Mr. Robot è la serie rivelazione dell’estate. Ideata da Sam Esmail,
al suo esordio in TV, era pensata in origine come un film, tanto che la prima
stagione è da considerarsi, dicono, come il primo atto di quell’ipotetica
pellicola. Con una voce autoriale distintiva e un approccio estetico
assolutamente originale, Mr. Robot è
stata salutata come la prossima Breaking
Bad, o Mad Men, e accostata a Taxi Driver e Fight Club, di cui per qualcuno è l’erede spirituale. Negli Stati Uniti è in onda su USA Network, una rete che nel tempo ha
presentato più volte idee fresche, ma nessuna che sul serio abbia saputo distinguerla
come una canale che presentava programmi di qualità alla maniera in cui è
successo alle varie HBO, AMC, Showtime, nonostante programmi di un certo successo
come Suits e Psych. Questa potrebbe essere l’occasione della svolta.
La premessa è
apparentemente molto più lineare di quanto non sia poi invece complicata la
costruzione successiva del mondo che mette in scena e stratifica. E il narratore
non è sempre attendibile, o almeno questa è la percezione. Protagonista è Elliot
Alderson (l’attore di origine egiziana Rami Malek), un hacker dipendente dalla
morfina, asociale, paranoico, che soffre di ansia, depressione, allucinazioni e
solitudine e non ama essere toccato. Lavora come ingegnere per una compagnia di
sicurezza informatica, la AllSafe, e nel tempo libero spia costantemente la
vita digitale delle persone che lo circondano, compresa la sua psicoterapeuta,
la dottoressa Krista Gordon (Gloria Reuben), e cerca di “punire i cattivi” e
proteggere quelle che giudica brave persone agendo un po’ come un vigilante – e
qui possiamo pensare a un leggero parallelismo con Dexter: lì dove quest’ultimo conservava delle piastrine con una
goccia del sangue delle sue vittime, Elliot conserva dei CD per ciascuno dei
suoi “osservati”, registrati con titoli di dischi. Il misterioso Mr Robot del
titolo (un Christian Slater che finora è stato il bacio della morte per ogni soggetto televisivo a cui ha partecipato e che finalmente ha trovato un progetto
degno del suo talento) lo recluta nella sua fsociety, un gruppo anarchico o
silmil-tale che punta a fare una rivoluzione e creare una società più giusta azzerando
i debiti delle persone. Loro principale bersaglio è la corporazione E-Corp che
finisce per essere definita Evil-Corporation, dove Evil in inglese è il Male,
comandata da Terry Colby (Bruce Altman). In realtà il logo è quello della
Enron, un reale conglomerato andato in bancarotta nel 2001 e accusato di
condotta fraudolenta.
Eliott, seppure con
molte titubanze e riserve, accetta e si trova a lavorare con Darlene (Carly
Chaikin) e un gruppo di altri superesperti di computer, Romero (Ron Cephas
Jones), Trenton (Sunita Mani) e Mobley
(Azhar Khan), che si incontrano in una dismessa arcade di videogame – la stessa title
card del programma ricorda nella grafia i giochi Atari. Elliot ritiene la
E-Corp responsabile della morte del padre, così come fa la sua amica d’infanzia
e collega Angela (Partia Doubleday), che pure lei in altra forma lavora per
fermarli perché li ritiene colpevoli del decesso prematuro della madre. Per
quella corporazione lavora anche l’ambizioso, frustrato arrivista Tyrell
Wellick (l’attore svedese Martin Wallstrӧm), che qualcuno ha
avvicinato ad American Psycho, e a me
continua a ricordare i personaggi dei grandi romanzi russi ottocenteschi, per
qualche ragione, sottomesso alla temibile moglie Joanna (Stephanie
Cornelliussen) – un personaggio che promettono avrà un rilievo maggiore nella
prossima stagione e che è stata avvicinata a Lady MacBeth.
Una delle cose più
affascinanti di Mr. Robot è il suo
modo di inquadrare, unico e molto distintivo. I fotogrammi non sono centrati o
tagliati nel modo in cui ti aspetteresti. Un esempio: due personaggi stanno
conversando e vengono inquadrati separatamente; il primo si troverà nell’angolo
in basso a sinistra dello schermo, il secondo verrà inquadrato poi nell’angolo
a destra. Lo spazio negativo dell’inquadratura ne costituisce la grande
totalità e non trovi la figura che parla rivolta a sinistra situata sulla
destra, come accade di regola. È una estetica visuale reiterata che
potenzia l’atmosfera alienata, snervante, delirante e punk che è un po’ il
gusto di sottofondo della storia. “L’arresto di Terry Colby è nella mente di
tutti – sugli schermi – potrebbe ben essere la stessa cosa oggigiorno” (1.02),
commenta Elliot con un’affermazione che ti fa prestare attenzione al framing dell’immagine una volta in più. La
musica è anche usata in modo molto efficace.
Le puntate sono in
bilico fra realtà e illusione, la cui dialettica è uno dei grandi temi affrontati.
Puntate successive e la continuazione delle vicende dalla premessa che ho
enucleato sopra – su cui non mi addentro per evitare spoiler – rendono molto
forte quest’idea, che è a momenti anche allucinatoria, come ben rende l’episodio
“eps1.3_da3m0ns.mp4” (1.04). E si noti come è scritto il titolo della puntata:
sono tutte realizzate così, come finti
file digitali. Il tono ipnotico di Rami Malek quasi reinventa il senso del
voice-over. È un attore perfetto per la parte, molto contenuto nella sua
espressività fisica, e vivacissimo nell’uso dello sguardo, in cui vengono accentuati
gli occhi sporgenti incorniciati dal cappuccio che indossa sempre e che è
diventato iconico del programma. Tutto il casting è impeccabile – e per una
volta è fantastico vedere che attori non bianchi sono utilizzati in modo
indipendente dalla propria etnicità, per così dire. Si può osservare però che
il mondo là fuori è di ogni gender e colore, quello dei cattivi
è quasi uniformemente di maschi bianchi.
Ormai peraltro da un
punto di vista narrativo è davvero difficile sorprendersi, ma qui è capitato
più volte e penso in particolare alla fine di 1.02, nella ormai celebre (almeno
fra i fan) scena della ringhiera, ma anche a un numerosi momenti con Tyrell e
in particolare all’apertura di 1.03 e al suo successivo incontro in camera da
letto con la moglie, ma anche in tanti altri, come a cena e poi in bagno dal suo
capo. Se il sottofinale (1.09) era prevedibile, molto meno lo è stata in fondo
la puntata finale (1.10). E le vicende hanno una pregnanza rispetto
all’attualità sorprendentemente rilevante, anche, in qualche caso.
C’è un’idea di fondo: la
rivoluzione. Io sono una persona che ritiene che il concetto di rivoluzione,
così come storicamente e un po’ romanticamente inteso, sia un’idea molto
ingenua, per non dire risibile, nella società attuale. Questo non significa che
le rivoluzioni non accadano, ma l’idea di un manipolo di persone che si mette a
“fare la rivoluzione” lo trovo poco credibile. O auspicabile. E nonostante i
protagonisti abbiamo proprio questo proposito, non sono poi così sicura che
l’idea di fondo del programma sia a favore di questo genere di rivoluzione (il
tempo lo dirà). Anche politicamente, devo dire, non sono così sicura di che
posizione abbia il programma. C’è stata una battuta esplicita contro la
politica del lavoro di Obama, ad esempio, in una delle prime puntate. E
nell’ultima puntata - la cui messa in onda è stata posticipata a causa degli
echi che si potevano percepire con una sparatoria in Virginia avvenuta
quest’estate, in segno di rispetto delle vittime della tragedia nella vita
reale - un personaggio che si toglie la vita in diretta porta il cognome di
Plouffe. Non ho potuto non notarlo, sapendo che Plouffe è uno stratega politico
americano che era il direttore della campagna elettorale di Obama. Magari è
solo un caso, chissà, ma appunto ci ho fatto caso. Di fatto si rimane ambigui,
cosa che aumenta l’appeal del programma.
Alla fine il senso
proprio e vero delle rivoluzioni, un senso in cui io mi riconosco, e che mi fa
ripensare anche a David Foster Wallace, è in fondo per me quello che esprime
Elliot alla fine di “eps1.4_3xpl0its.wmv” (1.05), in un momento in cui il loro
progetto va temporaneamente in fumo: “Mio padre è venuto a prendermi a scuola
un giorno e abbiamo marinato e siamo andati in spiaggia. Era troppo freddo per
entrare in acqua e così ci siamo seduti su una coperta e abbiamo mangiato la
pizza. Quando sono arrivato a casa le mie scarpe da ginnastica erano piene di
sabbia e l’ho scossa sul pavimento della mia camera. Non sapevo la differenza,
avevo sei anni. Mia mamma mi ha urlato per il casino, ma lui non era
arrabbiato. Ha detto che miliardi di anni fa lo spostamento del mondo e il
movimento dell’oceano hanno portato quella sabbia in quel punto della spiaggia
e poi io l’ho portata via. Ogni giorno, ha detto, cambiamo il mondo. Cosa che è
un bel pensiero finché non penso di quanti giorni e vite avrei bisogno per
portare a casa una scarpa piena di sabbia finché non ci fosse più spiaggia. Finché
facesse la differenza per qualcuno. Ogni giorno cambiamo il mondo. Ma per
cambiare il mondo in un modo che significhi davvero qualcosa, quello richiede
più tempo di quanto le persone abbiano. Non accade mai tutto in un colpo. È
lento. È metodico. È sfiancante. Non tutti ne abbiamo lo
stomaco”. (Le traduzioni delle citazioni sono mie).
Un thriller psicologico inquietante
e imperdibile. Fra le migliori serie dell’anno, se non la migliore in assoluto.