martedì 5 novembre 2024

HIERARCHY: una scuola d'elite coreana

Scritto da Chu Hye-mi, e con la regia di Bae Hyeon-jin, Hierarchy (ovvero “Gerarchia”, in coreano 하이라키) è una serie scolastico-romantico-adolescenziale di Netflix ambienta nell’esclusiva Jooshin High School dove il prestigio, in un Paese che valorizza moltissimo la cultura, in questo caso è dettato dai frequentanti, tutti ricchissimi rampolli di famiglia a cui viene impartita la più vasta istruzione possibile. A fondare questa scuola privata, il cui motto è proprio “noblesse oblige”, è il Jooshin Group.

Un ragazzo che frequentava la scuola con una borsa di studio rimane ucciso e il fratello Kang Ha (Lee Chae-min) si iscrive nella stessa scuola, sempre grazie a una borsa di studio, per scoprire che cosa è accaduto e per vendicarsi. Qui incontra subito un ambiente molto snob dove chi non è danaroso viene regolarmente bullizzato. Re e regina della cricca di giovani sono considerati Kim Ri-an (Kim Jae-won), che è l’erede designato del gruppo Jooshin, che ha una madre completamente anaffettiva, che nel momento in cui lui le chiede più attenzione gli domanda se non sia sufficiente il numeroso personale che ha assunto per seguirlo; e Jung Jae-i (Roh Jeong-eui), figlia di un potente capo di un gruppo d’affari rivale, il Jaeyul Group che tiranneggia la figlia disprezzandola come la madre da cui si è separato e usandola solo ai fini di business. Ri-an e Jae-i erano una coppia innamorata, ma eventi in partenza poco chiari li vedono separati. La migliore amica di lei, He-ra (Ji Hye-won), è gelosa della loro relazione e non si accorge che il comune amico Lee Woo-jin (Lee Won-jung) è interessato a lei.

La serie è inclusa in un filone che comprende titoli come Élite, Sweet Revenge, The Glory e Boys Over Flowers. Personalmente non li ho visti e mi fido della critica e dei fan che li reputano migliori. Nonostante una sigla di gran stile infatti, la qualità della produzione  elevata da scenografie stilose e una fotografia elegante, Hierarchy non riesce a catturare le simpatie degli spettatori. Vorrebbe essere una storia di amore, amicizia e vendetta, ma non si distingue a sufficienza da titoli indicati sopra per offrire qualcosa di nuovo, ripete dinamiche già viste in altri teen drama. La mancanza di una direzione chiara, personaggi stereotipati e l’assenza di coesione fra alcune parti della trama sono lamentele sollevate che condivido. La soluzione alla morte del fratello di Kang Ha è appagante, ma il triangolo fra questi, Ri-an e Jae-i è inconsistente. Sembra un’opportunità sprecata, perché il potenziale in realtà c’era.

Centro focale di interesse sono il privilegio e le gerarchie sociali che contaminano la società coreana, il potere e le manipolazioni messe in atto per mantenere il proprio status: chi è economicamente benestante gode evidentemente di maggiori possibilità, ma la critica che si muove è di costituire una casta chiusa che non solo non condivide il proprio benessere, esclude volontariamente gli altri per puro senso di superiorità e perché può e ostracizza gli esterni alla propria cerchia umiliandoli e ritenendoli sacrificabili. La generazione giovane, almeno nei tre-quattro leading characters, è mostrata migliore rispetto a quella dei propri genitori nella misura in cui credono ancora nella responsabilità personale, nel voler rendere la realtà migliore e nell’esserci gli uni per gli altri.

Ammetto di aver avuto grande difficoltà nel valutare la capacità recitativa dei personaggi.  Ji Hye-won che interpreta He-ra mi è parsa molto convincente nel ruolo dell’amica d’infanzia gelosa di Jae-i, che ora le è vicina ora cerca di affossarla, che ricchissima cade in disgrazia ma è lei stessa maciullata dalle macchinazioni altrui e dalle sorti economiche della propria famiglia. È stata estremamente espressiva. Diversamente da lei  Roh Jeong-eui, che è appunto l’amica Jae-i, mi è sembrata molto piatta. Sono consapevole però che in estremo oriente fa parte della cultura cercare di non mostrare sul proprio volto i propri sentimenti: dissimularli o nasconderli è incoraggiato. Quindi non sono stata davvero in grado di valutare se certe scelte di recitazione fossero scarso talento da parte dell’attrice o, come mi pare di poter intuire da altri momenti di narrazione, scelte di mostrarsi stoicamente impassibile. Forse la voce avrebbe aiutato, ma non conosco il coreano e per semplicità ho guardato il programma doppiato in inglese (in italiano non c’era la possibilità). In ogni caso ho sentito lo scarto culturale e la mia mancanza di strumenti per fare una valutazione adeguata. Genericamente le interpretazioni sono state apprezzate nonostante per qualcuno siano state troppo smaccate e mancassero di sfumature.

Se si è amanti del sottogenere di ragazzi ricchi e viziati in collegi esclusivi non scoraggio la visione, ma non la incoraggio nemmeno. Al mio scrivere non è prevista una seconda stagione, comunque poco probabile vista la tiepida ricezione.

sabato 26 ottobre 2024

FOR ALL MANKIND: la quarta stagione

Mi rammarico di non aver mai scritto prima su For All Mankind  (AppleTV+), anche perché la quarta stagione di cui mi accingo a parlare è quella che di tutte finora mi è piaciuta meno, pur comunque nell’alto livello di apprezzamento.

ATTENZIONE SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE

Questa non è la fantascienza in cui si indossano tutine aderenti e si incontrano alieni antropomorfi ma è, semmai di fantascienza vogliano parlare, quella in cui ci si muove scafandrati su una superficie arida e ostile e si cercano disperatamente molecole di potenziali esseri viventi. Si tratta di un’ucronia in cui sono stati i sovietici i primi ad allunare e la quarta stagione parte nel 2003 iniziando con “Glasnost” (4.01) e finendo con “Perestrojka” (4.10). Fulcro dell’azione è in questo caso Marte, dove la base "Happy Valley" si è molto ampliata, e salvo un piccolo avamposto nordcoreano,  è gestita all’unisono da americani e russi, con Danielle Poole (Krys Marshall) richiamata dal pensionamento per comandarla al posto di Edward Baldwin (Joel Kinnaman).

Come sempre, questa serie, ideata Ronald D. Moore (Battlestar Galactica, Outlander), Matt Wolpert e Ben Nedivi, con questi ultimi due responsabili di buona parte della sceneggiatura, è meticolosamente costruita verso una season finale che porta molta suspense. In questo caso, se nel sottofinale (“Brazil”, 4.09) arriva come un fulmine a ciel sereno l’assassinio di Sergei (Piotr Adamczyk, Karol, un uomo diventato papa), un personaggio molto amato (anche se narrativamente non ci si è non potuti chiedere che fine avesse fatto in ultimo la moglie), la conclusione ha tenuto con il fiato sospeso al pari delle stagioni precedenti con un asteroide chiamato Goldilocks/Riccioli d’oro, ricco di prezioso iridio, che NASA, con l’amministratore Eli Hobson (Daniel Stern), e ROSCOSMOS,  con a capo Irina Morozova (Svetlana Efremova), vogliono portare in orbita verso la terra e HELIOS (un’agenzia privata) che invece intende sabotare il loro progetto e dirottarlo perché rimanga nell’orbita di Marte assicurando così continui investimenti e ricerca nel pianeta rosso che diversamente verrebbe abbandonato al proprio destino. Si testano così punti di vista e si creano alleanze inaspettate.  E l’inaspettato ruolo di Dev Ayesa (Edi Gathegi) in tutto questo è stato coerente con quello che il personaggio è per come è stato presentato dall’inizio.

Parte del motivo per cui mi è piaciuta meno questa stagione è che ci si è tanto concentrati sul malcontento e le rivendicazioni operaie, in particolare capeggiate da Samantha Massey (Tyner Rushing) e Miles Dale (Toby Kebbell, Servant), ex lavorante di piattaforma petrolifera diventato contrabbandiere, che in chiusura diventano inaspettatamente eroi della situazione. In realtà ho apprezzato molto però come siano riusciti a mostrare le ragioni di entrambe le parti. Tutti avevano regione e allo stesso tempo nessuno aveva ragione, se è vero che quelli dei “piani bassi” sono stati imbrogliati e si trovavano in una situazione più disagiata dei “piani alti”, è vero altrettanto che spesso non è colpa di questi ultimi che cercano di fare il possibile e spesso hanno le mani altrettanto legate, e che sappiamo bene dalle stagioni precedenti che in un certo senso eventuali piccoli privilegi se li sono anche guadagnati, con molti anni vissuti in condizioni ben più restrittive e di sacrificio di quelli degli attuali “piani bassi”. La capacità di mostrare più prospettive è uno dei punti di forza del programma, così come la capacità di dimostrare che non è tutto bianco o nero, come ben illustra l’emblematica storyline di Margo Madison (Wrenn Schmidt), creduta morta e passata ai russi e, ma poi rivelatasi viva, con grande sorpresa in particolare di Aleida Rosales (Coral Peña), che peraltro ha stretto un magnifico rapporto professional-amicale con Kelly Baldwin (Cynthy Wu), mostrando una volta in più che non si ha timore di mettere in primo piano donne competenti. I comportamenti e compromessi che ha fatto Margo, a cui noi abbiamo potuto assistere passo passo, ma che non vengono accettati da Aleida, sono una vera gemma perché pur nella loro problematicità, difficilmente non verrebbero compresi dallo spettatore che facilmente avrebbe fatto scelte simili, incastrato dagli eventi. Margo in questa stagione richiama alla memoria un evento passato in cui lei era stata profondamente accusatoria nei confronti di un suo mentore Wernher von Braun, quando aveva scoperto che aveva lavorato per i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, pur consapevole del trattamento dei prigionieri che costruivano il razzo V-2. Si domanda se, mutatis mutandis, non abbia fatto scelte ugualmente biasimevoli. È stata una finezza da parte degli autori riprendere con la memoria un evento della prima stagione e una citazione di una riflessione che questi le aveva fatto, “Il progresso non è mai gratuito, Margo. C’è sempre un costo” (1.02), che dimostra una volta in più con quanta cura sia stato pensato questo arco. Mantenere i personaggi moralmente in bilico nell’impossibilità di riuscire a stabilire in via definitiva qualche sia la scelta più giusta nelle specifiche circostanze, da cui ci si sente costretti, e far sì che si tifi comunque per loro, non è abilità da poco.  

Proprio all’ingegnera prima donna del Controllo Missione della NASA passata all’Unione Sovietiva viene affidato il pensiero conclusivo della stagione, recitato in voice-over, per una serie che deve il proprio titolo alla placca commemorativa lasciata sulla Luna dall'equipaggio dell'Apollo 11, che riporta la scritta «We came in peace for all mankind» (Siamo venuti in pace per tutta l'umanità): “i nostri sentimenti possono non essere convenienti, possono anche rallentare il nostro progresso, ma sono anche il solo modo per cominciare davvero a comprendere il mondo intorno a noi, e i nuovi mondi che ci attendono” (traduzione mia). Insomma gli esseri umani che agiscono “per tutta l’umanità” sono esseri imprevedibili e contraddittori e dobbiamo riconoscere la preziosità di questa caratteristica.

Rimane un certo idealismo – Danielle parlando con casa menziona Star Trek, e ci sono fugaci momenti in cui c’è la sensazione che ci sia in nuce quel tipo di futuro. La confermata quinta stagione partirà, come già si è visto dalla chiusura di questa, nel 2012nella diegesi, vista l’abitudine di For All Mankind di fare dei salti temporali fra un arco e l’altro. Vista anche l’età, su alcuni dei personaggi storici (Danielle, Margo, Edward) è probabile che cali il sipario, ma già è stato annunciato l’arrivo di Celia Boyd, membro della Forza di Sicurezza Pacificatrice sulla colonia di Marte, con il volto di Mireille Enos (The Killing). E se non si escludono possibili stagioni 6 e 7, con il rinnovo per la quinta si è intanto anche annunciato lo spin-off “Star City”, in cui si tornerà all'inizio della linea temporale alternativa stabilita da "For All Mankind", ma questa volta dalla prospettiva sovietica.

mercoledì 16 ottobre 2024

THE CURSE: idiosincratico e cringy

“Che cos’è l’arte? Che cosa intende trasmettere?” The Curse (Showtime; Paramount+) si è posta costantemente questa domanda nel corso delle sue 10 puntate, in modo sia esplicito che no. Non è un caso che sia stata indicata da molti come uno dei migliori programmi del 2023. Asher (Nathan Fielder), uno dei tre protagonisti, se lo domanda una volta in più parlandone con la moglie Whitney (Emma Stone), molto incinta, nella season finale (1.10). Dà anche una risposta, dopo aver riflettuto su Mel Brooks, la ricezione a The Producers da parte degli spettatori ebrei e l’olocausto: qualche volta arte è spingersi fino all’estremo per provare la propria tesi.

SPOILER SULLA SEASON FINALE NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

Antecedentemente ci sono due momenti terribilmente cringy, vera cifra stilistica dello show. Nel primo la coppia fa un collegamento video con un programma di cucina di Rachel Ray per promuovere un proprio programma televisivo, su cui hanno lavorato nel corso della stagione – seguirli mentre lo realizzano è stato il contenuto delle vicende della serie. Sorridono come idioti imbalsamati tutto il tempo mentre lei praticamente li ignora. Nel secondo Asher per rendere felice Whitney, che lo è quando riesce a rendere tali gli altri, decide di regalare una casa con un valore di 280.000-300.00 dollari ad Abshir (Barkhad Abdi), uno squatter a cui l’avevano in precedenza già comunque prestata e quest’ultimo non solo non sembra commosso come si aspettavano, ma ne è quasi infastidito, li lascia sulla porta non facendoli nemmeno entrare e la sola cosa di cui si interessa è chi pagherà le tasse di proprietà – loro naturalmente. Poi la serie fa esattamente quello che Asher dice che l’arte debba talvolta fare, in una delle finali più memorabili che io abbia mai visto. Geniale, surreale, kafkiana. Davvero arte.

Non sono sicura di aver capito il significato della conclusione scelta, che tesi voglia provare e come si integri con il resto della stagione, ma l’ho amata profondamente. La coppia dovrebbe essere a letto a riposare, ma quando si svegliano si rendono conto che, per qualche inspiegata ragione, che inizialmente ipotizzano legata al sistema pressorio dell’abitazione, lui è sul soffitto, con la faccia rivolta verso il pavimento. E non importa quanto cerchi disperatamente di scendere, la gravità lo spinge in alto. Whitney intanto comincia ad avere le contrazioni e all’opposto è letteralmente che striscia bocconi sul pavimento, preoccupati che le succeda altrettanto. Asher è appunto convinto che il fenomeno sia legato alla casa e cerca di uscire, ma si rende subito conto che non è così: se lo lasciano vola via, come un palloncino. Uscendo dalla casa vola in alto e viene trattenuto solo dai rami di un albero, a cui si aggrappa. Il miglior amico Dougie (Benny Safdie) pensa che sia in crisi per la paura di diventare padre, una cosa astratta di cui ancora non riesce a rendersi conto, e lo filma; i pompieri che intervengono lo credono matto e, invece di  fare come chiede, tagliano il ramo dell’albero per farlo cadere, e lui prende il volo, finendo oltre l’atmosfera terrestre, nello spazio remoto. Whitney in ospedale partorisce da sola un nel bambino che la riempie di felicità; Dougie piange per non aver creduto all’amico. Potente, folle, inspiegabile. Memorabile. Che senso ha?

Ma facciamo un passo indietro: Asher e Whitney Siegel vogliono mandare in onda un reality, “Fliplanthropy”, filmato dall’amico Dougie Schacter come autore e regista spesso incompreso, in cui riqualificano la zona economicamente depressa della comunità di Española, in New Mexico, ricca di cultura nativo-americana. Lo vogliono fare attraverso la propria società di sviluppo immobiliare costruendo nuovi modelli di casa, ecologicamente sostenibili, dando valore all’arte locale con una filosofia abitativa olistica. Vogliono aiutare la gente del posto, e vanno al di là di quanto anche può apparire ragionevole per farlo, ma vengono criticati per la gentrificazione dell'area. Si è straziati di imbarazzo a seguirne il processo creativo, dove il limite fra realtà e reality è costantemente ridefinito, ci sono inquadrature che danno il senso di spiare attraverso il buco della serratura e molte interazioni sono fatte a uso e consumo delle telecamere. Versano dell’acqua sugli occhi di una donna che sta morendo di cancro, con un po’ di mentolo perché siano arrossati per un effetto più realistico, per fingere lacrime di gratitudine perché hanno trovato un lavoro al figlio. Non si potrebbe essere più spietati nel mettere a nudo la compassione o la generosità puramente performative. O nel puntare il dito contro l’atteggiamento da “white savior” (salvatore bianco). Lui regala 100 dollari a delle bimbe che fanno le venditrici ambulanti di bevande gassate, ma come scena, poi li rivuole indietro, e da qui la maledizione, la “curse” del titolo da cui Nathan si sente perseguitato per molto del tempo. Era solo una challenge di TikTok, ma è vera perché ci credono?

Il confine fa realtà e finzione è continuamente rinegoziato, e non è un caso che a ideare il programma sia stato insieme a Safide proprio Filler, noto per programmi sperimentali come The Rehersal e Nathan for You in cui proprio questo spazio liminale viene costantemente e intelligentemente interrogato. Le puntate non sono tanto costruite su atti, quando su moduli che si susseguono. Le sorti incerte della produzione si alternano a quelle della loro vita personale: si mette in dubbio la sincerità di lei anche per le pratiche dei propri genitori, si demolisce la capacità umoristica di lui, un Dougie privo di scrupoli si incunea nel rapporto facendo temporaneamente credere che questo renderebbe la loro idea più drammaticamente appetibile ai network, ci si deve relazionare con vari interlocutori, fra cui un’artista del Pueblo Picuris di nome Cara Durand (Nizhonniya Luxi Austin) – tutte le scene con quest’ultima sono follemente geniali…Ansia, mortificazione, senso di inadeguatezza abbondano. 

Si tratta di un programma complesso, originalissimo e difficile da classificare anche se viene considerato una black comedy-drama thriller satirico. Non è una serie, di cui non è completamente esclusa una seconda stagione, che si guardi sempre con piacere. Ha scritto bene Daniel Fienberg su The Hollywood Reporter, quando ha detto che “è un luogo visceralmente sgradevole” da visitare e che la “serie ha affinato l'umiliazione e l'antipatia fino al limite del kink, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l'incenerimento di molte delle nostre illusioni culturalmente condivise”. Indubbiamente sviscera in modo chirurgico il tema dell’autenticità ed è pregno di riflessioni. Affascinante, idiosincratico e da non perdere. 

domenica 6 ottobre 2024

THE GIRLS ON THE BUS: quattro giornaliste politiche

Ispirato al memoir del 2018 della giornalista politica del New York Times Amy Chozik intitolato Chasing Hillary, in cui lei seguiva la campagna elettorale della Clinton, e qui co-ideatrice insieme a Julie Plec (The Vampire Diaries), The Girls on the Bus (sull’americana Max) ha titolo che è un omaggio al seminale testo di saggistica giornalistica del 1973 The Boys on the Bus, un best-seller tutt’ora usato come materiale di studio nei corsi universitari di giornalismo, in cui l’autore Timothy Crouse racconta la vita in viaggio dei reporter che seguivano le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 1972, libro mostrato spesso nella diegesi.

Cancellata dopo una sola stagione, con le presidenziali americane nel vivo, mi è sembrato il momento ideale per seguirla. Le quattro donne sotto i riflettori sono sì persone, ma allo stesso tempo rappresentano un modello di giornalismo così come si contendono la scena nella contemporaneità e possono ciascuna essere identificate da una parola chiave, come esplicitano in chiusura (1.10). Sadie McCarthy (Melissa Benoist, Supergirl) è la penna politica di punta per The New York Sentinel, adora la propria professione, ed è appassionata, crede che l’autenticità e rivelare le proprie simpatie eventuali sia più onesto e abbia più integrità di un’oggettività che spesso è illusoria. Dopo una crisi avvenuta qualche tempo prima ha convinto il suo superiore Bruce Turner (Griffin Dunne, This is us), che per lei è un incrocio fra un mentore e una figura paterna, a darle una seconda possibilità. Lui, con un passato di dipendenza da sostanze stupefacenti, pare sia ispirato al leggendario David Carr del Times. Suo idolo è il pioniere del giornalismo Hunter S. Thompson (P.J. Sosko), che le appare incarnando i propri pensieri. Rappresenta la carta stampata giovane e grintosa che è ancora animata da idealismo e convinzione di essere rilevante e poter fare la differenza, è la “speranza”. Il lavoro di Sadie la porta in contatto con un’ex-fiamma che lei aveva ghostato, Malcom (Brandon Scott).

Sempre alla carta stampata appartiene Grace Gordon Greene (Carla Gugino, The Fall of the House of Usher), una veterana che ha vinto il Pulitzer che mette la carriera e gli scoop davanti ad ogni cosa, anche al marito (Scott Cohen) e alla figlia universitaria (Rose Jackson-Smith) che sta avendo un periodo di crisi che lei non riesce a gestire. È il “cinismo”.  Kimberlyn Anaya Kendrick (Christina Elmore), la conservatrice del gruppo, in contrasto ideologico con le altre, lavora per un network simil-FoxNews il "Liberty News Direct" che non la apprezza come dovrebbe. Ha un fidanzato, Eric (Kyle Vincent Terry), poi marito, con il quale il rapporto è difficile proprio a causa dei suoi mille impegni di lavoro. Rappresenta l’”ambizione”. Lola Rahaii (Natasha Behnam), che è la “giovinezza”, è un’influencer e attivista della Generazione Z che ha più follower su Twitter di quanti ne abbia il Washington Post. È grintosa e convinta che il suo modo di fare informazione sui social sia quello rilevante, mentre vede la carta stampata come morta e la TV via cavo come un canale per vecchi. Nel tempo però impara il rispetto per i giornalisti di vecchia scuola e sente sempre più soffocante la continua necessità di fare product placement.

Queste professioniste dell’informazione devono seguire i politici che si contendono la nomination democratica: Felicity Walker (Hettienne Park), in parte modellata su Hillary Clinton, Biff de la Peña (Mark Consuelos), attore prestato alla politica, Hayden Wells Garrett (Scott Foley, Felicity) il meno noto fra i contendenti che riserverà alcune sorprese. Scrive Daniel Fienberg sull’Hollywood Reporter: “I candidati in pista per lo più non vengono nominati e sono presentati come archetipi: il geriatrico, la matricola, l'uomo bianco e sexy, ecc. Ma gli spettatori abbastanza intelligenti da identificare il network via cavo come simil-Fox troveranno facile riconoscerli come Fake AOC (Tala Ashe), Fake Mayor Pete (Scott Foley), Fake Arnold Schwarzenegger (Mark Consuelos), Fake Joe Biden (Richard Bekins) e Fake Hillary (Park)”.

Traspare l’amore per la professione giornalistica, con la consapevolezza che chi lavora in questo settore potrà non fare la storia, ma di certo la scrive (1.09); allo stesso tempo è guardata anche un l’atteggiamento disilluso di chi si rende conto che “di questi tempi la verità è qualunque cosa tu voglia credere” e siamo in un momento storico in cui i media sono sotto attacco. Fra Sadie e Bruce, e poi fra le protagoniste ci sono discussioni su questi temi. La sensazione di fondo è però che si rinunci a discutere senza esclusione di colpi, rendendo le opinioni un po’ blande (specie del caso di Kimberlyn, che dovrebbe essere la voce dissonante), e facendo finire i contrasti a tarallucci e vino in virtù della bella amicizia che si crea fra di loro, presenti l’una per l’altra nei momenti di difficoltà, pronte ad aiutarsi sul piano personale e professionale e diventate una famiglia. E per quanto si sentano le salvatrici della democrazia, nell’affrontare le tematiche però si dice poco del mondo là fuori e non si riesce ad essere una voce reale nel commentare la politica o i media effettivi. 

Scrive bene Alison Herman su Variety quando dice “Lo show è bloccato nel peggiore dei due mondi: le sue frequenti sciocchezze sembrano inappropriate, mentre le sue occasionali grandiosità appaiono del tutto fuori dalla sua portata”. Good Girls Revolt, The Morning Show o i vari  programmi di Aaron Sorkin (che sia The West Wing o The Newsroom) hanno sicuramente una diversa pregnanza. A dispetto di questo, anche grazie a una buona intesa fra il cast, è una visione gradevole anche se priva di rivelazioni.

giovedì 26 settembre 2024

MY LADY JANE: divertente e romantico

Frizzante, romantico, divertente, pieno di avventura, di intrighi e colpi di scena, di tensione e desiderio: My Lady Jane (Amazon Prime), purtroppo cancellata dopo una sola stagione, è stata una gradita sorpresa. Adattata per la televisione da Gemma Burgess, è basata sull’omonimo libro, primo di una serie di romanzi conosciuti come The Lady Janies, scritti da Jodi Meadows, Brodi Ashton e Cynthia Hand.

Si tratta di un’ucronia fantasy romantica in cui protagonista è Lady Jane Grey (Emily Bader), prima regina di Inghilterra, pronipote di Enrico VIII (sul personaggio storico si legga qui). Come nella finzione, fu fatta sposare a Guilford Dudley (Edward Bluemel, Sex Education), rampollo del duca John Dudley (Rob Brydon), consigliere di Edoardo VI (Jordan Peters) che, morendo, l’aveva designata come sua erede al trono. Nella vita reale ha regnato per soli nove giorni, dal 10 al 19 luglio 1553, condannata a morte da quella che lei stessa riconosceva come legittima erede, Maria I (Kate O’Flynn, Everyone Else Burns), figlia di Enrico VIII. Qualcuno forse ricorda il famoso quadro di Paul Delaroche, che ritrae la sua esecuzione (qui).

Nella serie le vicende vanno diversamente. La madre di Jane, Lady Frances (Anna Chancellor) costringe sì la figlia a sposarsi con un uomo che non conosceva, e alla fine deve farlo nonostante un tentativo di fuga messo in atto con la sua fedele domestica Susannah (Máiréad Tyers); e sì Mary cerca a tutti i costi, con l’aiuto del marito Lord Seymour (Dominic Cooper), di accaparrarsi il trono, ma lei sopravvive e quello che era un matrimonio forzato in realtà diventa uno di complicità oltre che di attrazione che inizialmente entrambi cercano di negare e tenere a freno e alla fine di amore. L’incipit parla chiaro, e nel farlo mostra subito lo spirito irriverente che anima il programma: “Tanto tempo fa, in una terra non molto lontana, una stirpe di re credeva che Dio avesse concesso loro il diritto di governare l’Inghilterra a loro piacimento. Conoscete Re Enrico VIII il gigante, re Tudor dai capelli rossi. Usava le mogli come fazzoletti, un soffio e via. Divorziata. Decapitata. Morta. Divorziata. Decapitata. Sopravvissuta. A lui successe il figlio Edward. Quando egli morì ci si aspettava che la corona andasse alla sorellastra Mary o magari a Elisabeth. E, invece, ci fu uno shock pazzesco. Lady Jane Grey. Intellettuale ribelle, discreta rompipalle e pedina della propria ambiziosa e nobile famiglia, Jane fu sposata senza il suo consenso e incoronata regina contro il suo volere. E, solo nove giorni dopo fu marchiata come una traditrice e… Perse la testa. Sarebbe potuta essere la leader che serviva all’Inghilterra, ma la storia la ricorda come l’emblema della damigella in pericolo. Ohhhh Vaffanculo! E se fosse andata diversamente?”

C’è di più. In questa versione dell’Inghilterra di epoca Tudor esistono delle persone, gli Ethiani, persone mutaforma che a piacimento e all’occorrenza si possono trasformare in animali, considerati da molti come esseri inferiori e perseguitati, che sono in contrasto con gli umani, detti Veritiani. Questo elemento fantastico maschera allegoricamente quello che nella storia è stato il contrasto nel Paese e nella vita di questa regina, fra Protestanti e Cattolici. ATTENZIONE SPOILER Anche Guilford è un ethiano, anche se fa di tutto per nasconderlo. Per lui è più difficile che per gli altri, perché non riesce a trasformarsi a piacimento, ma di giorno diventa un cavallo e solo quando cala il sole può ritrasformarsi in uomo. Spera proprio che la brillantezza di Jane possa trovare un modo per guarirlo. È ossessionato dalla cura, tanto da subordinare tutto a quella, inizialmente. Una lettura metaforica può facilmente essere fatta in termini LGBTQ+ o di abilismo: e si contrappone una sana accettazione di sé a un fobica demolizione di ciò che è diverso.

La recitazione è brillante da parte di tutto il cast e fa funzionare le scene più bizzarre, spesso commentate con ironico distacco dalla voce fuori campo (Oliver Chris nella versione originale). L’intesa fra Jane e Guilford è palpabile, i battibecchi e scaramucce verbali fanno scintille e ben mostrano l’intesa montante fra loro che lo spettatore anela che consumino. C’è verve e grande umorismo, ma anche tanto romanticismo, e alla fine l’amore trionfa.

Qualcuno ha inappropriatamente collegato la serie a Bridgerton, ma a parte un’ambientazione d’epoca, e pure diversa, il solo contatto è nella presenza di una madre preoccupata dalla propria situazione finanziaria dopo la morte del marito e nella necessità di maritare tre figlie. Il tono sbarazzino, rivoluzionario, lievemente sboccato e femminista lo avvicina più a The Great con qualche elemento alla Queste oscure materie di Pullman  o eventualmente Ladyhawke.  

Godibilissimo. Qui il trailer ufficiale in italiano.


lunedì 16 settembre 2024

EVIL: la quarta e ultima (?) stagione

Si è da poco chiusa la quarta e ultima stagione di Evil (Paramount+). In un’intervista niente meno che Stephen King si è dichiarato un estimatore: considera la serie divertente, arguta e molto acuta. Attori e ideatori, che sono i coniugi Robert e Michelle King, ma a dispetto del cognome non hanno alcun rapporto con lo scrittore, ne sono rimasti lusingati e su X (l’ex Twitter) lo hanno ringraziato. Lui ha rincarato la dose, dicendo che è un programma brillante, stimolante, e che a tratti incute molta paura. Non posso che trovarmi d’accordo e augurarmi che la pressione che è nata per far continuare la serie, magari su Netflix o su altri servizi di streaming, possa avere successo. Negli USA si è piazzata nella top ten dei programmi più visti, gli autori hanno assicurato di avere storie per almeno altre due stagioni, e gli interpreti sono interessati a continuate a recitare quei ruoli. Katja Herbers in particolare, che interpreta Kristen Bouchard, è stata vocale nel fare campagna in proposito. Incrociamo le dita.  

La premessa è sempre la stessa e sembra quasi l’inizio di una barzelletta: una psicologa (Kristen), un prete (David Acosta, interpretato da Mike Colter), e un esperto di tecnologia (Ben Shakir, a cui dà il volto Aasif Mandvi) indagano situazioni “paranormali” per conto della chiesa cattolica: sono eventi spiegabili dalla scienza oppure c’è altro? Quanti sono orrori psicologici e quanta è possessione demoniaca? Ci si mantiene in bilico, senza essere creduloni, ma dando un margine di dubbio, e oltre alla puntata autoconclusiva procedurale si segue un arco sul “male” che appare mostruoso ma è evidentemente una metafora di mali sociali più o meno riconoscibili. Come non apprezzare quando Sheryl (Christine Lahti), la madre di Kristen, si ritrova finalmente in un ufficio tutto suo, ma il soffitto è bassissimo, è di cristallo e sopra di lei camminano solo uomini? Sister Andrea (Andrea Martin), un'anziana suora che riesce a vederli fisicamente davanti ai propri occhi, insegue schiaccia e distrugge i demoni più diversi.

In passato (ne avevo parlato qui) mi aveva lasciato qualche problematicità morale nel momento in cui ha avuto l’eroina protagonista capace di un omicidio premeditato nel corso nella seconda stagione. La moralità o meno dell’omicidio è però qui un tema ricorrente, con i personaggi dalla parte del bene che pure spesso si interrogano in che misura sia eventualmente lecito ricorrervi: David ad esempio prende in considerazione di eliminare fisicamente Leland Townsend, il sempre viscidamente seducente e inquietante Michael Emerson (Lost), grande cattivo della situazione. Il peso dei compromessi morali è preso seriamente, come è stato osservato. Con un mistero vagamente alla Dan Brown, David Acosta ha cominciato a lavorare per una società segreta, l’Entità, legata alla chiesa cattolica, che sfrutta la sua abilità di avere visioni, e se lui è sempre stato l’uomo di fede, non rimane cieco alla crisi della Chiesa Cattolica, così come spesso si discute del valore e del senso delle religioni organizzate, con più posizioni messe in campo – Kristen è stata cresciuta dalle suore, ma è agnostica, e le fa paura che la figlia maggiore stia valutando di farsi suora, ad esempio.

Ho proprio notato nel corso delle stagioni che mi lasciava una certa inquietudine di fondo, nonostante solitamente in queste cosa nulla mi tanga. E non sono mai mancati ironia e umorismo. Come non sghignazzare quando Leland ha a che fare con l’anticristo che è un bebè frignante che non riesce a dormire ma fa solo cacca e pipì, o quando glielo battezzano per fargli dispetto e impedirgli di usarlo per i propri fini? Le storie sanno essere folli e assurde a momenti, si passa con nonchalance dalla commedia a discussioni molto pregnanti e impegnate, con sostanza. I personaggi sono autenticamente amici e si vogliono bene, ma realisticamente da un punto di vista umano possono non essere d’accordo, e sanno esprimerlo con rispetto reciproco, ammettendo dubbi e paure. Gli interpreti tutti hanno saputo dare molto spessore a coloro che incarnano: David nella sua vocazione che talvolta si interroga se sia sufficiente, ma che sa essere la sua strada; Kristen nel suo ruolo professionale e di madre, con le quattro figlie  - Lynn (Brooklyn Shuck), Lila (Skylar Gray), Lexis (Maddy Crocco) e Laura (Dalya Knapp) – le cui voci si sovrappongono, che hanno sempre regalato una bella energia; Ben nella sua fiducia nella scienza, che nell’ultima stagione sembra essere in crisi.   

Scrive acutamente TV Guide che Evil ha attinto al potere di ciò che è assente, ed è lì che si sono sovrapposti l'orrore, il romanticismo e il desiderio religioso della serie, ed è riuscita ad essere raffinata nei dialoghi ma anche sorprendentemente pregnante nei momenti di silenzio. E aggiunge, facendo riferimento a un video di YouTube che non è reso disponibile nel nostro Paese che “(i) King hanno spesso citato il thriller in bianco e nero di Charles Laughton del 1955, The Night of the Hunter / La notte del cacciatore, come una delle principali influenze dello stile visivo di Evil, che punta al cielo, inquadrando i personaggi sotto uno spazio vuoto. In un dietro le quinte della quarta stagione, il direttore della fotografia Fred Murphy ha spiegato: ‘Abbiamo voluto dare più spazio intorno ai personaggi, per dare spazio al mondo degli angeli sopra ai personaggi’. Gli angeli del male avevano la stessa probabilità di essere tanto visioni di terrore come di meraviglia, e anche ciò che scendeva dall'alto poteva essere pericoloso. (Robert King ha dichiarato a Entertainment Weekly, durante la prima stagione, che la casa di Kristen si trovava sotto un treno, in modo che i personaggi “guardassero in alto in cerca di una minaccia”). Ma era importante che, mentre i demoni dilagavano, il mondo degli angeli fosse definito da ciò che non si vedeva”.

La conclusione c’è stata su più fronti. L’unico aspetto che mi è parso poco soddisfacente è stato quello del marito di Kristen, liquidato in modo affrettato, senza che si venisse davvero a scoprire che i suoi vuoti di memoria erano programmati da Leland, che gli succhiava letteralmente il sangue. La narrativa ha risolto i nodi principali e ha visto la chiesa cattolica chiudere il programma di valutazioni per cui erano stati assunti David, Kristen e Ben, anche se andava forte, e licenziarli. Sono delusi. Avrebbero continuato. Molto meta. Robert King  ha dichiarato in un’intervista a Slate che in parte volevano affrontare la questione della disintegrazione del sistema, della società, ma anche che sono partiti dall’idea che il male (evil in inglese) continua a esistere, indipendentemente dai desideri della Paramount+, rete televisiva che manda in onda le puntate. “Quindi, per definizione, se il male continua a esistere, la storia continua a esistere”. Ci auguriamo davvero possa farlo anche sui nostri teleschermi. 


venerdì 6 settembre 2024

SOMEBODY SOMEWHERE: la seconda stagione

Somebody Somewhere ha saputo regalare una seconda stagione anche migliore della prima.

Il legame di amicizia fra Sam (una luminosa Bridget Everett) e Joel (Jeff Hiller) è stato l’asse emozionale portante. In questa stagione vivono temporaneamente insieme perché Joel ha affittato la sua casa come Airbnb. La loro amicizia è così autentica e profonda che quasi non sembra scritta: condividono i pasti, le passeggiate di 10.000 passi in cui commentano allegramente chi vedono, e raggiungono un “nuovo livello di intimità” quando entrambi hanno un attacco di diarrea sincronizzato (2.02) che fa sbellicare dalle risate. Con sceneggiatori meno abili sarebbe stato qualcosa di volgare e scadente, ma qui lo humor è talmente naturale e giocoso che ha solo il potere di renderci complici di un momento insignificante che in realtà significa tutto. E i due interpreti hanno un’invidiabile intesa sul set.  

Sam nel corso di questo arco si avvicina anche di più alla sorella Tricia (Mary Catherine Garrison), che ha divorziato e la cui figlia è partita per il college, e le due trovano sostegno l’una nell’altra. Affrontano insieme la madre alcolista Mary Jo (Jane Brody) che ha avuto un infarto e si trova in un centro assistito – nessuna delle due vuole vedere lei e in realtà lei pure non vuole vedere nessuna delle due; nascono momenti di imbarazzo. L’interprete del padre, Ed (Mike Hagerty), è mancato prima delle riprese e la sua assenza è stata giustificata dalla storia dicendo che se ne era andato a trovare il fratello lasciando a loro il compito di gestire la fattoria – con una nota di tristezza ripuliscono il granaio, una vita che si chiude. Tricia, tradita, da quella che era la sua migliore amica, si re-inventa, professionalmente come organizzatrice di eventi e con un business di cuscini nato casualmente, con scritte piene di parolacce ispirate in modo divertente dagli insulti rivolti alla sua ex-amica: non solo l’ha tradita, ma dice in giro che ci ha provato con suo marito, cosa vera, ma omettendo di essere stata lei per prima prima a portarsi a letto il suo.

Questi due legami riescono a dare un centro di gravità a Sam, che sente meno la solitudine. Dolori e risate, dolcezza e amarezza si mescolano costantemente per i personaggi e in modo fluido. La puntata finale giustappone bene una volta in più questa doppia anima del programma: ha il triste funerale dell’insegnante di canto di Sam e l’allegro matrimonio di Fred Rococo (Murray Hill), il comune amico che li ha invitati per la cerimonia in cui si è unito alla sua fidanzata Suzie. A Joel era stato chiesto di celebrare la funzione, a Sam di cantare, e i preparativi per la grande giornata punteggiano la stagione. 

Le emozioni di Sam sono sempre in superficie e crude. Ne viene sopraffatta quando riprende le lezioni di canto per prepararsi in vista delle nozze, ne viene schiacciata e rimane ferita quando si sente umiliata tanto da Joel quando da Tricia che le hanno nascosto informazioni estremamente significative nel timore che non fosse in grado di accettarle: lui non le ha rivelato che ha iniziato una relazione con Brad (Tim Bagley), che in passato prendevano in giro insieme, e lei le ha tenuto nascosto e si è fatta sfuggire solo per errore che la loro sorella defunta in realtà si era ammalata a 47 anni, e non a 48 anni come credeva lei. Le sue insicurezze rialzano la testa e la mostrano in tutta la sua vulnerabile umanità.

La grandezza della serie ancora una volta sta nel non avere bisogno di storie pirotecniche o grandi eventi per mostrare quanto dolorose sono le ferite della vita, ma di riuscire a farlo emergere da situazioni minime. Umorismo amaro sgorga dai momenti dolorosi, ma gioia e autentico divertimento si innescano da reale condivisione di momenti di vita. Si sa essere seri e impertinenti e c’è la sensazione che si voglia mostrare la vita per quello che è, bella e brutta insieme, e con il positivo e negativo che non sono nemmeno separabili in molti casi, ma coesistono essenzialmente.

Il programma ha come sottofondo anche il tema della guarigione emozionale, che non è istantanea, ma richiede tempo, e pazienza, necessità che gli autori sanno concedersi. Si scava nel personale, con autenticità, anche con un ritmo ben misurato.

Con gioia ho appreso che la serie è stata rinnovata per una terza stagione. Sarà però l’ultima. Negli USA debutta il prossimo 27 ottobre. 

martedì 27 agosto 2024

HOUSE OF THE DRAGON: la seconda stagione

Personalmente ho trovato appagante la seconda stagione di House of the Dragon (HBO, sky Atlantic) che ha una sua identità diversa dal Trono di Spade, pur essendone chiaramente una costola, ambientata circa 200 anni prima, anche se molti sono rimasti delusi soprattutto da una conclusione anticlimatica o comunque priva degli eventi significativi che speravano.

ATTENZIONE SPOILER

Ci sono due schieramenti contrapposti della famiglia Targaryen che regna a Westeros. Da un lato ci sono i Verdi, attualmente al potere: ad Approdo del Re il figlio maggiore della regina vedova Alicent (Olivia Cooke), Aegon (Tom Glynn-Carney), è il sovrano: è giovane, insicuro e inesperto, ma vuole fare di testa sua. La madre lo sostiene convinta che il defunto marito volesse effettivamente lui sul trono. Nonno Otto (Rhys Ifans) lo consiglia, ma nella sua irruenza il ragazzo crede di saper meglio lui che cosa è giusto fare e lo licenzia senza mezzi termini. Inoltre decide di andare in battaglia lui stesso, guidando un drago, ma il tradimento del fratello minore Aemond (Ewan Mitchell), che vuole per sé il potere, lo riduce a un invalido perennemente sofferente, situazione che consente a Larys Strong/"Piededuro" (Matthew Needham) di avvicinarsi a lui come consulente. Il popolo è scontento perché affamato ed è tenuto all’oscuro delle effettive condizioni del regnante.

Dall’altro lato nella pretesa al trono ci sono i Neri, rappresentati dalla regina Rhaenyra (Emma D'Arcy), legittima erede di Viserys I. Spetterebbe a lei  sedervisi, per volontà paterna, e se Alicent è convinta del contrario è solo perché ha mal interpretato i vaneggiamenti del marito morente. Rhaenyra vorrebbe riconquistare il ruolo che le spetta, anche con la forza se è necessario, ma rimane cauta perché ha ereditato dal padre 80 anni di pace e non vuole mettervi fine con leggerezza. I consiglieri vorrebbero che si mettesse da parte, anche perché donna, ma lei ha la stoffa per governare e intende farlo. Il marito Daemon (Matt Smith) si reca da altri signori del regno per chiedere sostegno e raccogliere alleanze per un esercito, mentre a Roccia del Drago lei, che fino in ultimo non sa se poter contare sulla lealtà del marito, arruola nuovi Cavalieri di Draghi fra i “bastardi”, una cosa mai fatta prima, dal momento che solo chi ha sangue Targaryen è in grado di farlo, ma fino ad ora per cavalcare questi esseri considerati alla stregua di dei erano solo stati scelti mobili di nascita legittima. La cosa non aggrada molto al figlio Jacaerys (Harry Collett). Fra i consiglieri di Rhaenyra, c’è Mysaria (Sonoya Mizuno), ex-prostituta.

La guerra civile è inevitabile, e si condensa bene nella sorte che spetta ai membri della Guardia Reale Arryk and Erryk Cargyll (Luke ed Elliott Tittensor), costretti a combattere l’uno contro l’altro.

La puntata più appassionante della stagione è stata indubbiamente “Il drago rosso e il drago dorato” (2.04) scritta da Ryan Condal e con la regia di Alan Taylor, e questo anche perché si vedono all’opera i draghi, aspetto epico che è sempre un appassionante piacere, ma soprattutto perché c’è una lotta senza esclusione di colpi in cui perde la vita Rhaenys (Eve Best), la regina che non fu, oltre che il tradimento di Aemond che colpisce il fratello. Tuttavia come ci viene ricordato da Mysaria nella puntata successiva (2.05) “esiste più di un modo per combattere una guerra”, non solo attraverso le armi. È stato criticato da qualcuno che non è realistico che si cerchi così persistentemente la pace, perché non sarebbe stato così in epoca medievale. L’accusa sarebbe di essere “troppo morali”, anche rispetto al fatto che il popolo si lamenta dell’abbondanza dei regnanti quando loro muoiono di fame, nella convinzione che certe disparità socio-economiche erano considerate nell’ordine delle cose in quelle epoche e per questo non contestate. Ammesso anche che sia vero, l’obiezione non ha fondamento per il fatto che siamo in un mondo immaginario, non reale, per quanto ispirato magari al nostro medioevo – in proposito si veda questo interessante video di iStorica in cui si spiega come la serie si ispiri all’Anarchia, una guerra di successione che divise per vent’anni l'Inghilterra nel XII secolo. E poi, delle tante licenze poetiche che si possono prendere, quella di carcare di preservare la pace un po’ più a lungo non sarà eventualmente certo un problema, soprattutto viste tutte le critiche di eccessi di violenza che macchiavano la serie madre, e lo stesso vedere i poveri che si lamentano della propria situazione criticando l’atteggiamento dei ricchi.

Semmai è più ragionevole lamentarsi della Siberia narrativa in cui è stato Daemon che, separato dal resto del cast principale, si è trovato ad Harrenhal ed è stato tormentato tutto il tempo da allucinazioni e incubi visionari, da una giovane Rhaenyra (Milly Alcock) fino a scene che iniziano con un montaggio in cui lo si vede far sesso con una donna e in cui si capisce alla fine che si tratta di sua madre Alyssa Targaryen (Emeline Lambert), che molti hanno trovato tediose e in quest’ultimo caso disturbante. Se concordo che fossero abbastanza sottotono, ne capisco il valore per il personaggio per il cui il viaggio è soprattutto spirituale e lo porta alla fine della stagione a confermare la sua lealtà alla moglie. La sua assenza però, soprattutto dinanzi al pungolo di una guerra imminente, è vero che si è fatta sentire. E ha brillato la determinazione dell’adolescente Ser Oscar Tully (Archie Barnes), che in parecchi hanno già definito la versione maschile di Lyanna Mormont, nel gestire Daemon.

Tutti, non solo me compresa ma George Martin compreso (si legga qui), hanno trovato assolutamente adorabile un piccolo personaggio che è stato aggiunto nella versione televisiva, il cane di Formaggio, un ammazzatopi che Daemon aveva assoldato, insieme alla guardia cittadina Sangue, per uccidere Aemond. Il piano fallisce e al posto viene scozzato il principino Jaehaerys prelevato dal proprio lettino. Formaggio viene impiccato e l’adorabile cagnolino lo si vede fedele fino in ultimo. Il pubblico si è arrabbiato di più per il fatto che Formaggio a un certo punto gli ha tirato un calcio che non per il bambino umano assassinato. Scrive bene Martin: “quel cane è stato fantastico. Ero pronto a odiare Formaggio, ma l'ho odiato ancora di più quando ha preso a calci quel cane. E poi, quando il cane si è messo ai suoi piedi, con lo sguardo rivolto verso l'alto... mi ha quasi spezzato il cuore. Una cosa così piccola... un cane così piccolo... ma la sua presenza, i pochi brevi momenti in cui era sullo schermo, hanno dato all’ammazzatopi così tanta umanità. Gli esseri umani sono creature così complesse. La presenza silenziosa di quel cane ci ha ricordato che anche il peggiore degli uomini, il vile e il venale, può amare ed essere amato”. Mi aggiungo alle voci di coloro che vorrebbero che gli autori trovassero un modo per farlo ricomparire con una coda scodinzolante, da qualche parte.

In ogni caso ad affascinare sono stati soprattutto i rapporti fra le persone. Egon-Aemond. Si è tanto parlato della scena di nudo frontale di Ewan Mitchell (2.03), ma se è stato tanto significativo è perché vediamo che Aemond se ne va senza veli quando Aegon lo schernisce mentre è a letto con una prostituta. Alicent – Rhaenyra. Io non ci vedo la tensione lesbica che alcuni ci leggono, leggere sempre tutto in termini sessuali mi pare mancanza di fantasia, ma il loro rapporto di ex-amiche, due donne su schieramenti opposti è un asse portante. Rhaenyra-Mysaria. Si è dato vita a una complicità femminile notevole che qui sì può avere senso sia sfociata in un bacio. Aegon-Larys…

Chi vuole solo azione, guerra e sangue, questa stagione sarà moscia, più di preparativi e attesa che altro, ma narrativamente è stata solida. 

lunedì 19 agosto 2024

THE GOOD DOCTOR: una series finale inclusiva

Con una settima stagione più corta delle altre (solo 10 episodi) The Good Doctor (ABC, Rai2) ha chiuso il suo corso con una series finale delicata ed appropriata.

SPOILER SULLA FINALISSIMA

L’arco conclusivo ha visto il dottor Shaun Murphy (Freddie Highmore) dibattersi davanti a due casi importanti per cercare di salvare da un lato il Dr. Aaron Glassman (Richard Schiff), suo mentore e figura paterna, a cui era tornato il cancro, e dall’altro l'amica di sempre, la dottoressa Claire Browne (Antonia Thomas), alle prese con una grade infezione, rientrata negli USA per farsi curare anche lei per un cancro, in questo caso al seno, proprio per questo ultimo atto, dopo lunga assenza giustificata dal fatto che alla fine della quarta stagione aveva deciso di trasferirsi in Guatemala per seguire una clinica lì. Per il primo purtroppo è calato il sipario, e il programma lo ha espresso in modo molto elegante, semplicemente mostrandoci Sean su una giostra da solo; la seconda ha avuto più fortuna, grazie proprio alla brillantezza dei propri colleghi e al sostegno di un ritrovato Jared Kalu (Chuku Modu), nonostante la perdita non indifferente di un braccio.

La serie ha detto ormai quello che aveva da dire: si è portata consapevolezza su alcune problematiche dell’autismo e, come ha rilevato in più di un’intervista l’attore protagonista, si è riusciti a mostrare come anche le persone con autismo possano cambiare ed evolversi , così come le persone neurotipiche. Nella settima stagione si è pure potuto vedere il dottor Murphy nel ruolo di padre. L’evento più significativo è stata la prematura scomparsa del dottor Asher Wolke (Noah Galvin) a causa di un violento attacco omofobico, proprio a ridosso del fidanzamento con Jerome Martel (Giacomo Baessato). E sono stati introdotti due nuovi studenti praticanti, la dottoressa Charlie Lukaitis (Kayla Cromer), pure lei nello spettro dell’autismo e che idolatra Shaun, anche se lui non la vede con lo stesso favore, e Dominick “Dom” Hubank (Wavyy Jonez), molto in difficoltà di  fronte alla vista del sangue.

Già in corso di via si è notato l’impegno a chiudere le vicende. Con l’avvicinarsi della conclusione già avevano dato il lieto fine per altri personaggi come la dottoressa Morgan Reznick (Fiona Gubelmann) e il dottor Alex Park (Will Yun Lee) che si sono finalmente sposati. Della finalissima, che è stata appropriatamente intitolata “Goodbye” (7.10), erano le ultime battute quelle di cui ero più curiosa, vedere in che modo si sarebbe scelto di dire l’addio definitivo al San Jose St. Bonaventure Hospital. Si è andati nel futuro. Nella coda di quella che diversamente sarebbe stata una puntata come le altre, vediamo  Shaun impegnato in un TED Talk – sullo sfondo appaiono i nomi dei pazienti che ha aiutato nella sua carriera: gli effettivi nomi dei personaggi con cui ha interagito nel corso delle puntate; Adam, il primo che compare, è quello che ha salvato nel pilot. Ascoltando il suo discorso, pronunciato in onore del  dottor Glassman, e vedendo chi è presente, veniamo a sapere “come sono andate le cose”: è diventato primario di chirurgia; ha aperto insieme Claire  una fondazione per promuovere la presenza medici neurodivergenti, la Dr. Aaron Glassman Foundation for Neurodiversity in Medicine; con Lea (Paige Spara) ha avuto un altro figlio, una bambina questa volta…Più o meno tutti sono fra il pubblico. La dottoressa Audrey Lim (Christina Chang) la vediamo pronta a partire con “Surgeons for a Better World" per un’altra opportunità lavorativa e la dottoressa Bria Samoné Henderson vediamo che si è sposata con Danny Perez (Brandon Larracuente).

C’è stato insomma un lieto fine che ha cercato di non lasciare fuori nessuno e ci è riuscito. Forse questi personaggi mancheranno, ma ha chiuso in modo appagante e in linea con quello che la serie è stata in questi anni: un appuntamento gradevole che ha sostenuto l’inclusività.

venerdì 9 agosto 2024

LA REGINA CARLOTTA: uno spin-off di Bridgerton

La regina Carlotta (Netflix), la serie che ha debuttato il 4 maggio 2023, con molta consapevolezza adotta il sottotitolo Una storia di Bridgerton. La ragione non è solamente che è, appunto, uno spin-off di Bridgerton, ma che sebbene sia ispirata infatti alle vicende della Regina consorte del re del Regno Unito, Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, non è storia vera, è una rilettura rosa che si prende molte licenze poetiche.

La più significativa di tutte è che molti studiosi ritengono fondatamente che la regnante avesse un'eredità culturale mista e fosse nera, ma questo è stato spesso insabbiato. La serie, che non a caso è stata ideata e prodotta da Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy), si è invece chiesta che cosa sarebbe successo se la società avesse accolto queste differenze invece di ignorarle e negarle e avesse elevato le persone nere (o di colore in senso più ampio) a posizioni e ranghi di rilievo. Nelle vicende ci si riferisce a questo come al “grande esperimento”, che non è avvenuto nella realtà, ma nella fantasia degli autori che reimmaginano come sarebbe potuto essere il mondo se fosse stata fatta una scelta simile. Urge domandarsi che tipo di valore epistemologico abbia un simile esperimento, in questo caso non sociale ma narrativo, se ne abbia uno al di là della mera soddisfazione di un mondo più equo almeno nella fantasia e dell’aprire la mente ad immaginarlo come possibile.

Queen Charlotte si muove fra due assi temporali: uno nel 1817, il presente di Bridgerton (si è debuttato fra la seconda e la terza stagione di questa), in cui la regina (Golda Rosheuvel) fa pressione sui suoi numerosi figli perché si decidano a fornirle un/a erede al trono – nella realtà, solo il quarto è stato in grado di produrne uno, quella che poi sarebbe diventata la regina Vittoria, quando lei era ormai scomparsa; uno nel 1761, che ci fa scoprire la backstory di Carlotta, quando giovanissima (una perfetta India Amarteifio) viene data in sposa dal fratello Adolfo (Tunji Kasim), a un uomo che non conosce nemmeno, re Giorgio III (Corey Mylchreest, e se nel suo scarnissimo curriculum ha interpretato Adone in The Sandman è perché brutto non è, mettiamola così), conosciuto dalla storia come il “re pazzo”.  

Le vicende, che portano tutte la regia di Tom Verica (che per me sarà sempre il papà nella rimpianta serie American Dreams), si concentra sullo spaesamento delle nuova venuta e sul matrimonio con il re che mal vive la pressione del suo ruolo. Vorrebbe poter essere “solo Giorgio”, dedicarsi alla scienza, all’astronomia e all’agricoltura e non agli impegni imperiali che gravano su di lui, anche perché periodicamente ha episodi psicotici. Ufficialmente si dice che soffrisse di porfiria, ma oggidì si sono avanzate altre ipotesi (avvelenamento da arsenico, disturbo bipolare, problemi psichiatrici di altra natura). Sebbene nella sue fasi buone il consorte fosse amabile e affascinante, il pubblico empatizza subito con la neo-arrivata che si ritrova a dover far fronte a comportamenti inspiegabili che la lasciano profondamente triste e sola, anche perché per questi non vi è alcuna spiegazione. Quando la spiegazione arriva (dedicando una puntata a “riempire i vuoti” che c’erano dall’aver visto la sola prospettiva di lei al comportamento di lui, mostrando così l’immagine completa) si soffre con il paziente che si fa sottoporre a letterali torture da un medico sadico che promette di guarirlo, pur di star meglio, e si ha nuovo rispetto per Carlotta che gli sta vicino e fornisce il balsamo migliore con il suo amore. E se la “malattia mentale” è tabù e si brancola nel buio ora, immaginarsi fra ‘700 e ‘800.

Personalmente non ho mai avuto in particolare simpatica il personaggio della regina, troppo capricciosa e distante per i miei gusti, né al di là di questo aspetto in fondo irrilevante l’ho mai trovata degna di un secondo sguardo. Eppure, questo approfondimento l’ha davvero umanizzata e resa vulnerabile e amabile: una donna risoluta, forte, ma mossa da cervello e cuore al posto giusto, si direbbe. E allo stesso tempo si è dato ampio e gradito rilievo ad altri personaggi: la dinamica, frizzante Lady Agatha Danbury (Adjoa Andoh), che diventa presto la migliore amica della regina, ma che era inizialmente (Arsema Thomas) incastrata in un matrimonio con un uomo molto più vecchio di lei e alla sua morte si era innamorata niente meno che del padre della giovanissima Violet (Connie Jenkins-Greig), che ora conosciamo come la viscontessa madre di tutti i Bridgerton (Ruth Gemmell) e assistiamo a come è nata quella amicizia e le vediamo ora vedove confidarsi sul proprio “giardino” (il luogo principe del piacere sessuale insomma), sulla solitudine e le relazioni; e, grande sorpresa, scopriamo un giovane Brimsley (Sam Clemmett), segretario e valletto personale della regina, sempre pochi passi dietro a lei: siamo abituati a vederlo ritto accanto a lei (Hugh Sachs) ormai anziano, ma è magnifico infilarsi nei ricordi che lo vedono avere una romantica storia con Reynolds (Freddie Dennis), segretario e valletto del re, e scoprire quello che i due hanno fatto per la coppia di cui sono fedelissimi servitori. Plot secondari molto ben calibrati. La voce di Lady Whistledown (Julie Andrews in originale, Melina Martello nella versione italiana) assicura continuità. L’ampiamento del worldbuilding dell’epoca antecedente a quella Regency in cui abbiamo conosciuto i personaggi è appagante per chi segue le vicende.

In costumi mozzafiato e gloriose ambientazioni, non mancano balli e occasioni mondane, l’attesa riflessione su protocolli e convenzioni sociali, e c’è naturalmente il classico must del genere rosa in cui lui confessa di non poter vivere senza di lei, ragione di vita, con un fluire di sentimenti e passione che non si riescono a trattenere. Però si va oltre: Carlotta acquisisce progressivamente consapevolezza della sua posizione e del suo ruolo, così come Agatha sa mantenersi in buon equilibrio facendo valere i propri interessi, ma allo stesso tempo mantenendosi fedele all’amicizia con la regnante. E non c’è l’asettico “vissero felici e contenti”, ma vissero felici nella misura in cui le circostanze della vita lo hanno consentito, che vista la malattia di lui non è stata poi così generosa. In mezzo a tanta fantasia, un nocciolo amaro che non ha reso meno apprezzabile la serie, anzi. Molti l’hanno salutata come la migliore. Non disdegnerei altre incursioni del passato dei personaggi con appositi spin-off.

martedì 30 luglio 2024

DEAD BOY DETECTIVES: un teen drama sovrannaturale scacciapensieri

   

Sarà che non conoscevo in precedenza i personaggi di Dead Boy Detectives, ideati originariamente da Neil Gaiman e Matt Wagner per la DC Comics, per cui avevo aspettative su come dovessero essere, ma ho trovato gustosissima questa serie gotico-sovrannaturale portata da Steve Yockey su Netflix dopo che inizialmente doveva debuttare su HBO Max. Poi il ritmo è diventato più tradizionale, ma nel pilot è stato così incalzante per me, e con il plot segmentato in momenti con una titolazione apposita che ne scandisce le parti che conserva anche in seguito, che ho pensato che era proprio adatta alla generazione attuale che vuole momenti agili “spelled out”, esplicitamente spiegati rispetto a quello di cui tratteranno. Una forte mitologia e protagonisti affascinanti testimoniano il talento di Gaiman, ma mi hanno anche fatto ripensare a Buffy. Non è a quel livello come serie, ma nessuno vieta che possa crescere. Gagliarda anche la sigla.     

Protagonisti sono due fantasmi di ragazzi poco più che adolescenti: Edwin Payne (George Rexstrew) che è finito all’inferno, dopo che i suoi compagni di college nel 1916 lo hanno offerto in sacrificio, e dopo decenni di torture è riuscito a scappare; e Charles Rowland (Jayden Revri), ragazzo punk dell’era Thacheriana già oggetto di abusi domestici da parte del padre, morto nel 1989 a seguito di bullismo da parte dei compagni di classe per ipotermia ed emorragia interna. Se il primo è ingessato e un po’ saputello, il secondo è apparentemente sempre di buon umore. Cercano di scampare alla Morte (Kirby Howell-Baptiste), e intanto gestiscono una loro agenzia per risolvere casi sovrannaturali, per aiutare spesso i defunti a lasciare finalmente questo piano di realtà in cui sono intrappolati seppur morti e raggiungere l’aldilà. Un giorno si rivolge a loro una ragazza medium, Crystal Palace (Kassius Nelson), che come tale è in grado di vederli, a cui ha rubato la memoria un demone, David (David Iacono). Presto si unisce al duo e si spostano per un caso da Londra a Port Townsend, Washington, dove rimangono bloccati (solitamente riescono a spostarsi da un luogo all’altro attraverso gli specchi). Crystal affitta una stanza sopra la macelleria Tongue & Tail gestita da  Jenny Green (Briana Cuoco) e fa amicizia con un’altra affittuaria, la confettosa Niko Sasaki (Yuyu Kitamura), che a causa di un’esperienza di pre-morte pure riesce a vedere Edwin e Charles e diventa ufficiosamente parte di un quartetto.

Nella cittadina americana hanno a che fare con una serie di personaggi ricorrenti, che aggiungono fascino a questa serie adolescenziale: hanno feroci scontri con Esther Finch (Jenn Lyon), una strega immortale che fa di tutto per rimanere giovane, e che ha trasformato il suo corvo in un attraente ragazzo Monty (Joshua Robert Colley) per avvicinarsi a loro per distruggerli; devono eludere la Night Nurse (Ruth Connell), che si occupa del dipartimento di soggetti smarriti dell'Aldilà che cerca di individuarli per riportarli dove ritiene debbano stare, e il Re dei Gatti (Lukas Gage), che si è invaghito di Edwin; il solo ad aiutarli in qualche occasione è Tragic Mick (Michael Beach) un tricheco diventato uomo che rimpiange la sua forma passata e che gestisce un negozio di oggetti magici.

Uno degli aspetti migliori della serie è l’amicizia fra i due protagonisti, entrambi con un passato tragico alle spalle e che ci sono sempre l’uno per l’altro; le due ragazze si sono unite in seguito, ma Chrystal in particolare si è integrata subito. Molto spassoso è stato come hanno giocato sull’omosessualità repressa di Edwin in considerazione che, oltre alla naturale timidezza, proviene da un’epoca diversa dalla nostra. Si è riuscito a flirtare un po’ con i doppi sensi, che inizialmente lui non coglieva o con cui si sentiva a disagio, per arrivare progressivamente a un riconoscimento di se stesso che è stato comunque intenso e delicato.

Si sono ben amalgamate le classiche tematiche adolescenziali e tropi del genere (ad esempio l’amore non corrisposto) a quelle gustosamente horror, ma non con l’estetica macabra che pare caratterizzasse il lavoro di Gaiman, ma più giocoso  - un leggero steampunk incontra Heath Robinson, dice bene il Guardian - e di fatto però anche trascurabile. Quello che motiva la missione della Dead Boy Detective Agency è ha un che di amaro: le loro morti non avevano importanza e nessuno le ha mai risolte e loro vogliono di garantire che altre anime non vengano dimenticate come loro e così, fra mostri, demoni e spiritelli dispettosi dei denti di leone che possono essere conservati in un barattolo, risolvono il caso della puntata, accumulando anche una mitologia molto densa.

Un perfetto scacciapensieri: una serie pop-corn che spero rinnoveranno perché intendo proseguirla.

sabato 20 luglio 2024

THE NEW LOOK: creare è sopravvivere

Mi aspettavo si parlasse molto di più di moda, nella serie The New Look (AppleTV+), che ha come protagonisti Christian Dior e Coco Chanel, invece inaspettatamente ma come è presto evidente dalla sigla del programma, molta dell’attenzione è rivolta alla seconda Guerra Mondiale: a quello che nel contesto di questo evento storico è accaduto intorno ai personaggi, al senso della loro professione in simili tempi e circostanze e ai compromessi con cui questi due creatori di haute couture sono dovuti scendere a patti, in qualche caso. Non che non ci sia spazio in ogni caso anche per le creazioni sartoriali. Lo stesso titolo della serie deriva dalla definizione che di una collezione di Dior del 1947 è stata fatta da Carmel Snow (Glenn Close), capo-redattrice dell’edizione americana di Harper’s Bazaar che, assistendo alla prima sfilata dello stilista a Parigi, ha esclamato: “It's such a new look!”. 

Ispirata a eventi reali, la serie esordisce in una prestigiosa cornice: Dior (un sempre spettacoloso Ben Mendelsohn, Bloodline) è stato invitato alla Sorbonne davanti ad un gruppo di studenti che gli pongono delle domande. Una ragazza gli chiede se è vero che Coco Chanel (una risoluta, dinamica, impeccabile Juliette Binoche) ha chiuso la sua attività durante la guerra, mentre lui ha vestito le mogli della gerarchia hitleriana. Anche Cristóbal Balenciaga si è rifiutato, sottolineano, a cui fra parentesi è stata dedicata un’altra recentissima serie TV (Disney+). Gli organizzatori vorrebbero che non si sollevasse la questione, ma lui accetta di rispondere. Partono così le vicende che mostrano molti più chiaroscuri che non una divisione manichea in bianco e nero.

Allora lui lavorava per l’atelier di Lucien Lelong (John Malkovich), che in effetti ha scelto di continuare la propria attività e ha vestito le donne naziste, anche se umanamente fa la figura del gran signore in tutto il corso della narrazione; Dior ha utilizzato però i guadagni per finanziare la sorella, Catherine (Maisie Williams, la Arya di Game of Thrones, che brilla nelle atrocità che deve subire, del resto ha avuto una buona scuola, verrebbe da dire), membro della resistenza, poi catturata, torturata e finita nel campo di concentramento di Ravensbruck, e ha fatto di tutto per aiutarla. Coco Chanel dal canto suo non ha tenuto aperto il suo negozio, ma ha avuto relazioni e problematici contatti con persone legate al regime, come Hans von Dincklage (Claes Bang), detto “Spatz,” e si è cercato di reclutarla come spia insieme all’amica Elsa Lombardi (Emily Mortimer, che racchiude in sé un paio di amiche dell’icona della moda), tanto che aveva un suo nome in codice e a lungo non è potuta rientrare nella capitale francese perché sospettata di collaborazionismo, anche se lei ha sempre negato e si vede che la torbidità della sua posizione è dettata più dalle circostanze che da una presa di posizione. Però, per poter accedere al proprio conto bancario che le era precluso si è avvalsa delle leggi ariane a detrimento dei propri soci ebrei. Il mondo che si ritrae è perciò difficile, e si evidenzia come, ad essere in una posizione di rilievo, talvolta non si riesce a districarsi dal potere anche volendo.

Nella Francia del secondo conflitto mondiale ci ha portato di recente Transatlantic, ed è stato inevitabile, in qualche caso, ripensarci. In The New Look, ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damages), si è molto più crudi: la serie non distoglie lo sguardo degli orrori della guerra. Quando Coco si ritrova a cena con Heinrich Himmler (Thure Lindhardt) si rabbrividisce a sentirgli dire come il loro obiettivo fosse di eliminare il loro senso di appartenenza, quindi le loro cose, quello che possevedavo e poi la loro dignità, la loro speranza, l’anima. È difficile assistere alle torture a Catherine, anche nella misura in cui in sono in fondo solo accennate – non ci si compiace nel mostrare le situazioni più abbiette, ma si percepisce l’autentica mostruosità di quanto è accaduto, e si soffre dell’ansia e della paura di Christian che non sa che cosa sia capitato alla sorella. Perfino il suo ritorno, giustamente, mostrava i segni della tragedia vissuta sulla propria pelle e nella propria mente. La sorte delle collaborazioniste, rapate a zero e insultate e infamate per la strada dopo la liberazione, incarnate una per tutte dalla famosa attrice Arletty, paiono un inferno del contrappasso (1.04). Il ritorno spettrale dei sopravvissuti è accolto con lo sgomento nell’osservare la realtà che sopraffà la gioia (1.05). Non è solo uno sfondo, è parte essenziale della narrazione.

Allo stesso tempo la moda come arte è vista come atto creativo di riscatto, mezzo di sopravvivenza, tentativo salvifico di andare avanti e di offrire speranza attraverso la bellezza. Questo è quello che si ripropone Dior, timido, riservato, non grande amante di un accesso di attenzioni. Vuole provare emozioni, sognare, vivere, costruire un nuovo mondo attraverso la propria elegante inventiva. Vive nell’atto di disegnare e creare i propri abiti, non gli interessa la fama, se non come scotto per poter fare quello che ama fare. Ha uno smisurato talento, ma sono gli altri che sanno più di lui metterlo economicamente a frutto. E se, terminata la guerra, in tutta la Francia non c’è stoffa da confezionare abiti veri e ci si deve accontentare di vestire delle bamboline-manichino, che al teatro della moda ricevono 100.000 visitatori, quando ha l’opportunità di avere un proprio atelier, complice il mecenatismo di un danaroso re de cotone, rimane l’uomo corretto che non sottrae le modelle ai proprio colleghi, ma preferisce scegliere una prostituta presentatasi insieme a molte, dopo un annuncio messo sul giornale. Deve rassegnarsi a sottrarre ai colleghi le sarte, ma anche lì poi si giunge a un compromesso. La rivalità non è mai fare lo sgambetto agli altri, domina la correttezza, l’amicizia sincera, un’etica del lavoro che insegna a perseverare con dignità. E ci tiene immensamente alla famiglia, che sia la sorella a cui dedica la sua prima fragranza, Miss Dior – e confesso che la prossima volta che vado in profumeria mi fermerò ad annusarla pensando alla serie, conoscendone l’origine -, che sia il fratello che si trova in un sanatorio (l’ospedale psichiatrico dell’epoca) o il compagno (che si vede molto poco in realtà, ma è presente).

Diversamente dagli abiti degli stilisti ritratti, la serie ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damagesnon lascia a bocca aperta. La recitazione è impeccabile, ma i dialoghi potrebbero essere più incisivi e c’è una tendenza a sovraspiegare. Quando muore il padre di Christian (1.08), che poco prima gli aveva chiesto di andare a trovarlo, cosa che lui aveva rimandato di fare perché troppo pieno di lavoro, piange la sua morte e si arrabbia con se stesso. Non serviva che rimettessero in voiceover la conversazione avuta fra i due poche scene prima: ci arriviamo da soli che parte della sua reazione è il rimpianto di non aver acconsentito alla richiesta del padre. Questo accade troppo spesso. Una prevista seconda stagione è in ogni caso benvenuta.