
Memorabile,
necessaria. A meno che nell’ultimo mese non abbiate vissuto da eremiti, è
probabile che abbiate profusamente sentito parlare della mirabile, celebrata,
acuta, scorticante miniserie britannica Adolescence (Netflix),
rilasciata lo scorso 13 marzo. Mutatis mutandis è per quest’anno quello
che l’anno scorso è stata Baby
Reindeer, e non solo sta venendo sezionata da un punto di vista
artistico (come accade a un Severence), ma sta avendo un forte impatto
socio-culturale con potenziali evidenti dirette conseguenze: una politica
inglese, Anneliese Midgley, sostenuta dal primo ministro Starmer, ha chiesto
che la serie venga proiettata in Parlamento e nelle scuole. Ideata da Jack
Thorne e Stephen Graham è un pseudo-giallo drammatico poliziesco, anche se è
un’etichetta che sta strettissima, in cui un ragazzino di 13 anni, Jamie Miller
(Owen Cooper) viene accusato dell’omicidio di una coetanea compagna di scuola,
Katie Leonard (Emilia Holliday), che viene trovata pugnalata sette volte. Siamo
nello Yorkshire, in Inghilterra.
Nella
prima puntata l'ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e la sergente
capo Misha Frank (Faye Marsay) arrestano il ragazzo che viene condotto alla
stazione di polizia, mentre lui si dichiara innocente. Gli viene affiancato un
avvocato e il padre Eddie (Stephen Graham, che è il co-autore, non un omonimo)
fa da garante al figlio. Seguono la procedura, viene visitato. Mi ha colpito la
gentilezza con cui lo hanno trattato. Nella seconda puntata, tre giorni dopo,
la polizia si reca nell’istituto scolastico del ragazzo, dove studia anche il figlio di Bascome, e
interrogano alcuni ragazzi, fra cui Jane (Fatima Bojang), migliore amica della
vittima. Che dettaglio fantastico quando presentano lui ma non lei alla classe, poi scusandosi! Nel terzo episodio il giovane Jamie, sette mesi dopo il suo arresto,
ha un colloquio con una psicologa forense, Briony Ariston (Erin Doherty), che
deve fare una valutazione e relazione su di lui che, in attesa del processo, si
trova in una struttura di detenzione minorile. Per me è stato il più riuscito: fa
una dissezione chirurgica di quello che vuole essere il tema principale, la
rabbia maschile e le sue radici. È recitato
alla grande, ma in primo luogo è scritto in modo mozzafiato, nel mostrare Jaime
che da solo con una donna cerca di sfidarla e di provocarla, di come lei eccellente
nel suo lavoro ma profondamente scossa debba mostrarsi indifferente alle
minacce e agli scatti d’ira, e di come lui in fondo sia solo un bambino ma non
per questo poco pericoloso. Il quarto e ultimo episodio, molti mesi dopo, a
ridosso del processo in cui il figlio annuncia di volersi dichiarare colpevole,
è concentrato sui familiari e in particolare sui genitori.
Con la
regia di Philip Barantini, ogni singola puntata è un unico piano sequenza,
quindi segue in tempo reale e senza stacchi di scena tutti gli eventi che si
susseguono nella puntata, un notevolissimo vero tour de force,
coreograficamente e anche attorialmente, che dà forza di realtà impattante a
quello che vediamo perché non ti permette davvero di staccare mai. Ti lascia
senza respiro. Il solo che ho letto che lo ha trovato privo di senso e
giudicato un mero gimmick, un trucchetto che distrae dalla storia, è
Robert King (The Good Wife, The Good Fight), che ha giudicato il programma molto
ben scritto e ben recitato e ritiene che anche in forza di questo dovrebbero essere proprio gli attori
il fulcro, non la steadicam (qui). Pur
comprendendo il suo punto di vista, io non ho sentito che ci fosse troppo
“blocking baggage”, come lo definisce lui, quindi un eccessivo bagaglio tecnico
nello stabilire chi sta dove, anzi dà la sensazione di essere senza filtri,
crudo. È una scelta che Barantini ha usato in
precedenza, nel film del 2021 Boiling Point che ha nel cast anche lì
Stephen Graham. Non ho visto il film ma qui nello show questa “tecnica” è indubbiamente usata
con virtuosismo. Lo valuto, come la maggior parte dei critici, un successo
estetico.
È comunque forma che sostiene contenuti altrettanto
pregnanti, perché mostra, in modo potente ma anche sottile, come si crea
invisibilmente una cultura misogina, di violenza contro donne e ragazze, diffusa
dalla subcultura Incel che nasce nella manosfera (quelle variegate
risorse web che promuovono odio per la donna, opposizione al femminismo e
pompano un’idea di mascolinità prepotente) e che trova poi tragica attuazione
nella realtà quotidiana. Non fa grandi lezioni sull’argomento, lo mostra di
atto. Così come non mostra il risentimento degli uomini che con autocommiserazione
e odio pianificano di sfogare la propria rabbia repressa prendendo come
bersaglio il sesso femminile, come magari può essere stato mostrato in The
Power - Ragazze eletttriche,
dove vediamo che il protagonista maschile adolescente viene davanti ai nostri
occhi radicalizzato perché si ritiene ingiustamente defraudato di privilegi che
dovrebbero essergli dati di diritto in quanto uomo. Qui si parte delle
conseguenze, un’orrida morte di una ragazzina, per sviscerare le ragioni umane di
un simile atto d’odio, per portare alla luce i meccanismi di quella che viene
chiamata mascolinità tossica, dove gli uomini sono anche vittime di una
mancanza di educazione che li fa sentire sessualmente inadeguati quando sono
ancora giovanissimi e rabbiosi nei confronti di una vita da cui si sentono
traditi e di cui scaricano la colpa sulle donne. In questo senso si trovano in
una situazione di vulnerabilità nella
società attuale. “Non ho fatto niente di male” continua a ripetere il
ragazzino, che non ritiene di aver fatto nulla di male, di avere una giusta
legittimazione al suo comportamento.
Si
mostrano genitori che non se ne sono fregati, hanno cercato nei liniti del
possibile di essere brave figure parentali, sicuramente migliori di quelle che hanno
cresciuto loro, ma si trovano davanti a un fallimento clamoroso, questo anche a
ribadire che è un problema di tipo sistemico, nel senso che puoi anche avere
una brava famiglia alle spalle, ma sei a rischio di radicalizzazione in una
società che facilmente approfitta della tua fragilità – bella la versione
cantata da un coro di ragazzi alla fine del secondo episodio di “Fragile” di
Sting. La voce della ragazza che emerge sugli altri, riporta Netflix (qui)
è quella della ragazza che interpreta la compagna di scuola uccisa.
Si mostra
anche il distacco fra le generazioni adulte e quelle giovani che hanno un
linguaggio loro. È il
figlio di Bascombe, Adam (Amari Jayden Bacchus), che a scuola prende da parte il padre per spiegargli che le
emoticon con cui commentavano le immagini di Jaime su Instagram erano insulti. La
scollatura non permette comunicabilità, non rende visibile agli adulti che
potrebbero fare da guida un disagio che matura in rancore. E gli adulti sono
privi di strumenti per farvi fronte. Una lettura importante, tanto più in un
contesto come quello britannico, è anche in termini di classe. In proposito
rimando a questo
post di Sophie Pender.
Con la
serie entrano così nel mainstream queste questioni, essenziale anche perché gli
Incel vengano visti nella loro pericolosità sociale, invece di normalizzarli,
come be arguisce Attilio
Palmieri in questo post che invito a leggere, e questioni come il 80-20
(ovvero l’80% delle donne sarebbe attratta dal 20% degli uomini) e la teoria redpill
(ovvero in qualche modo risvegliati alla presunta verità che le donne cercano negli uomini
solo bell’aspetto, denaro e potere, con un termine che deriva dalla pillola rossa di Matrix rivisitato ad hoc). Ipoestesia sociale unita a giovani istigati
alla violenza e aggressività, misoginia e maschilismo, controllo e dominazione,
come forme di successo e potere per essere maschi alfa, veri uomini, conduce
facilmente al femminicidio.
Non è un vero
giallo: anche se il ragazzo nega, capiamo subito che è lui il colpevole; è un
horror dove l’orrore non è quello del mostro, è quello del ragazzino della
porta accanto dall’aria pulita che per pressione e cyberbullismo da parte dei
coetanei che lo umiliano, per quella difficile fase dell’età che è
l’adolescenza (che è non a caso il titolo del programma), privi di anticorpi
verso la cultura misogina e maschilista in cui è immerso, e in contatto con
modelli educativi inadeguati al contesto in cui deve muoversi, conduce a
conseguenze drammatiche.
Un appunto
però mi sento di farlo. Da un lato penso che la serie sia perfetta così com’è,
completa. “Mio Dio, ogni momento, ogni battuta, ogni personaggio, ogni
pensiero. Perfetto. Furioso. Geniale. Orripilante. Cosa facciamo? @netflixuk”
ha commentato Russell T Davies (qui), che a cui ho pensato
per due ragioni: con Queer As Folk mi ha insegnato che ogni racconto è
parziale, si sceglie di raccontare uno spicchio, senza che debba rappresentare
tutti e parlare per tutti; con il corto Screwdriver (ne ho parlato qui
all’interno del saggio su Cucumber), ha vocalmente fatto una chiamata
alle armi contro l’abbandono dei ragazzini alle influenze nefaste della rete,
in quel caso rispetto alla pornografia, chiedendo lui stesso che fosse fatto
qualcosa contro la vulnerabilità dei ragazzi, tema qui significativo. Dall’altro,
forte anche di molti corsi deontologici di aggiornamento professionale come
giornalista fatti su questo argomento che insistono sulla necessità di quanto
segue, condivido a pieno un’osservazione fatta in questo
post su Instagram che riporto in parte, di seguito, tradotto, di Charlotte
Archibald,
“Per comprendere veramente
la portata delle azioni di Jamie, avevamo bisogno di sentire il vuoto lasciatosi
dietro quando Katie è stata strappata al mondo.
Un quinto episodio,
incentrato sulla sua storia attraverso gli occhi delle persone a lei più
vicine, avrebbe potuto illustrare con forza l'impatto profondo e duraturo della
violenza maschile sulle donne. Avrebbe permesso allo spettatore di comprendere
appieno le devastanti conseguenze della rabbia di Jamie.
Ma questa cornice, o la
sua mancanza, non è nuova. È una narrazione fin troppo familiare nello storytelling, nel riportare le notizie e nel modo in cui discutiamo di questi
crimini: le donne e le ragazze diventano note a piè di pagina nei loro stessi
omicidi.
Quindi sì, raccontate la
storia del mondo di oggi in cui viene cresciuto Il Ragazzo. Raccontate il ruolo
che tutti noi dobbiamo avere nel creare una società che nutra e protegga.
Mostrare quanto disperatamente i ragazzi abbiano bisogno di amore,
rassicurazione, tenerezza e modelli positivi. Adolescence lo ha fatto
brillantemente.
Ma dobbiamo anche
raccontare le storie delle ragazze e delle donne le cui vite sono sconvolte da
queste ideologie tossiche. Dobbiamo ascoltare le loro voci e riconoscere la
loro umanità. Perché solo quando le loro storie saranno raccontate, e solo
quando le donne e le ragazze saranno viste e valorizzate come persone, potremo
sperare che meno di noi saranno ferite o uccise da ragazzi e uomini.
FINO AD ALLORA, IL CICLO
CONTINUERÀ, E LE DONNE E LE RAGAZZE RESTERANNO invisibili nelle loro stesse
tragedie”.
Penso che
sia voluto, la voce delle donne non esiste nel mondo distorto che viene
rappresentato, c’è anche un’osservazione in questa direzione ad un certo punto.
Non è un programma didattico, e non si può dire tutto appunto. Eppure…è il
motivo per qui all’inizio del mio post ho voluto indicare la vittima con nome e
cognome, e con l’indicazione dell’attrice che la interpreta, per quanto non la si
veda veramente mai, se non molto di sfuggita.
Molto si
potrebbe ancora dire, e sicuramente molto verrà ancora detto. Un impatto in
ogni caso c’è stato non solo a livello di dibattito che ha elicitato, cosa già
importante: sembra che le scuole nel Regno Unito inizieranno a offrire lezioni
contro la misoginia nell’ambito delle materie di educazione sessuale, salute e relazioni,
cominciando per gradi a seconda dell’età per trattare poi nella scuola
secondaria temi come consenso, comunicazione ed etica delle relazioni
romantiche. Un risultato importante a quello artistico che è innegabile.