molto ben scritto e ben recitato e ritiene che anche in forza di questo dovrebbero essere proprio gli attori il fulcro, non la steadicam (qui). Pur comprendendo il suo punto di vista, io non ho sentito che ci fosse troppo “blocking baggage”, come lo definisce lui, quindi un eccessivo bagaglio tecnico nello stabilire chi sta dove, anzi dà la sensazione di essere senza filtri, crudo. È una scelta che Barantini ha usato in precedenza, nel film del 2021 Boiling Point che ha nel cast anche lì Stephen Graham. Non ho visto il film ma qui nello show questa “tecnica” è indubbiamente usata con virtuosismo. Lo valuto, come la maggior parte dei critici, un successo estetico.    

È comunque forma che sostiene contenuti altrettanto pregnanti, perché mostra, in modo potente ma anche sottile, come si crea invisibilmente una cultura misogina, di violenza contro donne e ragazze, diffusa dalla subcultura Incel che nasce nella manosfera (quelle variegate risorse web che promuovono odio per la donna, opposizione al femminismo e pompano un’idea di mascolinità prepotente) e che trova poi tragica attuazione nella realtà quotidiana. Non fa grandi lezioni sull’argomento, lo mostra di atto. Così come non mostra il risentimento degli uomini che con autocommiserazione e odio pianificano di sfogare la propria rabbia repressa prendendo come bersaglio il sesso femminile, come magari può essere stato mostrato in The Power - Ragazze eletttriche, dove vediamo che il protagonista maschile adolescente viene davanti ai nostri occhi radicalizzato perché si ritiene ingiustamente defraudato di privilegi che dovrebbero essergli dati di diritto in quanto uomo. Qui si parte delle conseguenze, un’orrida morte di una ragazzina, per sviscerare le ragioni umane di un simile atto d’odio, per portare alla luce i meccanismi di quella che viene chiamata mascolinità tossica, dove gli uomini sono anche vittime di una mancanza di educazione che li fa sentire sessualmente inadeguati quando sono ancora giovanissimi e rabbiosi nei confronti di una vita da cui si sentono traditi e di cui scaricano la colpa sulle donne. In questo senso si trovano in una situazione di vulnerabilità  nella società attuale. “Non ho fatto niente di male” continua a ripetere il ragazzino, che non ritiene di aver fatto nulla di male, di avere una giusta legittimazione al suo comportamento.

Si mostrano genitori che non se ne sono fregati, hanno cercato nei liniti del possibile di essere brave figure parentali, sicuramente migliori di quelle che hanno cresciuto loro, ma si trovano davanti a un fallimento clamoroso, questo anche a ribadire che è un problema di tipo sistemico, nel senso che puoi anche avere una brava famiglia alle spalle, ma sei a rischio di radicalizzazione in una società che facilmente approfitta della tua fragilità – bella la versione cantata da un coro di ragazzi alla fine del secondo episodio di “Fragile” di Sting. La voce della ragazza che emerge sugli altri, riporta Netflix (qui) è quella della ragazza che interpreta la compagna di scuola uccisa.

Si mostra anche il distacco fra le generazioni adulte e quelle giovani che hanno un linguaggio loro. È il figlio di Bascombe, Adam (Amari Jayden Bacchus), che a scuola prende da parte il padre per spiegargli che le emoticon con cui commentavano le immagini di Jaime su Instagram erano insulti. La scollatura non permette comunicabilità, non rende visibile agli adulti che potrebbero fare da guida un disagio che matura in rancore. E gli adulti sono privi di strumenti per farvi fronte. Una lettura importante, tanto più in un contesto come quello britannico, è anche in termini di classe. In proposito rimando a questo post di Sophie Pender.

Con la serie entrano così nel mainstream queste questioni, essenziale anche perché gli Incel vengano visti nella loro pericolosità sociale, invece di normalizzarli, come be arguisce Attilio Palmieri in questo post che invito a leggere, e questioni come il 80-20 (ovvero l’80% delle donne sarebbe attratta dal 20% degli uomini) e la teoria redpill (ovvero in qualche modo risvegliati alla presunta verità che le donne cercano negli uomini solo bell’aspetto, denaro e potere, con un termine che deriva dalla pillola rossa di Matrix rivisitato ad hoc). Ipoestesia sociale unita a giovani istigati alla violenza e aggressività, misoginia e maschilismo, controllo e dominazione, come forme di successo e potere per essere maschi alfa, veri uomini, conduce facilmente al femminicidio.

Non è un vero giallo: anche se il ragazzo nega, capiamo subito che è lui il colpevole; è un horror dove l’orrore non è quello del mostro, è quello del ragazzino della porta accanto dall’aria pulita che per pressione e cyberbullismo da parte dei coetanei che lo umiliano, per quella difficile fase dell’età che è l’adolescenza (che è non a caso il titolo del programma), privi di anticorpi verso la cultura misogina e maschilista in cui è immerso, e in contatto con modelli educativi inadeguati al contesto in cui deve muoversi, conduce a conseguenze drammatiche.

Un appunto però mi sento di farlo. Da un lato penso che la serie sia perfetta così com’è, completa. “Mio Dio, ogni momento, ogni battuta, ogni personaggio, ogni pensiero. Perfetto. Furioso. Geniale. Orripilante. Cosa facciamo? @netflixuk” ha commentato Russell T Davies (qui), che a cui ho pensato per due ragioni: con Queer As Folk mi ha insegnato che ogni racconto è parziale, si sceglie di raccontare uno spicchio, senza che debba rappresentare tutti e parlare per tutti; con il corto Screwdriver (ne ho parlato qui all’interno del saggio su Cucumber), ha vocalmente fatto una chiamata alle armi contro l’abbandono dei ragazzini alle influenze nefaste della rete, in quel caso rispetto alla pornografia, chiedendo lui stesso che fosse fatto qualcosa contro la vulnerabilità dei ragazzi, tema qui significativo. Dall’altro, forte anche di molti corsi deontologici di aggiornamento professionale come giornalista fatti su questo argomento che insistono sulla necessità di quanto segue, condivido a pieno un’osservazione fatta in questo post su Instagram che riporto in parte, di seguito, tradotto, di Charlotte Archibald,

“Per comprendere veramente la portata delle azioni di Jamie, avevamo bisogno di sentire il vuoto lasciatosi dietro quando Katie è stata strappata al mondo.

Un quinto episodio, incentrato sulla sua storia attraverso gli occhi delle persone a lei più vicine, avrebbe potuto illustrare con forza l'impatto profondo e duraturo della violenza maschile sulle donne. Avrebbe permesso allo spettatore di comprendere appieno le devastanti conseguenze della rabbia di Jamie.

Ma questa cornice, o la sua mancanza, non è nuova. È una narrazione fin troppo familiare nello storytelling, nel riportare le notizie e nel modo in cui discutiamo di questi crimini: le donne e le ragazze diventano note a piè di pagina nei loro stessi omicidi.

Quindi sì, raccontate la storia del mondo di oggi in cui viene cresciuto Il Ragazzo. Raccontate il ruolo che tutti noi dobbiamo avere nel creare una società che nutra e protegga. Mostrare quanto disperatamente i ragazzi abbiano bisogno di amore, rassicurazione, tenerezza e modelli positivi. Adolescence lo ha fatto brillantemente.

Ma dobbiamo anche raccontare le storie delle ragazze e delle donne le cui vite sono sconvolte da queste ideologie tossiche. Dobbiamo ascoltare le loro voci e riconoscere la loro umanità. Perché solo quando le loro storie saranno raccontate, e solo quando le donne e le ragazze saranno viste e valorizzate come persone, potremo sperare che meno di noi saranno ferite o uccise da ragazzi e uomini.

FINO AD ALLORA, IL CICLO CONTINUERÀ, E LE DONNE E LE RAGAZZE RESTERANNO invisibili nelle loro stesse tragedie”.

Penso che sia voluto, la voce delle donne non esiste nel mondo distorto che viene rappresentato, c’è anche un’osservazione in questa direzione ad un certo punto. Non è un programma didattico, e non si può dire tutto appunto. Eppure…è il motivo per qui all’inizio del mio post ho voluto indicare la vittima con nome e cognome, e con l’indicazione dell’attrice che la interpreta, per quanto non la si veda veramente mai, se non molto di sfuggita.

Molto si potrebbe ancora dire, e sicuramente molto verrà ancora detto. Un impatto in ogni caso c’è stato non solo a livello di dibattito che ha elicitato, cosa già importante: sembra che le scuole nel Regno Unito inizieranno a offrire lezioni contro la misoginia nell’ambito delle materie di educazione sessuale, salute e relazioni, cominciando per gradi a seconda dell’età per trattare poi nella scuola secondaria temi come consenso, comunicazione ed etica delle relazioni romantiche. Un risultato importante a quello artistico che è innegabile.

domenica 30 marzo 2025

SEVERANCE s02: maestra di libido abduttiva

Dopo una appassionante prima stagione, il ritorno di Severance (Apple TV+) non ha deluso, anzi la serie si è fatta via via più intrigante e può definirsi uno dei thriller più stimolanti e cerebrali degli ultimi anni. Elicita una intensa “libido abduttiva”, come la definirebbe Nicola Dusi facendo riferimento ad Eco, ovvero ha il gusto della sfida e del rompicapo e si accompagna al piacere di risolverlo, spinge alla ricerca di un sistema, di regole alla luce delle quali i dettagli creativi vengano illuminati di un significato coerente. Kafkiano e Lynchiano, in equilibrio fra Realpolitik e esaltazione da setta religiosa, con la Lumon Industries, intorno a cui si svolgono le vicende, che incoraggia la visione del fondatore Kier come quella di un profeta: un cult, è il caso di dirlo, in divenire, a partire dall’artistica sigla d’apertura, evocativa e cervellotica. A sentire l’autore stesso nel segmento delle brevi riflessioni che fanno seguito a ciascun episodio,  l'idea è che Severance mostri il modo in cui siamo diversi in ambienti diversi e che la stagione 1 sia l'infanzia e la stagione 2 l'adolescenza, con i personaggi che iniziano ad avere un senso di sé e a conquistare la propria indipendenza (2.03), fino a un’esplosiva, dinamica, intensa season finale, che mi ha tenuta meno in suspence di quella della stagione precedente, ma che ha appassionato ed è stata pressoché perfetta, spiegando molto ma lasciando molto anche da risolvere, e con un uso formidabile delle luci (bianco e nero, blu, rosso). In chiusura, chiarendo alcuni aspetti (che cos’è Cold Harbor, and esempio), ci ha permesso di concentrarci meno sugli aspetti “investigativi” e di andare più a fondo al cuore della questione, alla lotta umana che i personaggi devono affrontare. La recitazione è stata di primordine su tutta la linea. Sono stata entusiasta di tutta la stagione. E hanno promesso che non dovremo aspettare altri tre anni prima di avere la terza. 

Dopo che Mark S. (Adam Scott) ha corso per infiniti labirintici corridoi, cinque mesi dopo (o così dicono) quella che la Lumon chiama la “Rivolta dei Macrodata”, in cui Helly (Britt Lower), Mark, Dylan (Zach Cherry) e Irving B. (John Turturro) hanno trovato un modo per risvegliare il proprio io nel mondo esterno, per denunciare la schiavitù e l’infelicità in cui vivono, viene messo a capo di una nuova squadra: non la vuole, pretende quella vecchia, ed è così che si riuniscono. Rispetto al passato, ho forse notato di più la palette cromatica con cui è costruita l’estetica, un vero codice emotivo, ma in questa stagione ho ripreso le vecchie sensazioni, trovando tutto molto più umoristico e autoironico. Si trova fin dal pilot anche nel semplice “Lumon is listening – Lumon ascolta” e nel video dell’azienda pentita che cerca di imparare da propri errori, con l’edificio che nell’originale ha la voce di Keanu Reeves,  da intendersi come “ascoltiamo tutto ciò che dici” e non nel senso di “siamo aperti a ciò che dici” come vorrebbe far credere. La sorpresa iniziale è stata che, mentre tutti raccontano la verità su quello che hanno scoperto di se stessi là fuori, Helly ha mentito non rivelando che è in realtà Helena, figlia del fondatore dell’azienda. Gli episodi iniziali hanno lasciato del dubbio, poi svelatosi corretto, se Helly non fosse in realtà Helena che si fingeva la sua “innie”.

Ci si è molto concentrati sul dualismo, non solo fra “innie” (interni) e “outie” (esterni), ma inizialmente in particolare anche in altre inquadrature: in 2.01 l’aquario sembra diviso in due con due pesci di colori diversi; al colloquio di lavoro di Dylan, quando il potenziale datore di lavoro gli dice “you remind me of me” (mi ricordi me stesso) sono l’immagine speculare l’uno dell’altro. Perfino la composizione della musica in fondo, come è evidente da quella della sigla iniziale, risponde a questa esigenza: la mano sinistra suona la normale vita degli “outie”, la sinistra offre accordi dissonanti che simboleggiano l’inquietante realtà deli “innie”  ̶   affascinante peraltro anche la sigla finale dell’ultima puntata, con un notevole gioco di linee che ripercorre gli elementi visivi della serie. Ho trovato stimolante che il fatto di essere “severed” (scissi) fosse visto come qualcosa di disgustoso e ha elicitato una sorte di severancephobia – scissionefobia – discriminatoria. C’è un’esplorazione dell’io e i personaggi sono stati davanti ad altri se stessi, anche in contrasto con se stessi, e sono stati in grado di esprimere come il fatto di essere stati separati abbia permesso loro di raggiungere qualcosa che il loro esterno non ha mai permesso loro di avere. A volte siamo oppressi da ciò che siamo nella vita e non ci permettiamo di essere qualcun altro, e per i personaggi la loro separazione è stata un modo per “essere di nuovo innocenti”, come ha detto Burt (Christopher Walken) a Irving (2.09). Lo abbiamo visto in Helena che ha trovato in Helly una libertà che la rigida educazione paterna non le ha mai concesso, in Irving che si è innamorato ed è finalmente pronto a vivere una storia d'amore, in Dylan la cui moglie Gretchen (Merritt Wever) “lo tradisce” scambiando un bacio con il suo “innie” che le si dichiara. È stato agrodolce vedere come fossero invidiosi di se stessi, alla fine, desiderando il potenziale in loro che non sono riusciti a ottenere come “outies”. Abitano più persone nello stesso corpo, e vogliono cose diverse. Non è mai stato così chiaro come in chiusura, con Mark S soprattutto. Molto si è giocato anche sulla triade, in seguito. Seth Milchick (Tramell Tillman), la neoarrivata Miss Huang (Sarah Bock), Harmomy Cobel (Patrucia Arquette) a cui è stata interamente dedicata “Dolce Vetriolo” (2.08), Drummond (Ólafur Darri Ólafsson)… su ogni personaggio ci sarebbe tantissimo da dire.

Numerosi sono anche gli echi di altre serie che vengono richiamate, come già osservato nella prima stagione (ne ho parlato qui). Al di là dell’esplicito (2.09) The Twilight Zone - Ai Confini della Realtà, mi sono stati richiamati Counterpart, Foundation (Jame Eagan e il loro impero ricordano tantissimo i regnanti clone uno dell’altro), Stranger Things e Monarch (2.03), Äkta människor e Real Humans (2.06 e 2.07), Black Mirror (2.07) e perfino Six Feet Under (2.05 – appropriato in una puntata che ha un funerale). Lo show è molto ricco in generale, che sia per il senso pittorico molto deciso  ̶  penso ad esempio a quando hanno mostrato Helena camminare all’interno degli edifici nel pilot con un gran senso di solitudine che, mutati mutandis, mi ha fatto ricordare Hopper; che sia nell’inquadrare il complesso Bell Labs Holmdel, che ospita le industrie Lumon, dell’architetto Eero Saarinen e per me una bellezza architettonica e una scelta culturalmente appropriata come luogo di sperimentazione; che sia  il riferimento di Gemma all'illusione del coniglio/anatra, tanto più come elemento ricorrente, di cui abbiamo visto anche la rappresentazione tridimensionale nell'ufficio di Milchick, o le loro letture: Gemma che studia i temi delle conversioni religiose ne La morte di Ivan Ilyich di Leo Tolstoj e Mark che legge un saggio sull'uso di droghe da parte dei soldati arruolati durante la Prima Guerra Mondiale (2.07); che sia infine che spettacolosa cinematografia che ci ha regalato Jessica Lee Gagné nel ricostruire la storia d’amore di Mark e Gemma, con alcuni passaggi visivi danno l'idea di onde cerebrali che si reintegrano e di memoria che va in profondità  ̶  anche il modo in cui ciò viene realizzato è molto artistico (2.07).

C’è tanto da decodificare. Il linguaggio tutto crea una realtà aliena e separata – e portate pazienza ma ho seguito in inglese e non ho idea di quali siano i corrispettivi italiani, anzi, se volete dirmeli voi, siete benvenuti:  il “verboso” di Milchick, ripreso per usare un linguaggio troppo aulico (“devour feculence”), le espressioni bizzarre e datate (“Fetid moppet”), o semplicemente originali (“shared vessel” per “fare sesso”) sono significanti che gli appassionati condividono nel loro significato, ma che li separano da chi non segue le vicende. L’estetica è astorica, atemporale. Severance è un mondo da cultori, un trionfo televisivo che ci regala anche la visione di adorabili caprette, una serie veramente degna di una celebrazione della banda musicale Choreography and Merriment, diventato Coreografia e Meraviglia in italiano.

Io ho seguito e commentato ogni episodio della stagione come parte di The Box Set, club della TV curato da Tim Goodman (https://timgoodman.substack.com/). 

giovedì 20 marzo 2025

SQUID GAME: la seconda stagione

Sono passati tre anni dagli eventi della prima stagione di Squid Game, sia nella diegesi che per la messa in onda, e torniamo a respirare la stessa aria brutale e terrificante di allora – avevo parlato della prima stagione al link sul titolo e i principi lì espressi rimangono validi anche per questa. Forse alla ferocia si è aggiunta anche una nota di sadismo, o forse sono più sensibile io che ho trovato più difficile della scorsa volta stomacare tanta violenza. Se quando ho seguito la prima stagione non c’era il doppiaggio in italiano, questa volta sì, e ho deciso perciò di seguirlo doppiato nella nostra lingua e mi pare che abbiano fatto un buon lavoro.

Continua ad essere quello che Daniel Fienberg dell’Hollywood Reporter ha ben definito una serie sulla disperazione economica, anche se lui la stronca. Se è evidente che la seconda stagione, e la terza il cui debutto è previsto per il 27 giugno, è stata fatta per mungere il successo della prima, non di meno la serie ha avuto ancora da dire e per me il messaggio forte in questo caso è stato “finchè il mondo non cambierà, il gioco non si fermerà” (2.02), non importa quanto lo vuoi, quanto ti sgoli perché accada. Forse è ancora più esplicito, semmai fosse stato necessario, il fatto che il sistema capitalista che mette il denaro davanti a tutto, vede le persone con una vita al limite perché schiacciate dai debiti come spazzatura, come “scarafaggi”. Progetto di seguire anche la prossima stagione, ma più per completismo che per vero desiderio di proseguire, per quanto io sia curiosa di vedere come lo chiudono. Lo trovo intelligente e in una certa misura anche appassionante, ma non è una visione facile. 

Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), vincitore della precedente edizione dei giochi, si rende conto dell’aberrazione che sono, e decide di fermarli. Si ritrova a doverli giocare nuovamente, sempre con il numero 456. Torna anche quello che un tempo era stato il frontman dei giochi, Hwang In-ho (Lee Byung-hun), che ha preso il posto di giocatore 001 dal creatore originale del gioco, ma di cui nessuno conosceva l’identità dal momento che era in precedenza mascherato. Questi due personaggi sono pensati, come ha proprio spiegato l’autore stesso Hwang Dong-hyuk (si veda lo speciale post-seconda stagione), l’uno come l’opposto dell’altro, ovvero il primo come fiducioso nella bontà ultima dell’essere umano, il secondo come convinto nella sua corruttibilità e detestabilità, che incarnano in prima persona. Fra i personaggi tornano c'è anche Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), il poliziotto che già in passato si era infiltrato sull'isola per cercare il fratello scomparso, che si era scoperto essere proprio il frontman, e che ora cerca di ritrovare il luogo, e il reclutatore (Gong Yoo), simbolicamente micidiale nelle scene in cui fa scegliere a dei senza tetto del pane o in alternativa dei biglietti della lotteria.

Il primo gioco è lo stesso, gli altri cambiano, e mantengono lo stesso spirito, la stessa grottesca eppur mortale semplicità. In pista sono nuovi disperati: un ex marine amico di Gi-hun alle prese con il divorzio dalla moglie e il fallimento del negozio di famiglia, un padre con spese mediche da pagare per la figlia malata di leucemia, un ex militare che si sta sottoponendo alla transizione di genere, una anziana che è sopravvissuta alla guerra di Corea e suo figlio, una giovane incinta senza famiglia, un ex influencer che ha causato la rovina economica di diversi dei giocatori con i suoi suggerimenti finanziari rivelatesi delle truffe anche ex fidanzato della ragazza incinta, un rapper, “Thanos”, sempre mezzo strafatto, un anziano che ha un debito di 100 miliardi di won, una pseudo-sciamana mezza folle…

Sono tornati anche i controllori di “quel gioco maledetto” con le loro maschere con quadrato, triangolo e cerchio, simboli che indicano il loro rango in ordine da più alto a più basso e che rappresentano le lettere coreane che sono l’inizio del nome coreano di Squid Game. Dall’anonimato emerge in questa stagione la storia di una di loro, Kang No-eul (Park Gyu-young), che dopo aver disertato dalla Corea del Nord lavora in un parco di divertimenti e, quando sono in corso, come cecchino in questi giochi. Riconosce fra i partecipanti il papà della bambina malata, che le aveva regalato un disegno nel suo altro lavoro. Lei vuole guadagnare quello che le serve per trovare e riunirsi alla figlia, è lei stessa è vittima di minacce e violenza dal momento che quando vede qualcuno agonizzante, ma non morto, cerca di finirli, cosa che non sta bene a chi vuole esportare gli organi dei poveri malcapitati. Nessuno è immune dalla società crudele che si è costruita.

Più che non in passato ci si sofferma su lunghe scene in cui i giocatori devono votare se interrompere o continuare i giochi, che avviene alla fine di ogni prova, con gli uni che cercano di convincere gli altri e di portarli dalla propria parte spiegando le proprie ragioni. Forse ha rallentato il ritmo, ma l’ho trovato un bel commento sulla democrazia e su come funziona, anche su come si rimane incastrati da voti che legano la propria vita a decisioni aberranti che per se stessi non si vogliono e di come ci sia spesso una letterale guerra fra poveri.

Il finale rimane sospeso, perché come è evidente da subito, la terza stagione è di fatto semplicemente il prosieguo di questa.

lunedì 10 marzo 2025

BAD SISTERS: la prima e la seconda stagione

Remake (nella prima stagione) di Clan, serie televisiva fiamminga del 2012, Bad Sisters (Apple TV+) è una black comedy irlandese sviluppata da Sharon Horgan, Dave Finkel e Brett Baer, che l’hanno poi proseguita per una seconda. Quest’ultima ha forse avuto un lieve calo rispetto alla impeccabile prima, ma è stata comunque dinamica ed intrigante, piena di colpi di scena e un ritmo invidiabile.

Protagoniste sono le cinque sorelle Garvey, che vivono a Dublino. Eva (Sharon Horgan, Catastrophe), la primogenita, si è presa cura delle più piccole dopo la morte dei genitori. Lavora in uno studio di architettura. È single e non può avere figli. Grace (Anne-Marie Duff, Shameless, Sex Education) è sposata con John Paul (Claes Bang), collega della sorella Eva, un uomo fortemente controllante che la sminuisce di continuo, annullandola, ma di cui è innamorata e con cui ha una figlia, Blánaid (Saise Quinn). Ursula (Eva Birthistle) è un’infermiera. Sposata con tre figli che ha anche una relazione extraconiugale con il suo insegnante di fotografia. Bibi (Sarah Greene), che porta una benda dopo aver perso un occhio in un incidente, è lesbica ed è sposata con Nora e madre adottiva di un bambino. Becka (Eve Hewson, figlia del cantante Bono, giusto per curiosità), la più giovane di loro, è una terapista del massaggio che aspira ad aprire un proprio studio

A SEGUIRE SPOILER RISPETTO ALLA TRAMA.

Nel corso della prima stagione Eva, Ursula, Bibi e Backa si alleano per tentare di uccidere, senza successo, Jean Paul, il marito di Grace, per come tratta lei e loro. Alla fine lui muore comunque (e scopriremo come). La narrazione si sposta continuamente fra il presente in cui l’uomo è finalmente morto e il passato, che ci mostra le costanti angherie di lui, a cui vorremmo tirare il collo noi stessi e in cui si crea indubbiamente empatia nei confronti della protagoniste che lo vorrebbero eliminare e, in modo assai esilarante, mostra i loro variegati tentativi di faro. Grace dovrebbe ritirare la cospicua assicurazione sulla vita, ma trova la resistenza degli agenti di assicurazione della Claffin & Sons che fallirebbero se pagassero. Thomas ("Tom") Claffin (Brian Gleeson) cerca perciò di fare di tutto per dimostrare che non lo debbono fare, con l’aiuto anche del fratellastro Matthew "Matt" (Daryl McCormack) che, inizialmente all’oscuro di chi sia nella vicenda, comincia una relazione con Becka. Nelle vicende è anche coinvolto il vicino di casa di Grace, segretamente innamorato di lei, Roger (Michael Smiley).

Nella seconda stagione sono passati due anni dalle vicende della prima (così come due anni dalla messa in onda): Grace si risposa con Ian (Owen McDonnell), ma presto è lei stessa a morire. Le sorelle vogliono scoprire la verità e pensano possa essere coinvolta la sorella iper-religiosa del vicino Roger, Angelica (Fiona Shaw). E se l’ispettore della polizia  Fergal Loftus (Barry Ward) comincia a mollare la presa sulle investigazioni perché sta per andare in pensione ed è preso dalla vicenda personale dell’ex-moglie che vuole portare all’estero la figlia, la nuova giovane e brillante detective Una (Thaddea Graham) ha l’entusiasmo della neofita e la persistenza di un cane con un osso e sta sempre loro addosso. Anche in questo caso si arriva alla soluzione e viene scoperto come è andata e cosa ha condotto alla morte dell’amata Grace. La musica assume qui e lì delle sfumature alla The White Lotus.

L’accattivante sigla di apertura (stagione1) mantiene un filo conduttore nel senso che, pur essendo le immagini diverse, mostra sempre una macchina di Rube Goldberg, ovvero un domino a cascata fra vari oggetti, sottolineata dal tema musicale che è una cover di “Who by Fire” di Leonard Cohen eseguita da PJ Harvey. Azzeccatissimo. Se nel primo arco la tensione e l’umorismo dark derivano dall’escogitare nuovi modi per uccidere Jean Paul che proprio non vuole morire, e dal fallimento di ogni tentativo, nella seconda stagione questo è assicurato da una serie di incidenti che rischiano di far accusare di omicidio le sorelle in questo caso innocenti, minacciate però dal vero colpevole.

La prima stagione è solo in parte una revenge story, perché le quattro sorelle si coalizzano per liberare la sorella da quello che via via si rivela un sociopatico e proteggere la nipote, non per vendicarsi, ma quello è certamente un bonus dato che hanno loro stesse validi motivi di odiarlo: Eva viene abilmente tormentata da lui perché non può avere figli, e si scopre poi che l’ha violentata; Ursula viene ricattata e riesce a farsi mandare da lei con l’inganno una foto osé; Bibi deve la perdita del suo occhio a un incidente causato da lui; e Becka vede sfumare i propri sogni dopo che lui le promette poi negando un investimento economico a un suo progetto; Roger, viene accusato di essere un pedofilo a causa di deliberati tentativi di lui di farlo passare per tale. Insomma, si merita l’appellativo di “prick”, “coglione”, “cazzone”, ma credo (l’ho letto ma non visto) tradotto “minchione” nella versione italiana. È razzista, omofobo, non perde occasione di ferire.

Forse per far accettare la scelta (im)morale delle protagoniste, Jean Paul non ha elementi che possano redimerlo, è cattivo e basta. E se qui la storia è una freccia scoccata che tira dritto, la seconda stagione è più tortuosa, “frangiata”, ma ugualmente incalzante e riesce in ogni caso da andare a segno. Una terza stagione la vedo forzata perché ci si tiene comunque ad un certo realismo, e tornare su certi schemi potrebbe richiedere un’eccessiva sospensione dell’incredulità. Devo ammettere che mi riuscirebbe gradita comunque. Tutte le interpretazioni, dalle protagoniste ai comprimari, sono brillanti ed è magnifico il rapporto di sorellanza che si ritrae: donne che si amano, si proteggono, si fidano e confidano, condividono il bene e il male e ci sono sempre l’una per l’altra. 

venerdì 28 febbraio 2025

SHŌGUN: un lodatissimo polpettone

Ho trovato che Shōgun (Disney+) sia stato ben realizzato e ben recitato e, tratto dal romanzo del 1975 di James Clavel basato su fatti storici (anche se i nomi rispetto agli eventi reali sono stati cambiati), che fosse narrativamente ben costruito, ma contemporaneamente lo ritengo sopravvalutato dalla critica genericamente intesa che lo ha lodato profusamente e ricoperto di riconoscimenti – è stata la serie più premiata nella storia degli Emmy: ne ha ricevuti ben 18, compreso quello per la miglior serie drammatica, per cui ha vinto anche il Golden Globe, che si è portata a casa anche per le altre categorie per cui era candidata.

Siamo nel 1600 in Giappone (si è girato in giapponese, lì dove i personaggi lo erano, ed eventualmente in inglese, ma le riprese sono state fatte in Canada) e con la morte del Taiko si è quasi sull’orlo della guerra civile: il potere è diviso fra cinque reggenti il cui compito è quello di proteggere l’erede, ma ci sono contrasti fra loro. La nave olandese Erasmus naufraga su una penisola di pescatori, nella zona a Sud di Edo. I membri dell’equipaggio vengono subito uccisi (uno viene bollito vivo), ma non l’inglese John Blackthorne (Cosmo Jarvis, forse il meno convincente fra gli interpreti) che chiamano l’Anjin, il “pilota”, quando non semplicemente “il barbaro”. I cattolici locali portoghesi rappresentati dal padre gesuita Martin Alvito (Tommy Bastow) insinuano che è un pirata per eleminarlo da una potenziale concorrenza commerciale  ̶  lui che è protestante e stava cercando di scoprire quale fosse la rotta per il Giappone tenuta segreta dai portoghesi per avere il monopolio. A dispetto di simili accuse, il feudatario locale Kashigi Yabushishige (Tadanobu Asano) decide di risparmiarlo. Viene fatto condurre a Osaka da uno dei reggenti, Yoshii Toranaga (Hiroyuki Sanada), che gli altri accusano di tradimento perché è il più potente fra loro e lo temono, e questi lo tiene al suo servizio imparando ad apprezzarne le doti. Toranaka accosta a John come interprete la nobile Toda Mariko (Anna Sawai, molto migliorata da Monarch) che, convertita alla fede cristiana, sa l’inglese. Fra i due nasce l’amore (una scelta di finzione: i corrispettivi della vita reale non hanno mai avuto una storia), oltre che un profondo rispetto, e John impara molto sulla cultura locale che, fatta di regole e feroci fedeltà, spesso non riesce a comprendere del tutto, soprattutto quando non sembra dar peso alla vita umana. Emblematico è stato quando un giardiniere si è ucciso per un ordine banale (1.05).

Non ho letto il romanzo, né visto la precedente miniserie che ne era stata tratta negli anni ’80 che aveva Richard Chamberlain nel ruolo di Blackthorne, e quindi non riesco a fare un paragone, anche se leggo che questa versione è stato molta accurata rispetto al materiale di origine e che ci sono voluti molti anni – una decina, pare - a traslare la storia sul piccolo schermo. Un pro è sicuramente che si è evitato un eccesso di eurocentrismo, visto che oggidì siamo più consapevoli di prospettive altre, voglio credere. Mike Hale sul New York Times, che ben osserva che fra i punti di forza ha il fatto di non essere “eccessivamente sentimentale o sensazionalista” scrive che “se i creatori dello show mostrano una maggiore sensibilità agli stereotipi, ciò non impedisce a questo ‘Shogun’ di mostrare i segni di un familiare giapponismo cinematografico. È presente nella feticizzazione della morte (ricorre il seppuku) e nel contrasto centrale tra l'individualismo occidentale di Blackthorne e la devozione al dovere e al sacrificio dei personaggi giapponesi. Il sesso è estetizzato; una cameriera è membro di una gilda segreta di assassini (anche se il personaggio non è più una ninja a tutti gli effetti, come nel 1980). Il dialogo continua a sbocciare in poesia”. Tutto vero, ma se sono peccati sono veniali, perché in parte sono effettivi elementi di quella cultura e sensibilità.

È un opulento (leggi anche estremamente costoso) affresco di un periodo storico, tratteggia con forza scontri di potere condotti con molta eleganza e diplomazia apparentemente invisibile, lascia un intenso sottotesto di rivalità religiose che mascherano l’interesse per “seta, oro e armi”, parla di strategia di guerra, e delinea molto bene i suoi personaggi in un contesto che ha molto di esotico, indubbiamente parte del fascino della serie, che introduce anche espressioni giapponesi che impreziosiscono il dialogo. La forza sta nel descrivere eventi epici, con intense eppur misurate interpretazioni che mostrano passioni trattenute, dominate, secondo una classica tradizione del Sol Levante. Luke Winkie su Slate dice: “è divertente, violento, straordinariamente sciocco, spesso incisivo e, soprattutto, totalmente leggibile: un'impresa abbastanza rara che merita di essere sottolineata”. Concordo su quest’ultimo aspetto nel senso che dà delle coordinate di base su quell’epoca, ma non ti serve un’enciclopedia per capire “il patrimonio coloniale dei domini protestanti e cattolici, il decoro militare giapponese, le sottili linee di distinzione tra impero e shogunato, e così via”, e non si mette a farti lezione, cosa che avrebbe appesantito ulteriormente la narrazione.

Viste le lodi sperticate che ha ricevuto dalla critica, mi sfugge qualcosa di questa creazione di Justin Marks e Rachel Kondo, perché la sensazione finale per me è comunque che questa miniserie sia stata ben realizzata, con tutti gli elementi al posto giusto, ma che in definitiva sia un polpettone con scarso impatto emozionale.

martedì 18 febbraio 2025

INDUSTRY: una fenomenale terza stagione

“Il denaro doma la bestia. Il denaro è pace. Il denaro è civilizzazione. La fine della storia è il denaro”: così dice Eric (Ken Leung) nel suo ispirato discorso aziendale nella season finale di una fenomenale terza stagione di Industry, ideata dagli ex-consulenti finanziari Mickey Down e Konrad Kay, parole, confesserà poi, che ha preso a prestito da un racconto di Denis Johnson pubblicato sul New Yorker nel 2014 intitolato “The Largesse of the Sea-Maiden”, da cui il finale della terza stagione trae il titolo: “Infinite Largesse”. 

La serie (HBO – BBC1; ho parlato della prima stagione qui e non ho invece scritto sulla seconda) è fenomenale, una delle migliori in assoluto, e in crescita, per cui mi rammarico che ancora in Italia non venga trasmessa. In realtà, pur essendo il denaro e l’etica capitalista necessariamente molto visibili per una narrazione ambientata nel mondo dell’alta finanza, è stato meno il fulcro in questo arco (la messa in onda originaria è andata dall’11 agosto al 29 settembre 2024), più interessato ai rapporti di classe. È stata proprio uno studio su quei rapporti, sulla difficoltà di cambiare classe sociale nonostante il portafoglio di cui uno possa ritrovarsi a godere e nonostante l’illusorietà della mobilità sociale; in un conteso come quello britannico che fa da sfondo alle vicende, anche sull’inevitabilità del classismo. E parallelamente, in mezzo agli intrighi, la politica, la plutocrazia, i media, la società, il privilegio, la pressione performativa sul lavoro, la meritocrazia, il desiderio, il passato, è uno studio sui personaggi ognuno a modo loro spezzato dalla vita, ma che cercano di andare avanti nonostante tutto.

ATTENZIONE SPOILER IMPORTANTI  

La Pierpoint  ̶  la banca londinese per cui lavorano i protagonisti e che nelle battute finali (3.08) verrà chiusa sei mesi dopo l’egregio lavoro di Eric di coinvolgere i finanziatori egiziani Al-Miraj per tenerla a galla  ̶  investe in un’azienda che è in procinto di essere quotata in borsa, la Lumi, il cui CEO è Sir Henry Muck (basta cambiare una lettera del cognome e si capisce facilmente che tipo di multimiliardario visionario intende rappresentare), interpretato da un Kit Harrington che dimostra di non essere memorabile solo come il Jon Snow di Game of Thrones. Presto lui comincia a mostrare interesse per Yasmin (Marisa Abela), alle prese con la scomparsa del padre, Charles (Arthur Levy), accusato di appropriazione indebita per aver sottratto soldi alla propria casa editrice, la Hanani Publishing. In seguito (3.06), con dei flashback si viene a scoprire che, in vacanza in Italia sullo yacht del padre, dopo una feroce litigata con lui durante la quale lei gli augura la morte, lui ubriaco si è buttato in acqua per stizza e ripicca, e lei non ha fatto nulla per aiutarlo mentre stava affogando ed è così morto. A saperlo è solo Harper (Myha'la Herrold), che alla fine della stagione precedente era stata licenziata dalla Pierpoint per aver falsificato le proprie credenziali sul curriculum, e ottiene un lavoro come assistente esecutiva in una piccola azienda, dove conosce una manager di portfolio, Petra (Sarah Goldberg), con la quale si mette in affari. Harper è brillante ma senza scrupoli: Otto (Roger Barcley), padrino di Henry, la saluta con un “ecce Brute”, in una di quelle gemme di dialogo (3.08) che fanno apprezzare una volta di più la serie. Robert (Harry Lawtey), dopo che si ritrova la propria cliente che lo usava come boy toy morta a letto, diventa una sorta di liaison fra la Henry e la Pierpoint. L’amicizia fra lui e Yasmin li conduce finalmente ad ammettere l’amore l’uno per l’altra, ma il giorno stesso in cui fanno l’amore lei decide di sposare Henry (3.08) in un gran colpo di scena. Rishi (Sagar Radia) è perseguitato da crescenti debiti di gioco che conducono all’assassinio a sangue freddo di sua moglie davanti ai suoi occhi nel girono del proprio compleanno. Sweetpea (Miriam Petche) è una nuova assunta alla Pierpoint, che a fine stagione viene chiusa, come dicevo a inizio paragrafo. Lei ed Eric si ritrovano così senza lavoro.

Tutti gli eventi portano ad un calo di sipario su una fase della serie, che finora può essere descritta come un incrocio fra Succession, Mad Men e qualcuno ha azzardato anche Girls. Allo stesso tempo è un mondo a parte che mai abbiamo visto in TV, con un linguaggio proprio (per me difficile da comprendere sinceramente, e non per l’inglese, in italiano sarebbe uguale, l’alta finanza non fa per me). Non c’è uno stile espositivo, ma il ritratto caratteriale di ciascuno, e le debolezze e i punti di forza di ciascuno bene emergono dalle relazioni, dalle interazioni reciproche.

È brutale e feroce, implacabile. Basti pensare a “Nikki Beach, or: So Many Ways to Lose" (3.06) puntata in cui Yasmin ricorda quello che è accaduto con col padre e quella in cui lei e Harper si distruggono verbalmente a vicenda: Yasmin la accusa di trovare utile per sè stessa il suo dolore, Harper le vomita addosso gli stessi dolorosi insulti del padre: “senza talento, puttana, inutile”.  Le persone sono un mezzo per un fine (3.06) e “la verità non è importante” (3.07). Un altro buon esempio è il ludopatico Rishi, naturalmente, quando viene pestato e si presenta al lavoro sanguinante (3.04), per cui nessuno mostra preoccupazione, e la morte della moglie alla fine ci porta ai limiti de I Soprano. Ed non si può non pensare a Eric, licenziato senza mezzi termini.

È priva di sentimentalismo. Yasmin e Robert si ameranno anche, ma appartengono a due mondi diversi, e Robert non se la prende nemmeno quando vengono annunciate le  nozze di lei con Henry nella season finale. Intorno a una lunga tavolata la regia fa scomparire tutto e rimangono idealmente soli i due innamorati: “mi dispiace” dice lei; “capisco” replica lui. Ma il vero brillante gioiello di scena è quando si fermano a una stazione di servizio sulla via per la tenuta di Henry. Lei lo vede grattare un “gratta e vinci” e cristallizza una volta in più (altre volte ci sono riferimenti, ad esempio col cibo) che lui viene dalla working class, diversamente da lei. 

È capace di convivere con l’ambiguità. A fine stagione Yasmin prende con sé una dipendente dello yacht su cui era stata in Italia, che al tempo era incinta, che aveva visto sul suo letto far sesso orale con suo padre. La donna è esplicita nel dire che, in altre occasioni, c’erano state molte bambine in quei party. Scene intense, anche per la reazione e per come sono costruite, ma noi pubblico rimaniamo con il dubbio se anche Yasmin sia stata molestata dal padre da piccola. Questa incertezza esiste anche sul piano finanziario, dove ci sono molti avvenimenti e piccoli colpi di scena, l’idea è che i mercati siano solo “fumo e specchi” (3.02), ma indistinguibili dalla realtà, perché la percezione è la realtà: “il denaro è un’illusione. È un costrutto sociale basato sulla fiducia” (3.04). E scrive bene Aramide Tinubu su Variety, quando dice che “(n)el corso degli otto episodi, gli spettatori vedono in ogni momento come la percepita responsabilità sociale non riesca a mascherare un nucleo marcio”.

Partito forse un po’ in sordina, ora Industry è uno sleeper hit acuto, audace, sicuro di sé, che non si contiene. Non è un caso che su Metacritic la terza stagione abbia un punteggio di 86 e una collezione di sfavillanti critiche positive.

sabato 8 febbraio 2025

TOMORROW AND I: un Black Mirror tailandese

Uscita per la prima volta nel paese d’origine lo stesso giorno in cui ha debuttato su Netflix in Italia, ovvero il 4 dicembre 2024, Tomorrow and I, il cui titolo originale è Anakhot, è una serie antologica che può ben essere definita la Black Mirror tailandese che, come scrive IMDB, “esplora l'intersezione tra tecnologie futuristiche e cultura thailandese e le inimmaginabili tensioni e dilemmi morali che nascono dal loro inevitabile conflitto”, e come dice la piattaforma di messa in onda stessa, mostra “un futuro distopico in cui la tecnologia raschia la superficie delle tradizioni, mettendo a nudo gli strappi nel tessuto culturale”.

Quattro sono le puntate di quella che presumibilmente è solo una prima stagione.

ATTENZIONE SPOILER

1.01     “Pecora nera”: un’astronauta di una stazione spaziale internazionale, Noon, in un incidente al rientro muore poco prima di completare una missione di tre anni che l’avrebbe finalmente riunita al marito, Nont, molto innamorato di lei. Nonostante il parere contrario dei familiari, lui decide di clonarla con l’aiuto di un’amica di lei, la dottoressa Vee, che già si occupa di clonazione di animali domestici. Nel farlo scopre un segreto che lei aveva gelosamente custodito: in realtà si sentiva un uomo e se non aveva fatto la transizione era solo per non opporsi alla famiglia d’origine.

1.02    “Paradiso distopico”: una giovane donna, Jessica, costruisce un impero grazie a robot del sesso addestrati da esperti per poter esaudire ogni possibile desiderio e fantasia in Paradise X: l’Oasi del Piacere. I conservatori si oppongono al progetto, pur servendosene ampiamente. In definitiva viene affossato, ma non prima di svelarci che l’intento dell’imprenditrice era di liberare gli esseri umani dalla schiavitù del sesso a pagamento di cui era stata vittima prima sua madre, poi lei stessa da bambina.

1.03     “Buddismo digitale”: il buddismo si sviluppa attraverso pratiche che, con un apposito device di intelligenza artificiale chiamato ULTRA, danno punti di merito e di demerito: buone azioni così come previste dalle scritture buddiste fanno guadagnare punti, che si possono poi riscattare per pagare le bollette o comprare quello che si vuole. Nessuno si rivolge più ai templi, che sono in crisi. Un monaco tradizionale, Anek, è contrario finché non incontra uno dei maggiori responsabili di questa tecnologia che gli fa intendere di aver avuto lo stimolo dal proprio passato che ha visto i genitori soccombere davanti a monaci criminali che chiedevano beni promettendo l’aldilà; in questo modo le buone azioni danno beni nell’aldiqua, mercificandole però. Si può quantificare quanto uno è una brava persona? Come? Con che conseguenze? Anek che era scettico, avendo un passato da ingegnere, decide di organizzare un sistema rivale e ha un enorme successo finché l’accesso alla coscienza del monaco a capo del monastero più importante non rivela un passato di molestie ai minori.

1.04    “La ragazza calamaro”: dopo quasi 3 anni di piogge incessanti in tutto il mondo, il mondo è sott’acqua e se i cittadini più ricchi possono vivere in città sopraelevate, i quartieri più poveri sono quelli più a rischio. L’acqua alta porta virus e mutazioni per gli animali. C’è un vaccino, AquaVac, che potrebbe ripararli, ma il governo che non ha il denaro per farlo avere ai meno abbienti e finge che non serva. Ha qualche effetto collaterale ben visibile però: spuntano sul mento tentacoli come barba. Due intraprendenti bambine, una con il dono per il canto, l’altra con una notevole capacità da manager, riescono a portare luce sulla grave situazione in cui versano, una partecipando a una gara canora, l’altra smascherando (letteralmente, potremmo dire) le menzogne del governo. Finalmente tutti hanno il sospirato vaccino, ma ecco che torna il sole.     

Ambientate in un futuro prossimo immaginario, la serie è affascinante innanzitutto perché ci mostra un contesto a cui noi occidentali siamo poco abituati. Quand’è l’ultima vota che so è visto un programma tailandese dove la maggioranza della popolazione è buddista? Si esaminano i rapporti familiari, l’amore, le credenze religiose, le motivazioni che spingono verso certe idee e lo sviluppo che hanno a contatto con la natura umana. Si parla di identità, di cambiamento climatico – “Perché hanno sfruttati il pianeta senza pensare a noi?” –, di disparità economiche, di sfruttamento sessuale, e cosa molto significativa visto quello che si sente rispetto al turismo sessuale in quelle terre, di pedofilia. Naturalmente raccontano il futuro per spiegarci il presente e la società attuale, per interrogarli, e con un intento parenetico. Lo si fa con molto coraggio e schiettezza e con argomenti inusitati.

Non tutte le puntate, che hanno la regia di Paween Purijitpanya che è anche uno dei co-ideatori insieme a Pat Pataranutaporn e Jirawat Watthanakiatpanya, sono ugualmente riuscite. Per me “Buddismo digitale” è la meglio riuscita, e a seguire “Pecora nera”, poi le altre. Tutte sembrano a volte narrativamente ingenue nella loro costruzione, un po’ sempliciotte (si pensi a come avviene la clonazione, ad esempio, anche paragonata a “Orphan Black: Echos”). Forse vengono da un Paese alle cui modalità narrative non sono abituata, ma credo si sarebbe avvantaggiato di qualche taglio e di un montaggio più incisivo. Le storie si prendono il loro tempo, e anche se non risultano lente, e la visione alla fine lascia comunque appagati, perché è colorata e con una propria identità forse poco rifinita ma autentica e genuina.


mercoledì 29 gennaio 2025

NOBODY WANTS THIS: una irresistibile rom-com

Nobody Wants This, la commedia romantica che ha debuttato su Netflix lo scorso settembre, ha i due protagonisti principali interpretati da attori molti popolari e amati, che conosciamo da quando erano poco più che adolescenti e interpretavano personaggi che lo erano. Adam Brody (45 anni) lo abbiamo messo a fuoco in The O.C. dove interpretava Seth Cohen, anche se aveva avuto anche ruoli precedenti, e che si ricorda anche sempre per aver reso popolare Chrismukkah. Recentemente lo abbiamo apprezzato in Fleishman is in Trouble. La deliziosa Kristen Bell (44 anni) era la brillante investigatrice Veronica Mars, e più recentemente era finita nell’aldilà e cercava di redimersi diventando una brava persona in The Good Place, ma è stata anche la voce narrante di Gossip Girl e quella della principessa Anna nell’originale del film Frozen.  

Qui sono lui un rabbino, Noah, lei una podcaster che parla di sesso e relazioni sentimentali, Joanne, che si innamorano l’uno dell’altra. A condurre il programma con Joanne c’è anche la sorella Morgan (Justine Lupe, Succession), che si trova spiazzata che finalmente lei abbia una relazione appagante. Lui può contare sull’amicizia del fratello maggiore un po’ impacciato Sasha (Timothy Simons, Veep), ma dal momento che ha deciso di lasciare quella che tutti davano per sua futura sposa, Rebecca (Emily Arlook), nessuno è molto contento. Nessuno vuole questa cosa, come recita il titolo in traduzione. Il motivo è anche che Joanne è una “shiksa”, che originariamente doveva essere il titolo del programma, ovvero una non ebrea che, come si può leggere più approfonditamente al link, bionda dagli occhi azzurri che nulla sa dei precetti religiosi che tanto importanti sono per Noah. 

La godibilissima serie ideata da Erin Foster, già rinnovata per una seconda stagione, mi ha visto subito entusiasta perché fa quello che ultimamente sembrano non sprecarsi a fare più, ovvero permettono ai personaggi di conoscersi realmente per gradi, facendo capire a loro e a noi che cosa trovano attraente. Quello per cui ha riscosso tanti consensi è che mostra poi per una volta una coppia funzionale. Degli adulti con i loro problemi, ma disposti ad affrontarli e a cercare degli accomodamenti per stare insieme. Entrambi i personaggi, ben supportati da attori ben navigati in tal senso, sono venati di un lieve umorismo e da autoironia, che non guasta. Anche i comprimari funzionano alla perfezione.

Molte delle situazioni in cui si ritrovano i personaggi hanno il potenziale da sit-com, ma il modo in cui lo humor è costruito è ben poco tale e le emozioni e gli ostacoli che la coppia deve superare per stare insieme sono molto vere, come il fatto che vengano da due mondi diversi: per lei non c’è mai stato posto per la religione nella vita, lui ne fa il fulcro e gli dà pace e sicurezza, ma il fatto di essere accoppiato con lei può impedirgli una carriera di rabbino a cui aspira, lei è disposta a convertirsi? Si piacciono genuinamente, ma è sufficiente? E, sebbene ci sia una grande leggerezza di fondo,  si affrontano anche questioni su cui ci si interroga in generale nella vita, attraverso le parole che sono lo strumento per entrambi, lui con i sermoni, lei con il podcast. Abbiamo la possibilità di svegliarci e dare una nostra direzione alla nostra vita, ci ricordano, e tutto può avere un proposito se lo permettiamo. Quanto è importante essere privati e quanto invece essere aperti senza vergogna per questioni su cui c’è apparentemente pudore? Raccontare qualcosa che ti fa sentire a disagio aiuta le persone a connettersi con te.

Le famiglie sono importanti per entrambi e il complicato rapporto con i loro membri è molto sotto i riflettori: la sorella di lei è quella con cui condivide tutto, ma non sempre vanno d’accordo, il padre è gay e separato dalla madre. La famiglia di cui ostracizza la nuova scelta di lui e in questo forse il programma mostra una evidente debolezza quando ritrae le donne ebree un po’ macchiettisticamente poco disposte a qualunque apertura verso l’esterno. Anche se è giustificato nel caso delle amiche della ex di lui e della severa madre Bina (Tovah Feldshuh), è anche vero che hanno calcato un po’ la mano. Come ha ben scritto Dani Kessel Odom su Screen Rant. “Quando si tratta della rappresentazione delle donne ebree in TV, gli stereotipi si trovano all'incrocio tra antisemitismo e misoginia. Le donne ebree sono state stereotipate come avide, invadenti, aggressive, dominatrici, prepotenti, nevrotiche e bugiarde - tratti considerati indesiderabili. Due dei tropi ebraici più significativi che si basano su queste caratteristiche sono la principessa ebrea americana e la madre ebrea”. E se la prima sarebbe Rebecca, “nevrotica, invadente ed egoista sulla base della sua introduzione”, la seconda “appare subito come prepotente, controllante e poco accogliente, caratteristiche del tropo della madre ebrea”, ma non viene risparmiata nemmeno la cognata di Noah, Esther (Jackie Tohn) “presentata come aggressiva e dominatrice nei primi due episodi”. Ammetto di avere molta poca familiarità con gli stereotipi nei confronti delle donne ebree, ma non c’è dubbio che gli aggettivi con cui le descrive l’articolo citato riflette quello che ho visto sullo schermo.

In ogni caso è una rom-com che non sarà particolarmente innovativa, e con qualche stereotipo di cui avrebbe potuto facilmente fare a meno, ma è irresistibilmente dolce e genuinamente romantica e sono stata contenta di vederla rinnovata per una seconda stagione.