giovedì 31 dicembre 2020

La LISTA DELLE LISTE dei migliori programmi del 2020

Come ogni anno Metacritic compila una lista delle liste con il meglio della produzione dell’anno appena trascorso secondo le liste di fine anno dei critici televisivi delle maggiori testate.

Qui trovate il report con l’indicazione dei criteri con cui la lista è stata compilata. La lista viene aggiornata fino a fine gennaio per cui può subire variazioni nel tempo e conviene andare sulla pagina ufficiale per vedere il risultato finale.

Al mio scrivere, i migliori programmi TV del 2020, sono stati giudicati:

1. I May Destroy You

2. Better Call Saul          

3. The Queen's Gambit

4. Ted Lasso      

5. Normal People           

6. Mrs. America               

7. What We Do in the Shadows

8. Schitt's Creek              

9. How to With John Wilson

10. The Mandalorian

11. The Crown

12. The Last Dance

 BoJack Horseman

14. The Good Lord Bird

15. Better Things

16. PEN15

17. The Boys

18. The Great

19. Lovecraft Country

20. Never Have I Ever

 P-Valley Starz

22. The Good Place

23. City So Real

24. Small Axe

25. The Baby-Sitters Club

 I Hate Suzie

 Harley Quinn DC Universe

domenica 27 dicembre 2020

LE MIGLIORI NOVITÀ del 2020, secondo me

 

Chi mi segue da tempo sa che a fine anno non indico mai quelli che per me sono i programmi migliori dell’annata, ma restringo la mia lista a quelli nuovi che valuto meritevoli, per quanto produzioni già avviate in precedenza riservino indubbiamente ottime visioni. Per il 2020 non potrei prescindere da The Crown, Sex Education, Ramy, The Good Fight, l’Amica Geniale, After Life e con ogni probabilità diversi altri programmi ancora.


 Ma ecco le migliori novità, secondo me.  

Normal People: forse perfino meglio del già fantastico libro. Per me quest’anno ha svettato su tutto. Ne ho parlato qui.

The Great: esilarante come poche. Prima di Normal People credevo che per me avrebbe avuto il podio. Qui la mia recensione.

I May Destroy You: una argomento scomodo e un personaggio respingente, ma una serie notevole – qui quello che ne ho pensato.

Mrs America: la storia del femminismo che merita di continuare a venire raccontata: qui.

Unorthodox: non tornerà perché era una miniserie, ma potente. Qui il mio post.

Little America: una serie antologica – ne ho scritto qui.

Lovecraft Country: ovvero quando il risveglio delle coscienze al razzismo impone di riscrivere la narrativa con cui si descrivere la realtà: qui.

I Hate Suzie: conto di parlare prossimamente di questa serie britannica in 8 puntate in cui Billie Piper, anche co-autrice, interpreta un’attrice la cui vita viene sconvolta quando un hacker ruba dal suo cellulare delle foto compromettenti di natura sessuale.

The Hunting of Bly Manor: la seconda incarnazione di The Haunting, serie antologica dedicata ad ogni stagione ad una diversa magione, è questa volta ispirata a un romanzo di Henry James e riesce a coinvolgere e ad andare al di là del racconto di genere. Già la prima stagione mi era piaciuta (sebbene non ne abbia mai scritto), questa altrettanto.


E una menzione onorevole va a:

Zoey’s Extraordinary Playlist: ne ho parlato qui solo al debutto, ma è cresciuta nel tempo e continuerò sicuramente a seguirla.

Never Have I Ever: Non ho avuto ancora occasione di scriverne, ma questa serie per adolescenti è realizzata con garbo ed è appropriata all’età.


Purtroppo, come sempre, e forse anche di più, dato il moltiplicarsi delle produzioni, alcune serie, che da quello che leggo potrei ritenere meritevoli, semplicemente non ho ancora avuto l’occasione di vederle. Penso a titoli come The Queen’s Gambit, The Good Lord Bird, P-Valley, The Boys


martedì 22 dicembre 2020

DASH & LILY: romantico e natalizio

 

Più che una serie è un film espanso diviso in tanti segmenti quante sono le puntate ma, sia quello che sia, Dash & Lily (Netflix) è una rom-com adorabile e perfettamente riuscita in particolare perché, per una volta, l’amore fra i due non nasce dal nulla per il solo fatto di essere scritto su un copione, ma si capisce che cosa attragga l’uno dell’altra. Certo, ci sono coincidenze ed elementi scontati, ma poco importa, sono declinati con leggerezza e brio, ed è un perfetto escapism romantico natalizio sullo scenario di una New York vestita a festa.

Lily (Midori Francis)  è una diciassettenne che adora il Natale. Quest’anno, i suoi genitori, che non glielo hanno detto ma dovranno trasferirsi per lavoro, vanno alle Fiji durante le feste; il nonno (James Saito), con cui solitamente trascorre gran parte del suo tempo, lascia la città per raggiungere una sua fiamma con cui vorrebbe potersi sposare; il fratello Langston (Troy Iwata) ha un ragazzo, Benny (Diego Guevara),  con cui trascorre romantiche giornate e serate; a lei rimangono solo gli amici adulti con cui va a cantare le Christmas carols in giro per la città. Si sente sola.

Dash (Austin Abrams) pure è un adolescente, e odia il Natale. I genitori, separati, pensano che sia uno a casa dell’altro; la sua ex Sofia (Keana Marie) si è trasferita altrove, ma torna giusto in tempo per rischiare di essere un ostacolo al suo futuro sentimentale, e il solo ad essergli vicino è l’amico Boomer (Dante Brown) che lavora in una pizzeria.

Langston dà a Lily un gran suggerimento: mettere un’agenda rossa accanto ai libri che preferisce, nella sezione dedicata a Salinger, nella sua libreria del cuore, con delle iscrizioni per chi lo troverà e delle “sfide”. E così lei fa. Il diario viene trovato da Dash. Loro imparano a conoscersi vicendevolmente proprio attraverso quelle pagine che si passano l’un l’altra con istruzioni varie.

In questo modo si confidano, ma riescono anche a spingersi ad essere delle versioni migliori si se stessi, imparando a lanciarsi in situazioni inusuali e a rilassarsi, e a essere più coraggiosi emozionalmente. Non ricordo a chi va attribuita la frase per cui bisognerebbe innamorarsi con gli occhi chiusi, ma qui è quello che avviene, in un certo senso, perché sebbene i protagonisti si incontrino anche in un paio di occasioni, senza saperlo, tutta la loro relazione si costruisce in absentia. Qui appunto non c’è il grande amore a prima vista o l’irresistibile attrazione, ma i personaggi si innamorano mostrandosi reciprocamente quello che pensano e provano, ammettendo le proprie paure e vulnerabilità. Nel loro essere separati, ma uniti, sono anche particolarmente adatti a questa situazione di pandemia.

Io non conosco la città a sufficienza da accorgermene da sola ma Meghan O’Keefe su Decider scrive: “La stessa New York City non si presenta come appare ai turisti delle festività natalizie, ma ai nativi. Certo, ci sono scatti del Macy's Santaland e del Rockefeller Center brulicanti di gente indaffarata, ma la maggior parte dell'azione si svolge in punti di riferimento locali come The Strand, Two Boots e la Morgan Library. L'intera serie è una celebrazione di come la città diventa luminosa nei periodi più bui dell'anno”. Le fa eco Judy Berman sul Time, che osserva come la serie vada ben oltre l’impegno a rappresentare accuratamente la geografia della Grande Mela, ma di come “si scambia la generica Manhattan da rom-com di carrozze trainate da cavalli per la New York estremamente specifica occupata da due adolescenti idiosincratici. C'è il noleggio di pizze e video al Two Boots nell'East Village, la torta al Four & Twenty Blackbirds di Gowanus, una gita al luogo di noleggio di costumi del Theatre Development Fund ad Astoria. Al posto delle Rockettes a Radio City, ci sono le decorazioni natalizie esagerate che adornano le case nel quartiere semisuburbano di Dyker Heights a Brooklyn. Anche se è probabile che la maggior parte di questi luoghi si trovino in qualsiasi guida turistica decente, il fatto di vederli raramente raffigurati in storie d'amore sul piccolo schermo conferisce a questa una vitalità unica”.

Ideata da JoeTracz (Una serie di sfortunati eventi)  e basata sulla serie di libri young adult “Dash and Lily’s Book of Dares” di David Levithan e Rachel Cohn (che ne ha anche scritto la 1.07), le otto puntate della prima stagione scivolano via in un’atmosfera briosa e festosa. E c’è una sensazione da favola – e alla scarpetta di Cenerentola si sostituisce uno stivale rosso . Dolce,  ma non sciropposo.

domenica 13 dicembre 2020

WE ARE WHO WE ARE: di Guadagnino - Giordano - Manieri

 


Non riesco a decidere se mi è piaciuto molto o se sia un esperimento gonfiato e sopravvalutato We are who we are, la serie diretta da Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome) per HBO e Sky Atlantic, co-scritta insieme a Francesca Manieri e Paolo Giordano, il vincitore del premio Strega per La Solitudine dei Numeri Primi, autore del soggetto. La narrazione sembra non sapere dove vuole andare, ma lo sa, e questo è l’aspetto più affascinante della scrittura, è più un “ti mostro la vita” di un “ti racconto una storia”. Siamo nel 2016, subito prima dell’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, in una base americana a Chioggia. Protagonisti principali sono due adolescenti. L’originale è in inglese e in dialetto veneto, prevalentemente, con qualche comparsa di italiano. 

Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer) è un ragazzo quattordicenne che si trasferisce con le sue due madri in Italia, dopo che una delle due, Sarah (una sempre convincente Chloë Sevigny, Big Love) è stata promossa ed è diventata il nuovo colonnello a capo della base militare, dove lavora come infermiera militare anche l’altra madre, moglie di Sara, Maggie (Alice Braga). È un ragazzo difficile e con seri problemi comportamentali. Non solo ha difficoltà con l’autorità, come è evidente fin dal pilot dal suo atteggiamento nel momento in cui gli chiedono di scattare la foto per il tesserino identificativo, nel non ascoltare gli inni nazionali, nell’essere scomposto e disattento a scuola… odia quello che la madre rappresenta, ma si va al di là della più banale ribellione adolescenziale: Fraser schiaffeggia (1.01), aggredisce tirandole i capelli (1.04) e insulta la madre con epiteti pesanti e le fa il trattamento del silenzio (1.05). Non che in casa sembrino preoccuparsene più di tanto, a dire il vero. Il solo rimedio è abbracciarlo ed eventualmente commentare che quell’ambiente non lo aiuta. È un grande amante della moda e della lettura, sempre immerso con il naso in qualche libro – cosa che da spettatrice mi è parsa più un modo di atteggiarsi, che non una vera passione, nel senso che mi è passata l’idea che fosse un modo per gli autori di redimerlo come un animo tormentato e profondo ed evitare che lo considerassimo un teppistello sbandato che ha bisogno urgente di un aiuto psicologico perché è una persona in serie difficoltà. Si prende una grande cotta per Jonathan (Tom Mercier), un giovane ufficiale assistente della madre.

Fraser appena arrivato conosce una serie di persone, fra cui Britney (Francesca Scorsese), ma quella con cui lega davvero è la migliore amica di lei, Caitlin Poythress (Jordan Kristine Seamón), figlia di un ufficiale trumpiamo, Richard (Scott Mescudi), e di Jenny (Faith Alabi), con cui vive, insieme anche al fratello Danny (Spence Morre II), che è attratto da e studia la cultura musulmana. La giovane donna, che si sviluppa proprio nel corso della miniserie, pensa di seguire le orme professionali del padre, a cui è molto legata: con lui va in barca la mattina presto, va a caccia, impara a fare a pugni e a sparare. Anche se a casa non se ne accorgono è in crisi identitaria rispetto al proprio genere sessuale di appartenenza, usa i propri capelli per farsi dei finti baffi e cerca di farsi passare per un ragazzo, e scopre in definitiva l’identità di ciscuno è in costante cambiamento. Frequenta la scuola e un nutrito gruppo di amici, ma il padre non vede di buon occhio il fatto che si accompagni a Fraser.      

Si tratta essenzialmente di una storia di coming-of-age, quindi gli adolescenti sono in primo piano. Questi ragazzi saranno anche meno problematici e ansiogeni per gli adulti di quanto non siano  quelli di Euphoria – come ha giustamente notato anche Ben Travers su IndieWire - , ma se non altro in quel caso nessuno cerca di spacciarci i loro comportamenti come qualcosa di bello e desiderabile, la loro apparente assenza di inibizioni come uno stato di paradisiaca innocenza, ma si vede l’atteggiamento autodistruttivo e disperato per quello che è. La mia osservazione nasce anche da un commento post-episodio di Guadagnino che si sofferma su una sorta di festa di nozze che la gang tiene per due di loro che si sono sposati. Entrano furtivamente in un’abitazione di lusso (1.04), una villa di proprietà di russi assenti in quel momento, e si comportano come fosse casa loro. Il regista vede quel luogo per loro come un Eden di libertà. Io da spettatrice l’ho vissuto come un comportamento da selvaggi, pure mezzi fatti, e quello che ho visto è più simile alla mia idea di inferno che di paradiso. Alla loro età so che mi avrebbe spaventata oltre che schifata.

In quell’abitazione poi i ragazzi tornano in seguito alla morte dell’allora sposo (1.07) e vandalizzano i locali – spingono un pianoforte contro una vetrata che si frantuma in mille pezzi, sfogano l’aggressività cercando di demolire un bancone e randellando a destra e a manca. Certo, esprimono il proprio dolore, è evidente, ma nessuno che si preoccupi di condannare questi atteggiamenti. Se non giudicare la persona è importante, non approvare per questo comportamenti deleteri non solo è umano, è necessario per quelli che nelle vite di questi ragazzi hanno un ruolo educativo. Nessuno vuole la predica, ma questo laissez-faire menefreghista mi pare anche decisamente poco realistico in un ambiente militare. Tutto è avvenuto senza la minima conseguenza: nemmeno una parola. Per il resto devo dire che vivo relativamente vicina a una base militare americana e ci sono entrata qualche volta. Da quello che  ho visto da esterna mi sembra che ne abbiano fatto un ritratto accurato, dalle case, al commissary in cui Britney porta Frazer a fare un giro proprio nel pilot, alla vita in generale.

Non è solo un teen drama, in ogni caso. Anche gli adulti, e più nello specifico i genitori dei due ragazzi hanno una porzione della storia a loro dedicata. Tutti gli attori, adulti e no, hanno fatto un lavoro egregio e non ci sono propriamente tematiche, quanto echi di tematiche. Ci sono notevoli sottigliezze. Di certo la visione non è stata una perdita di tempo, ma non posso dire che mi sia passato il messaggio ultimo che, a detta del regista nell’intervista post-ultimo episodio, sarebbe la loro eredità spirituale di questo lavoro narrativo, ovvero il desiderio di amare e di esser amati. Non mi ha nemmeno sfiorato, e al massimo lo intravedo dopo che è stato esplicitato. Vedo invece “l’irregolarità” apprezzata expicitis verbis dal protagonista (1.08) in campo d’abbigliamento come l’essenza nella forma e contenuto di quello che ho visto.

 “Siamo chi siamo” è il titolo del programma. Sono chi sono.

giovedì 3 dicembre 2020

LOVECRAFT COUNTRY: il vero orrore è il razzismo

 


La poetica che fonda Lovecraft Country (HBO, Sky Atlantic), tratto dall’omonimo romanzo di Matt Ruff, è piuttosto esplicita: creare una serie a tinte horror con mostri, magia e antichi culti per mostrare che il vero orrore non sta lì, ma nella vita quotidiana per i neri che devono vivere il pervasivo razzismo sistemico. Siamo negli Stati Uniti degli anni ’50, ma il Country, il Paese in questione, è qualunque presenti quella realtà e di qualunque epoca. Lovecraft è in riferimento allo scrittore americano Howard Phillip Lovecraft (1890 – 1937) che è uno dei padri fondatori di questo genere di letteratura – e se ne recuperano in TV temi ed estetica – ed era dichiaratamente razzista. Come scrivono su Slate: “Il romanziere nero N.K. Jemisin ha sostenuto in modo convincente che il razzismo di Lovecraft è al centro dell'orrore che intendeva trasmettere nella sua opera: un terrore cosmico ed esistenziale unito a un profondo disgusto fisico”.

Sottotitolato “La Terra dei Demoni” in italiano, e ideato da Misha Green, la serie di HBO ha come protagonista Atticus detto “Tic” Freeman (Jonathan Majors), un veterano della guerra in Corea che, di ritorno a Chicago, legge una lettera del padre scomparso, Montrose (Michael K. Williams) che lo invita a scoprire un misteriosa eredità di famiglia nel Massachussetts. Si mette così in viaggio nell’America dell’epoca della segregazione.  Con lui va suo zio George (Courtney B. Vance), che scrive una guida stile-Green Book (qui una buona spiegazione di che cosa fosse, nel caso) e che è sposato con Hippolyta (Aunjanue Ellis), che ha passione per l’astronomia e da cui ha una figlia, Diana (Jada Harris). Insieme a loro va anche l’amica Letitia “Leti” Lewis, abile fotografa che ha un contrastato rapporto con la sorellastra maggiore, Ruby (Wunmi Mosaku). Sulla via incontrano orrori soprannaturali e fin troppo umani e presto si imbattono nella Loggia di Ardham, progettata da Titus Braithwhite, schiavista di cui Atticus sarebbe un discendente e fondatore di una società segreta dedita all’occulto chiamata i Figli di Adamo, ora reclamata dalla figlia di lui, Christina (Abbey Lee). Nel corso delle vicende, Atticus ritrova anche una giovane aspirante infermiera che aveva conosciuto in Corea, Ji-Ah (Jamie Chung), che è più di quello che sembra.

Alcune atmosfere – specie quelle legate alla Loggia di Ardham - ricordano Watchmen, che ne condivide le tematiche razziali. Quest’ultimo lo valuto come intellettualmente, narrativamente ed esteticamente più ambizioso e riuscito, anche se più astruso. Qui la trama è solida e avvincente e fra orribili creature che divorano gli umani, scheletri che si rianimano, resurrezioni, pozioni trasfiguranti, rituali magici, case infestate e spiriti demoniaci, esperimenti e viaggi nel tempo e nello spazio, l’aspetto più propriamente ludico è assicurato, ed è una visione molto easy. Ma il piano metaforico e allegorico, o anche quello più propriamente reale – penso anche solo al pilot dove lo sceriffo locale dopo il tramonto ha il diritto di linciare chiunque trovi e i protagonisti sono costretti a una rocambolesca fuga in macchina - sono quelli più pregni di significato e non sono mancate vette notevoli.

Qui ci si affida a molti aspetti iconici dell’horror, di cui conosce bene il canone, ma per l’autrice nulla è sacro, tutto è opzionale, e fa di questa libertà la sua forza. Si vuole comprendere il passato, ma per andare al futuro. La serie è al contempo anche un family drama che mostra dolore e ingiustizia e che cosa significa doversi battere per la liberà. Ed è una storia on the road. La Green, apprezzata per Undergroud, che considera una serie “sorella” (cfr. TV Top 5, del 14 agosto 2020), e che ha scritto anche per Heroes, ha dichiarato che nella sua formazione, e quindi nell’intendere i propri programmi, molto ha influito Battlestar Galactica. Puntate come la season finale poi hanno un gusto molto alla Buffy per me.

Non vedo, come ha sostenuto il New York Times, nel ben scritto e ben argomentato articolo firmato da Maya Phillips, che nel cercare di capovolgere gli stereotipi razziali, sessuali e di genere abbia finito per rinforzarli lanciando messaggi offensivi e privi di gusto in modo gratuito, facendo riferimenti a vere persone della storia nera solo in modo “ornamentale”, come riferimento, senza che abbiano una pregnanza tale da rendere onore a quelle sofferenze e ferite personali e generazionali. Colgo l’osservazione, ma mi pare un peccato veniale, così come è vero che si trattano temi come l’essere gay o trans volendone esplorare l’umanità e i traumi, ma non vedo che si faccia conflagrare l’essere queer con l’essere i cattivi della situazione, semmai si mostra come chi è marginalizzato dall’essere nero non si accorge, nonostante quello che vive, che chi è demonizzato per altre caratteristiche fa esperienza di una situazione similare. Rigetto in toto le accuse di colorismo per il fatto che la più chiara Leti sarebbe più centrale rispetto alla sorella dalla pelle più scura.     

Un aspetto che ho apprezzato molto sono gli effetti speciali, che di solito non mi interessano granché. In particolare le trasformazioni di Ruby che attraverso una pozione diventa una donna bianca e poi torna nera, sono state estremamente viscerali e soddisfacenti, ogni volta che sono state mostrate, sia nell’aspetto visuale che metaforico.

Non tutte le puntate sono ugualmente riuscite, ma si riesce nel delicato compito di rendere godibilmente leggere tematiche molto toste e sgradevoli. 

lunedì 23 novembre 2020

EMILY IN PARIS: un godibile zuccherino

 

È la definizione del guilty pleasure la nuova produzione Netflix di Darren Star (Younger, Sex and the City), Emily in Paris, che un po’ ricorda Younger ma con l’essere di diversa nazionalità invece dell’età come elemento propulsore, e un po’ The Bold Type, e non sorprende che la protagonista assomigli fisicamente a una di quelle della serie di Freeform.

La Emily (Lily Collins) del titolo, una ventenne di Chicago, pur non sapendo una sola parola di francese, viene spedita a Parigi dalla sua capa, inaspettatamente incinta e impossibilitata, per lavorare a Savoir, un’agenzia di marketing che si occupa di promuovere prodotti di lusso, in modo da svecchiarla dando un punto di vista americano e usando di più i social. Emily è piena di entusiasmo e iniziativa, ma si scontra contro la rigida concezione snob della responsabiae, Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu) e la visione très française della vita dei colleghi Julien (Samuel Arnold) e Luc (Bruno Gouery), che un po’ le spiegano le situazioni. Emily, rimasta single dopo che il fidanzato si è rifiutato di trasferirsi con lei o anche solo andarla a trovare, comincia ad innamorarsi del giovane uomo che abita sotto di lei, Gabriel (Lucas Bravo), un cuoco che sogna di aprire un ristorante tutto suo, ed è fidanzato con la ricca Camille (Camille Rasat), molto socievole nei confronti di Emily. In un parco fa anche amicizia con Mindy (Ashley Park), che lavora come nanny per sfuggire alle pressioni dei genitori cinesi che la vorrebbero nel loro paese sposata e coinvolta nel business di famiglia, e che sogna di fare la cantante. A mano a  mano che scopre la vita al di qua dell’oceano, l’americana a Parigi posta sul proprio profilo Instagram pepite della propria vita in quello che diventa appunto #EmilyinParis, raccogliendo l’interesse di via via più followers.

Si trasudano stereotipi, dai francesi altezzosi e pieni di sé, all’inesperta ragazzina che riesce a sfondare all’estero pur non sapendo la lingua e a salvare la situazione con il suo entusiasmo americano, al vicino di casa supergnocco pronto a salvarti dalle situazioni peggiori, tipo quando ti si rompe la doccia, guarda tu, proprio mentre la stai facendo. È una favoletta a tinte romantiche che sa di esserlo e non se ne vergogna, anzi è occasione di sollazzo e gioia. Si tifa per la protagonista, che conquisti i colleghi, con il suo ingenuo ottimismo e la sua voglia di fare, che riesca a far contenti tutti e che riesca a far breccia nel cuore dell’amato, che desidera ma da cui deve tenersi a distanza. La Collins sa essere amabile e piena di verve, e sprovveduta al punto giusto senza apparire oca, sicura di sé, ma perché competente in quello che sa di poter offrire.  

Pur non esseno cinéma vérité infatti contemporaneamente non si è completamente a encefalogramma piatto. Quando la campagna pubblicitaria di un profumo vede una donna completamente nuda su un ponte della capitale osservata da molti uomini che la desiderano (1.03), Emily solleva la questione del male gaze e se non sia una prospettiva sessista piuttosto che sexy. Essere desiderata è un desiderio femminile, le rimarcano, e lei fa notare come potrebbe al minimo non essere adeguata al momento attuale. Si dibatte la questione con leggerezza, ma con acume. Quando un famoso stilista la etichetta come “ringarde” che le spiegano significare essere “basica”, mediocre, lei ammette di esserlo, ma si lancia in una appassionata e convincente perorazione a favore delle persone come lei, la maggioranza, che aspirano però a qualcos’altro. E da nativa digitale, usa i social e ne capisce le implicazioni affaristiche.

Per il resto è il tipo di serie non si vergogna di usare maliziosamente facili doppi sensi linguistici spinti come scherzare sul coq au vin, il piatto tradizionale di gallo al vino, con la pronuncia di coq che è uguale a quella di cock in inglese, che pure è “gallo”, ma nel linguaggio quotidiano è usato più comunemente con il significato di “cazzo”. Ci sono ammiccamenti e chiari sorrisini.  (1.08)

Aaron Spelling (Love Boat, Fantasilandia) diceva che i suoi programmi erano come caramelle. Non era auspicabile cibarsi solo di quelle, ma una ogni tanto faceva piacere gustarsele. Lo stesso si può dire di questa autentico piacere colpevole: è uno zuccherino godibilissimo.   

venerdì 13 novembre 2020

NORMAL PEOPLE: ut pictura poësis

 

Mi sento di dire “ut pictura poësis”, citando Quinto Orazio Flacco, quando si tratta di Normal People - Persone Normali (BBC3 e Hulu): come nella pittura, così nella poesia e viceversa, o nel nostro caso, come nel romanzo così nella miniserie. L’autrice Sally Rooney, che ha adattato il proprio libro per la televisione insieme ad Alice Birch e Mark O’Rowe ha dichiarato: “La storia e i personaggi sono rimasti intatti, ma il nostro modo di drammatizzare il loro rapporto è cambiato, e abbiamo dovuto prendere decisioni su come cambiarlo. Non per incasinare gli aspetti fondamentali del libro, ma per preservarli. Se cerchiamo di attenerci troppo al libro, ci ritroviamo con qualcosa che non preserva l'essenza della storia” (cfr. l’intervista su THR). Ho letto il libro, e purtroppo lo ricordo poco nonostante sia stata una delle mie letture preferite nel 2019 (è uscito nel 2018), ma la serie me ne ha fatto appassionare di nuovo e l’ho amata altrettanto, trovandola fedele nell’essenza al ricordo che ne avevo. Slate segnala le differenze fra la versione cartacea e quella video: non molte.  

La complessa relazione fra Marianne (Daisy Edgar-Jones) e Connell (Paul Mescal) è al centro di tutto. Si conosco al liceo nella contea di Slingo, in Irlanda: lei vive con la madre Denise (Aislín McGuckin), anaffettiva e fredda, e il fratello Alan (Frank Blake), invidioso e abusante, alienata dai compagni di scuola che la esludono e bullizzano e che lei tratta con sufficienza;  lui, laconico e dolce,  abita con la madre single, Lorraine (Srah Greene) che fa le pulizie nella ricca casa di lei; in seguito continuano a frequentarsi all’università Trinity College di Dublino, dove entrambi eccellono negli studi e hanno le proprie cerchie. Hanno una relazione, inizialmente segreta, a intermittenza. Il loro è un rapporto di sesso, di amore, di amicizia, di intimità, di affinità intellettuali, di conversazioni, di incomprensioni, di reciproco saziarsi l’uno dell’altra e completarsi e di comprendesi in profondità contemporaneamente nell’incapacità talvolta di farlo nel modo più basico ed elementare. Due anime diversamente tormentate, specie quella di lei che si sente perennemente non amata, non voluta e inadeguata, con impulsi masochistici, ma anche quella di lui, che non riesce a dimostrare quello che prova o che pensa e si nasconde perché si vergogna dell’opinione che gli altri hanno di lei pur non condividendola. Entrambi sono molto vulnerabili al di là dell’apparenza coriacea.

La resa televisiva è stata superlativa, nella messa in scena, nella sceneggiatura, nella recitazione spettacolosa da parte di tutti, riservata e coinvolta insieme, nei silenzi e nelle conversazioni anche apparentemente casuali, misurate, nel detto come nel non detto, nelle romantiche, spinte ma appropriatissime scene di sesso – raramente ho visto sullo schermo rapporti sessuali che sapessero così bene esprimere come al di là del piacere siano in grado di costruire un rapporto, dove l’intimità non è dovuta alla nudità frontale, ripetutamente mostrata, o nell’agio di abbandonarsi l’uno all’altra, ma è proprio sul piano fisico l’espressione del reciproco bisogno e appagamento e l’incarnazione del rapporto spirituale. E non sono certo la prima a lodare il modo in cui hanno reso integrante e naturale il loro modo di confermarsi il consenso reciproco. Sul set hanno anche utilizzato una “coordinatrice di intimità”, Ita O’Brien, che  nel suo lavoro si fa guidare da tre principi, “comunicazione aperta e trasparenza, accordo e consenso nel tatto e coreografia chiara” (Los Angeles Times) e lei stessa dichiara come “quelle scene descrivono la delicatezza, la bellezza, l'apertura” del rapporto. La stessa Rooney ha paragonato le scene di sesso a un’altra forma di dialogo. (The Guardian)

Due altri aspetti emergono in modo mirabile: l’evoluzione della loro storia e conoscenza, con il maturare anche in semplici termini di età, e le difficoltà comunicative che possono portare a rovinosi fraintendimenti anche fra persone che apparentemente tengono molto l’uno all’altra e che sono intelligenti e colte e hanno presumibilmente la capacità di esprimersi. Quello che per uno è auto evidente, per l’altro non lo è affatto.  

Il tono melanconico, quieto ed elegante della regia – di Lenny Abrahamson (Room) nella prima parte, di Hettie MacDonald nella seconda ha reso tutto alla perfezione, compresa la gestione fra i momenti privati e quelli pubblici, fra la loro storia d’amore e il loro vivere pubblico, e nei loro momenti separati.

Lirico. Sublime. Assolutamente impeccabile. In 12 episodi, per me è il programma migliore dell’anno.

martedì 3 novembre 2020

RAMY - seconda stagione: sul vuoto esistenziale

ATTENZIONE SPOILER. Una delle immagini più strappacuore delle visioni televisive del 2020 è per me quella di zio Naseem (2.09), nella seconda stagione di Ramy, che per la strada mangia con le mani, piangendo, la torta di condoglianze che aveva comprato per l’uomo a cui in palestra faceva dei pompini e per il quale cominciava a provare dei sentimenti. Il razzista, antisemita, misogino, omofobo Naseem ha provato, ma non è riuscito a instaurare una relazione con un uomo che era aperto a intrecciare una storia con lui, incapace di superare il disprezzo di sé e la vergogna così fortemente ingranati nel proprio modo di pensare. Nell’anonimato della sauna riusciva a concedersi,  il tentativo di un bacio lo ha fatto reagire con violenza, pur desiderandolo profondamente. Terribilmente umano e devastante.

Un altro vertice della stagione è stato “Atlantic City” (2.07). Gli amici portano Ramy (Ramy Youssef) a celebrare l’addio al nubilato e assumono delle spogliarelliste. Lui non le vuole e le licenzia, finendo poi a dover masturbare lui stesso l’amico Steve (Stephen Way), che ha una grave forma di distrofia muscolare ed è sulla sedia a rotelle. Già trattare il tema della sessualità di una grave forma di disabilità è notevole, qui poi lo si riesce a fare con tatto e un notevole umorismo. Nessuno dei due vuole minimamente quello a cui si vedono costretti.

La madre Maysa (Hiam Abbass)  deve fare il test per ottenere la cittadinanza  e viene messa in crisi da un transessuale e dal pronome da utilizzare (“They” – 2.06); il padre Farouk (Amr Waked) perde il lavoro e cade in depressione (“Frank” - 2.08); la sorella Dena (May Calamawy), per quanto si ritenga razionale, si lascia coinvolgere nella superstizione del malocchio e nel timore di diventare calva (“3riana grande” - 2.05)… a volte sembra che siano i comprimari ad avere le storie più riuscite, qui ben in bilico tra americanità e alterità, fra antico e nuovo.

La serie si è volutamente messa su un terreno minato affrontando di petto la spinta religiosa del protagonista principale, Ramy appunto. Forse ho più pregiudizi di quello che penso o che vorrei sull’Islam, ma questa sua conversione spirituale mi ha messa a disagio, anche se ritengo che elicitare questa potenziale ansia fosse voluto, dal momento che gli stessi amici più intimi del personaggio, Mo (Mohammed Amer) e Ahmed (David Merheje), manifestano un certo timore che lo Sheikh (il sempre carismatico Mahershala Ali) che sceglie come propria guida spirituale lo “corrompa” facendolo diventare troppo religioso ed che frequentare una nuova moschea lo porti a diventare estremista (2.02). E in effetti Ramy vuole essere così tanto un bravo musulmano che finisce per essere incosciente e abbandonare il buon senso (2.03). La storia che lo vede accogliere come un soldato dell’Iraq che vuole convertirsi e la violenza che ne consegue  mettono bene in luce sia l’entusiasmo e le buone intenzioni sia i realistici sentimenti culturali diffusi verso questa specifica religione in questo momento storico.

Le vulnerabilità e le motivazioni che muovo Ramy sono anche molto ben delineate, riprese dalla prima stagione alla quale pure ci sono dei rimandi. L’emozione dominante è quella del vuoto esistenziale: più è circondato da persone, più si sente solo. L’errore che riconosce in se stesso è quello di cercare di riempirlo attraverso il sesso e il porno. La soluzione che cerca è nell’opposto, nell’astinenza che gli propone la sua religione, cercando di riempire quel vuoto con Dio. Dove la serie non è convincente a sufficienza, a mio avviso, è nel mostrare che si tratta di una coincidentia oppositorum, non è che uno è male a l’altro è bene, ma entrambe le posizioni nel loro estremismo non sono sane. È vero che in “Miakhalifa.mov” (2.04), nell’incontro con una pornodiva delle cui mammelle molti vogliono bere il latte, si riflette sul fatto che la pornografia fiorisce soprattutto negli ambienti oppressivi e oscurantisti. Allo stesso tempo non si fa quel passo in più del vedere che forse anche l’alternativa dell’astinenza intransigente non è auspicabile. Forse la serie, un po’ come il protagonista, è confusa, e di fronte a situazioni che sono emotivamente contorte e complesse è bene così perché un’eccessiva semplificazione le appiattirebbe. Ramy decide di sposarsi (2.10) con la figlia dello Sheikh, Zainab (MaameYaa Boafo), con cui nel corso della stagione ha costruito una bella relazione.  ma anche a causa del ritorno della cugina con cui aveva avuto una storia nella stagione precedente, la conclusione non è così lineare.    

Ramy si conferma una serie che parla in modo originale della contemporaneità e delle nostre angosce esistenziali e dimostra di avere ancora molto da dire.

sabato 24 ottobre 2020

LITTLE AMERICA: storie di immigrati

Basata su storie vere, già raccontate sulla rivista Epic, ogni puntata di Little America (Apple TV+) racconta, in modo potente e delicato insieme, le vicende di un diverso immigrato negli Stati Uniti. Storie di aspirazioni e riscatto, di resilienza, grinta e determinazione, di isolamento e di solitudine, e del grande sogno americano, quello di farcela a dispetto di tutto, quello di realizzare i propri sogni.

C’è il ragazzino indiano, Kabir (Suraj Sharma), che si deve crescere da solo, perché i genitori senza il permesso di soggiorno vengono rispediti nel proprio Paese, che gestisce un motel (1.01); la ragazza messicana, Marisol (Jearnest Corchado), che vive in un garage e per un paio di scarpe gratuite si iscrive a un corso di squash finendo per diventare una grande campionessa (1.02); il nigeriano Iwegbuna (Conphidance) che, andato a studiare economia e intenzionato a tornare dopo la laurea, rimane a seguito di un colpo di stato militare nel suo Paese (1.03); la francese Sylviane (Mélanie Laurent) che inaspettatamente trova l’amore in un ritiro del silenzio buddista (1.04); l’ugandese Beatrice (Kemiyondo Coutinho) che diventa la signora dei biscotti (1.05); la cinese Ai (Angela Lin) che vince una crociera in Alaska (1.06); l’iraniano Faraz (Shaun Toub) che contro ogni buon senso compra un terreno su cui c’è un’enorme roccia con l’obiettivo di costruire la casa dei suoi sogni (1.07); il siriano gay Rafiq (Haaz Sleiman) a cui il padre ha ustionato il braccio perché provi per un minuto quello che all’inferno proverebbe per l’eternità, nell’intento di proteggerlo (1.08), per cui il solo fatto di essere in America è il successo, perché significa la libertà di essere se stesso. 

Tutte le storie sono commoventi, ma una delle scene più strazianti dell’anno (ho attivamente singhiozzato) è quella della cinese Ai (1.06), che sulla nave dove è in vacanza con i figli canta un bravo al karaoke, mentre attraverso dei flashback della sua infanzia assistiamo a una vita segnata dagli abbandoni che ci illumina sul suo comportamento attuale.  La puntata è scritta e diretta da Tze Chun, figlio della donna della vita reale a cui è ispirata. 

Le puntate hanno la sigla che visivamente ha delle variazioni, ma soprattutto cambia ogni volta musica, con canzoni legate alla nazionalità del personaggio di cui si tratterà, il cui nome appare sullo schermo nel corso della diegesi. E la persona che lo ha ispirato chiude ogni singolo episodio con delle indicazioni su che cosa ne è stato poi di quella persona.

Ideata da Lee Eisenberg, Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (Silicon Valley) è una raccolta di racconti che per alcuni versi si appoggia sull’inossidabile tropo del forestiero che sfonda grazie al proprio talento, ma qui è tenuta al minimo indispensabile, sia perché mostra spesso l’ordinarietà dei progetti dei coinvolti, sia perché non nasconde la fatica e i sacrifici per raggiungerli. Si dice che una cosa valga per quello che ti è costato ottenerla. Sulla base di questo principio proprio questo si mostra qui: quanto valore abbiamo risultati apparentemente minori e quanto significato e umanità c’è in gesti e comportamenti che a non conoscerne il passato non hanno chissà quale rilievo.

A commuovere per empatia o a far ridere sono proprio i dettagli minimi, e le difficoltà sono talvolta gli sforzi di scontrarsi con una realtà così diversa dalla propria: è Iwegbuna (1.03) che da bimbo guarda in piazza i film western e quando deve integrarsi si veste come un cowboy - fa carriera universitaria impressionando il proprio professore, di cui diventa assistente, riferendo al proprio Paese il modello Corden-Neary, ma non riesce ad adattarsi a pasteggiare con gli hamburger che trova immangiabili così pieni di salse, e gli manca il casalingo fufu.   

Anche registicamente la serie regala bei passaggi. Ho apprezzato come è stato reso il trascorrere del tempo, quando i personaggi si vedono crescere, ad esempio, o nell’espediente nel mostrare al contempo il distacco e il contatto con la famiglia d’origine nel far vivere al personaggio i suoi familiari davanti ai suoi occhi come se fossero lì quando in realtà li sente solo di voce attraverso delle audiocassette.

Sono stata negli USA l’anno scorso, a San José. Ogni volta che prendevo un Uber mi imbattevo in una nazionalità differente. Era un mini-mondo. Non tutte le zone degli USA sono altrettanto variegate, ma si sa che gli Stati Uniti sono un melting pot. Troppa TV mostra solo WASP, bianchi anglo-sassoni protestanti. Il “regime scopico” di cui si fa esperienza attraverso il piccolo schermo sta per fortuna cambiando, in più modi, ma anche perché supporta sguardi nuovi. In questo Little America dà un contributo tanto antropologicamente sensibile quanto eticamente necessario.

Questa serie antologica è stata confermata per una seconda stagione. 

giovedì 15 ottobre 2020

LOVE LIFE: frustrante

 

La nostra vita amorosa può essere ridotta a dei dati: statisticamente prima di trovare l’amore delle vita una persona avrà avuto in media 7 relazioni, di cui due lunghe, le altre a breve termine, appuntamenti superficiali e avventure di una notte, due volte ci si sarà innamorati sul serio e due volte si avrà avuto il cuore spezzato. Esordisce con queste informazioni la voce narrante di Love Life (HBO Max, e si tratta della la prima serie scripted del canale), senza peraltro fornire alcuna indicazione aggiuntiva su quale possa essere la fonte di questi dati. Ce li dobbiamo prendere come buoni. E sulla base di questi ci viene raccontata la vita amorosa della protagonista, Darby Carter (Anna Kendrick). Successivamente (1.02) veniamo informati del fatto che statisticamente una coppia ci pensa per un paio di anni prima di divorziare e poi ci vogliono circa 3 anni prima di risposarsi.

Darby quando la conosciamo lavora come guida in un museo d’arte e la seguiamo appunto nelle sue vicende sentimentali, a partire da “Augie Jeong” (1.01), conosciuto in un locale di Karaoke, ma poi lasciato perché l’impegno professionale di lui lo porta altrove – (spoiler – si ritroveranno in seguito). Un anno dopo comincia una storia con un uomo divorziato. “Bradley Field”, ma non piace alla famiglia di lei. Segue l’avventura di una notte che è lei a non voler proseguire (1.03 , “Danny Two-Phones”) e poi quella con un cuoco, che sul principio va alla grande,  riesce perfino a gestire l’ipercritica madre di lei, fino al giorno in cui lui non perde il lavoro (1.04). La psicoterapeuta la invita a ripensare al primo amore (1.05). Poi altre storie sono anche di amicizia e con la madre (Hope Davis). E ci starebbe, se non fosse che la struttura narrativa sembra ripensata a mezza via.

La voce fuori campo, che commenta quasi con il distacco dello studioso che annuncia i dati di cui sopra, in alcuni passaggi narrativi è usata alla stessa maniera in cui era già stato fatto in A to Z. Anzi, così tanto che sono andata a verificare che non si trattasse della stessa attrice, ma no, qui è Leslie Manville, lì era Katey Sagal. Almeno la memoria me le ha associate, poi magari a risentirle sono diverse. E in seguito, a secco di informazioni statistiche si direbbe, il voice-over si sofferma a fare affermazioni generali sulla protagonista. Si potevano tralasciare tutte le informazioni successive alla prima sulla quale si fonda il principio della serie, o quelle in cui il commento non offre nessun insight maggiore rispetto alla semplice visione: inutili.

Funzionerebbe meglio come più ordinaria storia di relazioni e di amicizia, con un ruolo maggiore ai comprimari, che energizzano le vicende della protagonista, come la migliore amica Sara (Zoë Chao) e il suo ragazzo Jim (Peter Vack) o Mallory (Sasha Compère). Nella prima parte della stagione in particolare, questi sono appena abbozzati, meri segnaposto.  

In questa rom-com ideata da Sam Boyd, poco "rom" e poco "com", insicurezze e  tediose banalità quotidiane sono in primo piano, un’illusione  ogni aspirazione ad essere la Sex and the City del 21° secolo. L’ho trovata anche gradevole, ma un po’ stantia, e la protagonista principale, sebbene una brava attrice, poco carismatica. Frustrante.

lunedì 5 ottobre 2020

I MAY DESTROY YOU: sulla "rape culture"

Il drink di una giovane donna viene drogato e lei, priva di coscienza, viene violentata. Quando si risveglia non ricorda quasi nulla. Fa denuncia dell’accaduto alla polizia, ma alla fine dei conti è un nulla di fatto. Questo è in soldoni il nerbo attorno a cui si costruisce la notevole I May Destroy You (BBC1 – HBO), serie ideata e scritta da Michaela Coel (Chewing Gum), che interpreta anche il ruolo principale di Arabella, una influencer di Twitter londinese che ha un contratto con una casa editrice per scrivere un libro. È proprio mentre si prende una pausa di un’oretta dal lavoro che le capita questo devastante evento.

Non è sicuramente la prima volta che in TV viene affrontato il tema delle bevande che vengono spiked ai fini di stupro,  penso ad esempio a Veronica Mars che su questo argomento ha costruito un’intera stagione. Qui suona più personale e crudo, e il tema del consenso si svolge in un momento storico in cui c’è una crescente “sintonizzazione” collettiva sulla rape culture in senso ampio.  Le puntate zig-zagano e riflettono su molti aspetti connessi (infra) e intersezionali (gender, orientamento e razza in primis), ma è nella finale che illumina il percorso fatto, con una valenza fortemente metatesuale in riferimento al ruolo della scrittura. Nel vedere la protagonista che febbrilmente lavora al proprio libro spostando dalla parente i post-it che ne costituiscono l’outline, si è assistito più nello specifico in questo segmento a un poioumenon - per utilizzare quel termine tecnico che indica un artefatto artistico che racconta la storia della propria stessa creazione – che ce la mostra come una narrazione intenta a scardinare le retoriche più usuali che nascono da queste premesse.

Arabella, che non riesce a ottenere giustizia dal canali ufficiali, perché la polizia non ha prove sufficienti, finalmente (1.11) e inaspettatamente ricorda quello che è accaduto e questa epifania la porta ad immaginare, contemporaneamente come scrittrice e come vittima, delle storie che chiudano e diano un senso a quello che le è accaduto: ora è una brutale, irrealistica ma catartica storia di vendetta, ora è una storia di compassione per il carnefice, ora è l’immaginarsi un incontro consensuale ed equilibrato. Alla fine nessuna di queste alternative è convincente, quello che accade è che la vita continua, in un modo che non fa rumore. Il “lieto fine” è avere successo grazie anche alla vicinanza e al sostegno dei propri amici, qui Terry (Weruche Opia), un’aspirante attrice, e Kwame (Paapa Essiedu).

Arabella non riesce più a scrivere, ha comportamenti erratici e maleducati, i social ne fanno un’eroina e la trasformano in una star, ma la demoliscono anche, è allo sbando, una “diavola” (come allegoricamente la fanno vestire per Halloween) senza direzione. Questi in parte sono gli effetti psicologici della violenza, perché i danni non sono solo il sangue e le ecchimosi che le foto registrano su ginocchia, inguine, testa, o le lacrime, e non sono solo nell’immediato. Ma in parte è anche carattere: è un personaggio respingente. Si droga nella vita privata, ha anche un ragazzo, Biagio (Marouane Zotti), che è un spacciatore italiano  - e alcune scene sono girate ad Ostia –, ha sotto il letto il “ricordo” di un aborto di cui si era dimenticata…ha un passato complicato e spesso si comporta male, ma questo non significa che “se la sia andata a cercare”. Le cose si mescolano, come nella realtà. E questo confondere le acque, questa indeterminatezza di reazioni la rendono vivamente umana.

Se la scotomizzazione (farmacologica o psicologica che fosse) da parte della protagonista foraggia tentativi di ricostruzione mnemonica dell’evento principale, il precipitato di quella stessa rape culture che lo ha causato si sostanzia in storie minori e orbitanti, che stratificano la riflessione. Si parla di stealthing, quando un suo partner sessuale toglie il preservativo senza che lei se ne avveda (1.04), ad esempio. Kwame, gay, subisce pure lui un violenza sessuale da parte di un altro uomo. (1.04). Quando  accompagna l’amica alla polizia, sente che “la gente non sa che cosa è un crimine e cosa non lo è, e non lo denuncia” (1.05). Lui sta male per quello che ha subito, ma lui stesso non è sicuro che quello che gli è accaduto sia infatti un crimine – c’è il sessismo che fa credere che un uomo non possa essere violentato, che gli debba piacere per forza. In cerca di superare l’esperienza va a letto con una donna, per rivelarle solo dopo di esser gay (1.08) e perpetra lui stesso un modello di disonestà che la ragazza non riesce a perdonargli. Pure, una giovane donna che gestisce un corso di auto-aiuto a cui Arabella partecipa, da ragazzina aveva accusato ingiustamente di violenza carnale un compagno di classe. Alla fine della puntata (1.06), scopriamo in modo sorprendente, agghiacciante, che lo aveva “imparato dalla madre” che la aveva costretta a mentire sul proprio padre accusandolo di molestie sessuali perché lei potesse ottenere la sola custodia della figlia. Lei era troppo piccola per capirne le implicazioni e aveva ubbidito a quello che la madre aveva chiesto di fare. Non mi pare che si vada nella direzione del dire che le vittime diventano per forza carnefici (la letteratura in proposito dice infatti che non è così), ma sicuramente si dice che certi comportamenti sono appresi e perpetuati da assenza di onestà e di dialogo e di mancanza di consapevolezza, e che il fondamento del cambiamento verso una cultura più salubre è il consenso. Riguardano la sfera sessuale, ma sono comportamenti che attengono ai rapporti di potere ed eventualmente al mancato rispetto reciproco.

Bisogna dar credito anche a una serie che riesce a rendere più audace un rapporto sessuale in cui lei ha il ciclo mestruale, e il partner maschile si sofferma ad esaminare affascinato un grumo di sangue, che non un menage a trois che avviene nella stanza accanto.

Situazioni sgradevoli e personaggi occasionalmente odiosi non la rendono una visione facile, ma non si può negare che sia una visione pregnante, e una narrazione rilavante.   


lunedì 28 settembre 2020

TCA Awards 2020: i vincitori

In ritardo rispetto al solito e senza cerimonia a causa della pandemia da COVID-19, ma comunque una settimana prima della consegna degli Emmy, il 14 settembre, sono stati rivelati i vincitori dei TCA Awards, ovvero i premi dei critici televisivi americani e canadesi della Television Critics Association.

Eccoli sotto:

Programma dell’anno: Watchmen (HBO)

Miglior Nuovo Programma: Watchmen (HBO)

 

Miglior Drama: Succession (HBO)

Miglior Film o Miniserie: Watchmen (HBO)

Miglior Comedy: Schitt’s Creek (Pop TV)

 

Miglior News a e Informazione: The Last Dance (ESPN)

Miglior Reality: Cheer (Netflix)

Miglior programma per ragazzi: Molly of Denali (PBS Kids)

Miglior  Sketch/Varietà: A Black Lady Sketch Show (HBO)

 

Miglior interpretazione  in un  Drama: Regina King (Watchmen, HBO)

Miglior interpretazione  in una Comedy: Catherine O’Hara (Schitt’s Creek, Pop TV)

 

Premio alla carriera: Alex Trebek

Heritage Award: Star Trek (CBS)


Personalmente sono soddisfatta delle scelte. Come tutti mi inchino al genio narrativo di Damon Lindelof. Io stessa avevo indicato l’attualissimo pregnante Watchmen fra le serie migliori del 2019. Ne avevo parlato qui. Se Succession non avesse portato a casa il riconoscimento come miglior serie drammatica sarei davvero rimasta sorpresa e delusa. Dal poco che ho visto di Schitt’s Creek pure sono soddisfatta.

Il solo risultato che avrei voluto diverso è quello della categoria “Miglior nuovo programma”, dove avrei voluto vincesse The Great, questo anche perché Watchmen ha già vinto in molte altre categorie e presumibilmente non avrà una seconda stagione. Qui, trovate insieme ai vincitori anche l’elenco dei nominati.

lunedì 21 settembre 2020

EMMY AWARDS 2020: i vincitori

 

Sono stati consegnati ieri gli Emmy Awards, gli Oscar del piccolo schermo. Ecco sotto la lista dei vincitori principali. Qui l’elenco completo, anche dei nominati. Posso solo commentare che ha vinto chi avrei fatto vincere io, almeno per quanto riguarda le categorie principali.


Miglior drama: Succession (HBO)

Miglior attrice, Drama: Zendaya, “Euphoria”

Miglior attore, Drama: Jeremy Strong, “Succession”

Miglior attrice non protagonista, drama: Julia Garner, “Ozark”

Miglior attore non protagonista, drama: Billy Crudup, “The Morning Show”

Miglior sceneggiatura per un drama: Jesse Armstrong, Succession (“This Is Not for Tears”)

Miglior regia per un drama: Andrij Parekh, Succession (“Hunting”)

 

 

Miglior  Comedy: Schitt’s Creek (Pop)

Miglior attrice, comedy: Catherine O’Hara, “Schitt’s Creek”

Miglior attore, comedy: Eugene Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior attrice non protagonista, comedy: Annie Murphy, “Schitt’s Creek" 

Miglior attore non protagonista, comedy: Daniel Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior sceneggiatura per una  comedy: Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

Miglior regia per una comedy: Andrew Cividino and Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

 


Miglior Limited Series: Watchmen (HBO)

Miglior attrice,  Limited Series o TV Movie: Regina King, “Watchmen”

Miglior attore, Limited Series o TV Movie: Mark Ruffalo, “I Know This Much Is True”

Miglior attrice non protagonista, Limited Series o Movie: Uzo Aduba, “Mrs. America”

Miglior attore non protagonista, Limited Series o Movie: Yahya Abdul-Mateen II, “Watchmen”

Miglior sceneggiatura per una Limited Series: Damon Lindelof and Cord Jefferson, Watchmen (“This Extraordinary Being”)

Miglior regia per una Limited Series: Maria Schrader, Unorthodox