domenica 30 dicembre 2018

IL MEGLIO DEL 2018: la lista delle liste


Liste liste liste… a fine anno tutti compilano la propria. Tutte sono incomplete, specie ora che stare dietro a tutti i programmi è diventato impossibile, e tutte sono parziali. Eppure le ho sempre trovate utili, un faro per orientarsi nel mare magnum delle proposte. Se un titolo comincia a comparire molte volte vuole dire che probabilmente vale davvero la pena, e se un critico che stimo e con cui sono in sintonia segnala una chicca poco nota, magari un’occhiata la do.

Come ha acutamente osservato Tim Goodman dell’Hollywood Reporter in un pezzo che medita sul compito in via di cambiamento del critico televisivo nel mutevole paesaggio visuale contemporaneo, sempre più ricco di opzioni, il ruolo di questa figura è sempre più quello di diventare dei “curatori”, segnalando quello che merita di essere preso in considerazione, e le liste in questo senso hanno un peso sempre più rilevante.

Di solito ne leggo e ne segnalo diverse. Quest’anno invece segnalo solo una lista delle liste, compilata da Metacritic, che raccoglie quelle dei maggiori punti di riferimento del settore (già 104  liste individuali al momento del mio scrivere) e che sulla base di un sistema di attribuzione di punti a seconda della posizione in graduatoria rivela i preferiti assoluti.

La lista viene modificata fino a tutto gennaio, per cui vi invito a seguire il link e verificare voi stessi le posizioni, ma per ora, per il 2018 i migliori sono stati valutati i seguenti:

  1. Atlanta
  2. Killing Eve
  3. The Americans
  4. The Good Place
  5. Barry
  6. Pose
  7. Better Call Saul
  8. Sharp Objects
  9. Succession
  10. The Good Fight
  11.  GLOW
  12.  Homecoming
  13.  BoJack Horseman
  14.  The Haunting of Hill House
  15.  The Marvelous Mrs Maisel
  16. The Assasination of Gianni Versace
  17. Lodge 49
  18. Queer Eye
  19. Big Mouth
  20. One day at a time

sabato 22 dicembre 2018

I MIGLIORI NUOVI PROGRAMMI del 2018, secondo me


Come sempre, scegliere i programmi migliori dell’anno è un’impresa e mi limito solamente, come mia tradizione, a segnalare quelli che ritengo essere i debutti più interessanti. Quest’anno ne segnalo davvero parecchi, e senza un ordine particolare. Naturalmente mi limito alla fiction, alla narrativa cioè (a scanso di equivoci visto che in Italia c’è la tendenza a interpretare il termine come riferito alle produzioni nostrane). C’è una piccola incursione di un programma di tipo diverso, ma per il resto rimango fedele alle serie. Come i migliori romanzi sono “menzogne” che raccontano la verità meglio di quanto non farebbe un programma che formalmente vuole raccontare il vero, e sono forme di “design esperienziale”, “luoghi in invenzione di forme di esperienza”, per  usare le parole di Maria Pia Pozzato (in Mondi Seriali - Percorsi semiotici nella fiction, da lei co-curato insieme a Giorgio Grignaffini - Link Ricerca - RTI, 2008) . Riescono davvero a essere arte.

I migliori nuovi programmi del 2018 per me sono:

Counterpart: tecnicamente ha debuttato nel 2017, ma gran parte della prima stagione è comunque andata in onda nel 2018, quindi la facciamo entrare. Ne ho parlato qui.

Succession: il racconto delle vicende della famiglia Roy, magnati dei media, nei suoi risvolti personali e di lotte intestine per il potere, è cresciuto progressivamente fra feroce dramma e humor tagliente.

L’amica geniale: trasmette alla perfezione le atmosfere del libro di Elena Ferrante. Se lo avete amato, non rimarrete delusi dalla trasposizione su schermo.

The End of the F***ing World: una gemma di cui ho parlato qui. Nonostante il finale è prevista una seconda stagione. Anche questa serie tecnicamente ha debuttato in Inghilterra nel 2017, ma per l’Italia su Netflix è stata resa disponibile solo del 2018, quindi la inserisco volentieri comunque.

Patrick Melrose: qui.

Sharp Objects: qui.

Pose: ne ho scritto qui. Sono stata indecisa se inserirlo nella lista o no, perché ha una narrazione molto di “conforto”, molto anni ’80  - periodo in cui di per sé è ambientata, quindi è come se in un certo senso dicesse che una certa epoca va anche ricordata con l’estetica che le apparteneva - e di buoni sentimenti. Stilisticamente e contenutisticamente è superata, si direbbe. Eppure, mostra il valore di un simile modo di raccontare, parla di un argomento attualissimo e rilevante ovvero dell’essere transessuali e di identità personale. E l’ho apprezzata anche perché conosco nella vita reale persone che afferiscono in senso ampio a quel mondo e ci ritrovo le realtà umane ed emozionali che mi sono state raccontate e in questa prospettiva lo trovo molto vero. Qui davvero si ha quel “design esperienziale” di cui sopra.

Homecoming: del thriller psicologico di Amazon Prime con Julia Roberts e la regia di Sam Esamil (Mr Robot) spero di parlare prossimamente.

Sorry for your loss: qui.

Kidding: qui.


The Haunting of Hill House: una dramma familiare mascherato da “storia di fantasmi”. Quelli autentici sono quelli personali. 

E sebbene non sia una serie, assolutamente imperdibile è pure Nanette, lo spettacolo di stand-up della comica lesbica originaria della Tasmania Hannah Gadsby (su Netflix) che, arrabbiata con gli uomini eterosessuali bianchi (e con motivo, come sentirete, non prendetevela se appartenete alla categoria), parla dell’essere gay, di identità, di bullismo, di omofobia, dell’essere donne, del significato di fare comicità e di raccontare storie, di arte (non vedrò più Van Gogh e Picasso senza pensarla)… Ci sono esilaranti battute e dolorosa rabbia, si ride di gusto e ci si commuove. Un must-see.


Poi, sono stata indecisa, non le inserirei probabilmente fra le migliori dell’anno, ma sicuramente meritano per me una menzione onorevole le seguenti serie, sulle quali spero di avere occasione di scrivere qualcosa in un futuro prossimo, se non l'ho già fatto. So che forse pure mi pentirò di non averle inserite nella lista principale. Sono:

The Kominsky Method
Wanderlust
Vida: qui.
The Assasination of Gianni Versacequi

Purtroppo non sono ancora riuscita a vedere titoli molto apprezzati e inseriti nelle liste dei migliori di molti come Barry (il pilot mi è piaciuto molto), Forever (anche qui il pilot mi è piaciuto molto)Killing EveEscape at Dannemora, Lodge 49, A very English Scandal, Schitt’s Creek… prossimamente magari… e vi saprò dire che ne penso.

Voi? Quali nuovi programmi del 2018 avete preferito?


sabato 15 dicembre 2018

MANIAC: un trial fallito


In Maniac un gruppo di scienziati ha messo a punto e sperimentano su cavie umane volontarie tre pillole (A, B e C) che hanno l’obiettivo di risolvere i problemi mentali che li affliggono: la prima espone il problema, la seconda propone scenari alternativi per affrontarlo, la terza permette di trovare una soluzione e superare il problema. Ingerendole, attraverso l’analisi di un megacomputer “umanizzato”, il GRTA, in cui il progettista ha infuso la personalità della madre psicoterapeuta, e attraverso situazioni di realtà virtuale che i protagonisti vivono nella propria mente,  si “guarisce”.

Alla sperimentazione della Naberdine Pharmaceutical Biotech (NPB) partecipano Annie Landsberg (Emma Stone), che ha una diagnosi di disturbo di personalità borderline e ha perso la sorella in un grave incidente d’auto e non riesce a superare il lutto, e Owen Milgrim (Jonah Hill), a cui è stata diagnosticata una schizofrenia, poco apprezzato dalla ricca famiglia e in particolare dal padre Porter (Gabriel Byrne), che ritiene di avere nella vita una grande missione di salvare il mondo. A seguire i loro progressi sono gli scienziati Azumi Fujita (Sonoya Mizuno), che sente una forte pressione dai superiori a fare un buon lavoro, e James Mantleray (Justin Theroux, The Leftovers), che ha sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti della famosa madre Greta (Sally Field) e che finisce per innamorarsi della macchina che ha costruito.

Remake di un’omonima serie norvegese di Espen PA Lervaag, questa proposta targata Netflix era molto attesa perché a co-scriverla insieme a Patrick Somerville è stato Cary Fukunaga, qui pure regista di tutte le puntate così come per la prima celebrata stagione di True Detective. La reazione generale è stata uno scarso apprezzamento del contenuto, stringi stringi abbastanza vacuo e nemmeno troppo originale, ma un godimento a livello estetico dell’aspetto visivo. Personalmente non ho apprezzato nessuno dei due elementi e l’ho considerato solo una grande perdita di tempo. 
 
Certo, c’è irrisione dei generi parodistici e bizzarria negli scenari virtuali immaginati, c’è empatia nei confronti del dolore psichico provato, c’è motteggio delle soluzioni semplici della pillola risovi-tutto e valorizzazione dei rapporti umani. Il tono si tiene in un buon equilibrio fra canzonatura e dolore e solitudine, in un intento comunque chiaramente comico: questo si vede. Gli attori svolgono un lavoro eccellente e Justin Theroux in particolare, dopo il ruolo iperdrammatico di The Leftovers, dimostra una notevole verve comica. Sia sul piano della forma che nel contenuto però non c’è niente che Legion non abbia già detto e meglio – incluse le scelte scenografiche e più genericamente di look di una ambientazione futuristico-vintage. Certo, quest’ultimo si prende forse troppo sul serio in proporzione, e fa voli pindarici psichedelici in cui è molto più facile perdersi, ma è allo stesso tempo molto più appagante.   

Se il trial clinico della finzione, a dispetto di tutto, ha portato a qualche risultato, non lo stesso mi sento di dire del trial televisivo.

lunedì 10 dicembre 2018

I programmi dell'anno secondo l'AMERICAN FILM INSTITUTE



Ogni anno l’American Film Institute sceglie 10 programmi che ritiene siano stati significativi da un punto di vista artistico o culturale.

Per il 2018, i premiati dall’AFI Awards sono stati:

THE AMERICANS
THE ASSASSINATION OF GIANNI VERSACE: AMERICAN CRIME STORY
ATLANTA
BARRY
BETTER CALL SAUL
THE KOMINSKY METHOD
THE MARVELOUS MRS. MAISEL
POSE
SUCCESSION
THIS IS US

Per i premiati nel cinema, e per il premio speciale, si veda a questo link.

giovedì 6 dicembre 2018

KIDDING: dolente e dolce



Kidding (dell’americana Showtime), che in italiano (su Sky Atlantic) ha preso il sottotitolo de “Il fantastico mondo di Mr Pickles”, mostra un Jim Carrey, che interpreta il protagonista principale, in quello che è il suo aspetto drammatico migliore: vulnerabile, amabile, addolorato, ingenuo.  

Jeff Piccirillo (Jim Carrey) è il presentatore di un programma televisivo per bambini in cui interagisce con pupazzi animati, il “Mr Pickles’ Puppet Time”, di grande successo: è adorato dal pubblico ed è un impero multimilionario. Lui, come il suo alter-ego televisivo, Mr Pickles – pickle significa “cetriolino sottaceto” in inglese – è un grande propugnatore di buoni sentimenti, fare la cosa giusta, comportarsi bene, con generosità e gentilezza. Jeff è nella vita reale quello che vende nella finzione dello schermo. Ora però è in crisi: aveva due figli, Will e Phil (Cole Allen), gemelli, e uno dei due è morto in un incidente d’auto un anno prima e lui è ancora in lutto, inoltre è ancora innamorato della sua ex-moglie, Jil (Judy Greer), un’infermiera che si sta rifacendo una vita con un altro uomo. Sebastian Piccirillo (Frank Langella), suo padre, ma anche produttore esecutivo dello show, è preoccupato tanto per lui personalmente, quanto per la sorte del programma se Jeff continua a comportarsi in modo strano, per quella che è un’impresa di famiglia, visto che la sorella di Jeff, Deidre (Catherine Keener), pure ci lavora, realizzando i vari pupazzi. Lei stessa sul fronte di casa non ha una vita facile: la figlia Maddy (Juliet Morris) vede il padre in una situazione sessuale compromettente con un’altra persona e comincia ad averne conseguenze nel comportamento.  

Il cuore di questa serie ideata da Dave Holstein consiste nella distruzione di un uomo buono: cerca di essere sempre al suo meglio, ma la vita gli riserva cocenti batoste. Nonostante le ammaccature, prova a rispondere ugualmente agli eventi con gentilezza – paga perfino le spese dell’uomo che ha ucciso suo figlio -, ma la verità è che dentro di lui si formano pensieri e sentimenti negativi e distruttivi, causati dall’infelicità e dalla rabbia. Non siamo in una storia di supereroi in cui assistiamo alla genesi di un supervillain, ma di fronte a un uomo comune, reale. E un uomo a cui il mondo guarda come a un faro per come bisogna comportarsi per essere brave persone e per essere felici, cose che si crede debbano coincidere, compito che sente come una responsabilità.

Un concetto ricorrente nelle puntate, espresso attraverso il programma per bambini -  in cui Jeff vorrebbe poter parlare di morte, ma dove glielo impediscono per timore di alienare il pubblico dei più piccini -, è che “ogni dolore ha bisogno di un nome”. È importante saper descrivere i propri sentimenti per saperli elaborare e gestire. È legittimo avere un lato oscuro e ammettere di averlo, è umano. Fingere di non avere sentimenti negativi è una finzione distruttiva, e verso l’autodistruzione va infatti, tristemente, il protagonista. Nella season finale ha un tracollo da cui sarà difficile farlo uscire.

Che cosa ci renda umani è un’altra idea reiterata. Jeff viene anche deriso o ignorato o attaccato per il suo essere educato. In più modi gli viene detto che non viene visto realmente come un uomo e lui insiste sul fatto che lo è, solo che è un tipo diverso di uomo. Anche se non è solo in un’unica modalità che viene affrontato questo argomento, un modo importante in cui viene fatto è attraverso il sesso. Di fronte a chi lo vede come un essere asessuato o comunque asessuale, lui ribadisce che invece è un uomo con dei desideri carnali, e non è questo a renderlo meno una brava persona. La serie, che riprende questo tema anche con il figlio del Mr Pickle giapponese (a coloro che lavorano al programma nel Sol Levante viene richiesto il voto di castità), mostra scene di sesso piuttosto esplicite e niente affatto puritane. Essere maschi veri non significa essere cafoni: un bel concetto da far passare.

Ci si sofferma tanto sul dolore: anche attraverso la figura di una donna malata di cancro con cui Jeff intesse una relazione, o con quella di un fan nel braccio della morte (1.08) che richiede la sua presenza al momento della sua esecuzione (in una toccante, commovente puntata contro la pena di morte come raramente se ne vedono).

Alla fine dei conti il programma, dolente e dolce, crede del kintsugi, un concetto che nella diegesi (1.07) entra in modo esplicito dando una evidente chiave di lettura  alla serie intera. Alle 10 puntate della prima stagione ne farà seguito una confermata seconda.    

lunedì 26 novembre 2018

A DISCOVERY OF WITCHES: anemico e privo di magia



È anemico e privo di magia A Discovery of Witches, descrizioni non proprio incoraggianti considerato che si tratta di una serie con vampiri e streghe. Già dal pilot sembrava un trippone a tinte rosa alla maniera dei film per la TV basati sui libri di Rosamunde Pilcher o affini, ma alcune recensioni dicevano che la narrazione cominciava a prendere quota al terzo episodio (sarà che c’è il primo bacio fra i protagonisti) e ho tenuto duro e continuato la visione. Talvolta programmi claudicanti all’inizio svelano il proprio potenziale in corso di via, a darci un’opportunità. Non in questo caso.

Basata sulla trilogia All Souls di Deborah Harkness  - la prima stagione corrisponde al primo libro, “Il libro della Vita e della Morte” in italiano - questa produzione britannica vede come protagonisti una potente strega riluttante ad usare i propri poteri, Diana Bishop (Teresa Palmer), professoressa di storia a Yale che studia alchimia ad Oxford, e Matthew Clairmont (Matthew Goode), vampiro ultracentenario e professore di biochimica. Diana, inconsapevolmente, facendo ricerca alla Biblioteca Bodleiana, riesce a riesumare un antico testo magico che tutti vogliono, Ashmore 782, e finisce per attirare l’attenzione di Matthew. I due, travolti dall’attrazione e dalla passione, si innamorano perdutamente, nonostante ci sia uno specifico divieto a che streghe e vampiri, fra cui ci sono contrasti che si perdono nella notte dei tempi, intreccino legami.   

La narrazione e i dialoghi sono scialbi e tediosi, e a dispetto degli studi della protagonista, non c’è alcuna alchimia fra lei e la sua controparte maschile, un vero peccato mortale lì dove quella è in fondo la vera raison d’être che giustifica le intricate vicende di demoni assortiti e le preoccupazioni della potente “congregazione”.  Quando fanno l’amore per la prima volta è tutto molto tiepido e dimenticabile. Ci si rifà un pochino nel settimo episodio, dove la regia di Sara Walker mette un po’ più di passione e verve nel rapporto intimo fra i due. La puntata tutta si eleva un poco dalle precedenti, con Diana che, insieme alle zie, “rivede” i suoi genitori, tragicamente scomparsi, e fa delle scoperte sul suo passato.

In apparenza la serie è patinata, con gloriosi setting scenografici, a partire dall’italianissima Venezia, ma non si può nemmeno dire che la cinematografia riesca ad elevarli al di là di un banale sfondo descrittivo di servizio. La recitazione è dignitosa per non dire proprio buona (penso alle zie in particolare), ma l’unico a spiccare è solo Matthew Goode che non solo è attraente e affascinante, ma mostra un maggiore investimento nel personaggio. Diana in proporzione è spenta. Non credo sia solo una mia  risposta ormonale giudicare più convincente lui di lei.
    
C’è poco da cercare metafore e sottotesto qui - si potrebbe facilmente parlare di “miscegenation”, mescolanza razziale cioè, amicizia, potere – perché è il testo proprio ad essere manchevole. La trama c’è, ma non c’è molto di più che si possa dire. La prima stagione termina con un grosso cliffhanger destinato a risolversi con la seconda stagione, che però personalmente non sarò così masochista da guardare.

Per utilizzare un termine davvero tecnico: una lagna.   

sabato 17 novembre 2018

THE FIRST: la prima missione umana su Marte


The First, la serie di Beau Willimon (House of Cards) ambientata in un futuro prossimo che ruota intorno alla prima missione dell’uomo su Marte, è molto austera e mesta. Forse anche per questo è stata accolta con favore, ma tiepidamente. Il fallimento delle aspettative, la disillusione dei sogni infranti, l’insuccesso, le delusioni, il lutto, ma anche l’arte, l’ambizione e che cosa la alimenta, il sacrificio: queste sono le tematiche principali della prima stagione. Io l’ho apprezzata più della media, ma è indubbio che è una cappa depressiva che lascia pochi spazi di respiro. Nonostante termini con un successo, è un feel-bad show.

Il razzo con a bordo le prime persone dirette su Marte esplode per un errore umano. Tom Hagerty (Sean Penn), il comandante della missione da poco rimpiazzato, si reca agli uffici della Vista, la compagnia che in collaborazione con la NASA gestisce la missione, per dare il proprio sostegno alla CEO Laz Ingram (Natascha McElhone, Californication), che tende ad essere molto distaccata da un punto di vista emozionale. L’opinione pubblica si interroga sulla ragionevolezza del progetto di fronte ad un rischio di vite e un dispendio economico così elevati. Gli astronauti però credono fortemente nel proprio progetto e lo difendono. Fra loro ci sono Kayla Price (LisaGay Hamilton, House of Cards, The Practice), che sul posto di lavoro deve fare in conti con questioni di discriminazione e graduatorie di potere; Sadie Hewitt (Hannah Ware), le cui aspirazioni spaziali mettono in crisi il rapporto sentimentale; Nick Fletcher (James Ransone) e Aiko Hakari (Keiko Agena, Gilmore Girls). Hagety viene messo a capo della nuova missione, ma la sua situazione è complicata sul fronte di casa: la moglie Diane (Melissa George, Grey’s Anatomy), che soffriva di depressione, si è tolta la vita, e la figlia Denise (Anna Jacoby-Heron), con cui c’è un rapporto conflittuale, si è data alla droga, riuscendo a disintossicarsi solo di recente.

Le puntate della serie sono un conto alla rovescia al nuovo lancio che si verifica senza intoppi nella sesaon finale – se non lo segnalo come spoiler è perché è autoevidente che lì si sarebbe andati a parare, altrimenti non ci sarebbe stata serie. Questo è un momento in cui si può finalmente tirare un sospiro di sollievo, anche se non assistiamo all’effettivo successo dell’arrivo su Marte, che suppongo sia materia per la seconda stagione. In mezzo a tecnologia futuribile molto ghiotta, in primo piano ci sono vicende umane. E in fondo ad animare il programma è anche un certo ottimismo. I protagonisti credono fortemente a quello a cui dedicano la propria vita, investono nel potere dell’immaginazione nel realizzare qualcosa di grande: il credere viene prima del vedere, sentenzia Laz (1.05). Non è un ottimismo scintillante, ma uno che sguazza nel dolore e deve farsi strada con le unghie per procedere, che deve imporsi e deve imporre agli altri rinunce gigantesche aggrappandosi alla sola forza dell’ideale.

Grazie anche a performance di rara intensità introspettiva, questa serie di Hulu mette la lente di ingrandimento sulla fatica dell’uomo, personale e collettiva, per raggiungere i propri obiettivi, per raggiungere le stelle.

venerdì 9 novembre 2018

GOD FRIENDED ME: ateismo vs. fede



È una sorta di Ultime dal Cielo in salsa religiosa God Friended Me, o forse, meglio ancora, è un più scettico e disincantato Joan of Arcadia nell’epoca dei social network, e pur presentando storie banali o comunque costruite ai limiti della credibilità, riesce ad essere amabile e giocoso a sufficienza da non alienare il pubblico di fronte ad un dibattito anche importante, quello fra atei e religiosi. Nonostante la premessa, o forse proprio per quella, spinge verso l’idea dell’esistenza di Dio, ma è aperta al confronto, al dibattito, all’incontro fra i due versanti ideologici.

Miles Finer (Brandon Michael Hall, The Mayor), figlio di un predicatore, il reverendo Arthur (Joe Morton), è un ateo convinto e ha un podcast in cui parla apertamente di queste sue convinzioni. Un giorno riceve una richiesta di amicizia su Facebook da parte di Dio. Lui rifiuta, ma l’Altissimo non molla l’osso finché lui non accetta. Seguono dei suggerimenti di amicizia che Miles si vede costretto ad accettare, finendo per conoscere le persone in questione e per aiutarle. La prima che incontra, Cara Bloom (Violett Beane, The Flash), è una giornalista con il blocco dello scrittore che grazie a lui re-incontra la madre che l’aveva abbandonata anni prima, e presto diventa una presenza importante nella sua vita. A raccogliere le sue confidenze è anche l’esperto di computer Rakesh (Suraj Sharma), che cerca con e per lui, di scoprire chi si nasconde dietro all’account “Dio”. Miles è convinto si tratti di una burla, ma allo stesso tempo non può non guardare con sospetto come segni di un Essere Alto elementi ed accadimenti che incrocia nella vita. La sorella Ali (Javicia Leslie) spinge perché padre e figlio riprendano dei rapporti più stretti.

In un mondo, e in un contesto come gli Stati Uniti, così polarizzato sulle tematiche religiose, è apprezzabile una serie che riesce a evitare predicozzi, ma a portare ragioni e argomentazioni sia per credere che per non credere in Dio, umanizzando l’altra parte qualunque sia quella di partenza. Anche lì dove c’è candore non è ebete creduloneria. Gli attori, Brandon Michael Hall in primis, sono convincenti e riescono a infondere i personaggi non solo di umanità, ma anche di un pizzico di umoristico distacco e sospetto di fronte alla bizzarria della situazione, che però indagano razionalmente. Un feel-good drama sull’americana CBS ideato da Steven Lilien e Bryan Wynbrandt.  

mercoledì 31 ottobre 2018

SORRY FOR YOUR LOSS: una serie sul lutto

È stata costruita con sensibilità e acume la serie Sorry for you loss, trasmessa su Facebook Watch (canale televisivo di Facebook: qui il link per vederla), per una prima stagione di 10 puntate che ha raccolto eccellenti recensioni. Gli argomenti principali sono il lutto, la depressione e il suicidio, per cui evidentemente non si tratta di tematiche allegre. Il registro è drammatico, ma non da svenamento, il tocco non è esattamente leggero, ma non è nemmeno tale da provocare acuto dolore nello spettatore.

Leigh Shaw (Elizabeth Olsen) è recentemente rimasta vedova, si è presa un’aspettativa dal lavoro di giornalista di una rubrica di consigli per il sito web Basically News e si è trasferita a vivere con la madre Amy (Janet McTeer), che gestisce una sua palestra, la Beautiful Beast, e la sorella Jules (Kelly Marie Tran), ex alcolista che lavora come insegnante di fitness presso la madre. Leigh, fresca del lutto - il titolo è l’equivalente italiano di “spiacenti della tua perdita” e la sigla di fissa su questa scritta fra una serie di messaggi di condoglianze che appaiono e scompaiono dallo schermo – rivive nei ricordi il marito Matt (Mamoudou Athie), un insegnante di inglese con ambizioni da fumettista che soffriva di seri problemi di depressione, e cerca di superare il lutto, grazie anche alla presenza del fratello di lui, Danny (Jovan Adepo), con cui però ha un rapporto conflittuale. Rimane il dubbio: la morte di Matt è stata incidente o suicidio?

Ideata da Kit Steinkellner, la serie tocca un tema caldo del momento nel panorama televisivo, quello del lutto, presente in forme diverse, ma in qualche caso unito ai temi della depressione e del suicidio come qui. Possiamo pensare a titoli come The First, A Million Little Things, Kidding, The Haunting of Hill HouseThis is us

Gli aspetti affrontati sono molti: di chi è e a chi appartiene il lutto, che non è l’esclusiva di una sola persona, la presenza o l’assenza degli altri come testimoni della propria sofferenza, l’effetto sugli altri e la reazione e le aspettative altrui al proprio dolore, il senso e la risposta alle condoglianze, i tempi necessari a superare una perdita, il comparare il dolore (“tu puoi avere un altro marito, io non posso avere un altro fratello” – 1.01), il che cosa sia di conforto, lo sforzo personale per superare la sofferenza, il significato degli oggetti legati ai ricordi, la consapevolezza che molto delle persone non si conosce, i piccoli dettagli,  le reazioni emotive inaspettate, come ci comportiamo con chi ci è vicino in momenti in cui siamo fortemente provati e vulnerabili, la ricerca di senso, il desiderio di rendere onore alla persona venuta a mancare, la felicità e le aspettative realistiche dalle relazioni, le cicatrici…

La protagonista, coraggiosamente da parte della narrazione, non è solo triste, ma è un groviglio di emozioni, ed è intrattabile, a lungo, prende male tutto quello che le dicono. Il riportare alla memoria è centrale: talvolta è un ricordo cosciente, a volte compiuto, altre volte volatile, in qualche caso è a cascata – un pettitino trovato in un cassetto innesca il ricordo delle nozze, poi del funerale (1.08) – o frammentario e fuggevole – Leigh non ricorda la battuta che Matt le ha raccontato quando si sono conosciuti a un party, che poi finalmente le sovviene (1.10).

Il parlare, o il non farlo, è una colonna importante di riflessione. In un gruppo di auto-aiuto la vedova condivide le proprie emozioni, ma nella vita reale spesso preferisce tecere, mentire o comunque non dire della morte del proprio marito. A chi dirlo? Quando dirlo? Si dice o non si dice per se stessi o per gli altri? “Qualche volta l’atto più generoso è tenersi le cose per sé” (1.07) viene detto ad un certo punto (con echi trasversali rispetto alle storyline della puntata). Se non dirlo alla donna che ora vive felice nella casa che tu abitavi con lui può avere senso (1.09), non rivelarlo all’uomo con cui fai l’amore e che vorrebbe una storia con te sembra irrispettoso (1.10). Si ha occasione di meditare a lungo su questi aspetti visto che la ritrosia verbale è reiterata.

“Se il dolore finisce, lui è andato” (1.10). È una serie dolorosa, sul dolore. Il senso è che la morte non è la fine del mondo, ma è la fine di un mondo, è imparare a vivere di nuovo con il dolore, a sopravvivere, a superarlo (1.01), mantenendo intatto il legame con la persona persa. È anche addentrarsi, come nelle favole si entra nella foresta, nel luogo che in assoluto fa più paura, per scoprire chi si è (1.10). Anche come spettatori.    

domenica 21 ottobre 2018

SINGLE PARENTS: genitori soli che si aiutano


“Single Parents” avrebbe funzionato meglio come dramedy che come sit-com, perché l’idea forte di base e un certo tenero sostegno amicale ci sono, ma l’umorismo scarseggia, e lì dove non fosse così forzato, non apparirebbe patetico, come talvolta succede.

Will Cooper (Taran Killam), un divorziato trentenne con una bimba, Sophie (Marrow Barkley), incontra un gruppo di altri genitori soli, che lo accolgono nella loro cerchia di mutuo-supporto e storie di vita condivise: Angie (Leighton Meester, Gossip Girl), è una madre che ha difficoltà a riprendere una vita sentimentale attiva, con il figlio Graham (Tyler Wladis) iper-attaccato a lei; Douglas (Brad Garrett, Tutti amano Raymond) è un vedovo poco avvezzo alla paternità, con due gemelle, Emma (Mia Allan) e Amy (Ella Allan); Poppy (Kimrie Lewis) che lavora in un bar, è la madre single di Rory (David Trey Campbell), un esuberante bimbo con il pallino della moda; Miggy (Jake Choi) è il neopadre tontolone dell’infante Jack.

Ha una certa dolcezza questa creazione di Elizabeth Meriwether (New Girl) e J.J. Philbin, e un giusto pizzico di stramberia. La recitazione è buona e il cameratismo fra i genitori coinvolgente. Nel mix, stona giusto il genitore di origina asiatica Miggy che mentalmente non è troppo brillante perché sembra una fotocopia dell’equivalente personaggio di The Good Place. Le vicende, cosa originale, danno spazio anche ai soli bambini, in un buon equilibrio. I grandi imparano a svolgere bene il loro ruolo di genitori, senza per questo sacrificare la propria identità. Sull'americana ABC. 

lunedì 15 ottobre 2018

COUNTERPART: psicologico ed esistenzialista

È stato un’ode alla gentilezza e un elogio alla mitezza “Counterpart”, il thriller-spionistico-fantascientifico di Starz di cui è già prevista una seconda stagione (dal 9 dicembre negli USA). Il ritmo di  questa creazione di Justin Marks è lento: è un po’ Rubicon, la serie che ricorda di più stilisticamente, un po’ The Americans, con una spruzzata di Kieslowski, di Mr Robot (ma con più tenerezza), di 12 Monkeys (dove la variabile in gioco è il luogo invece del tempo), di Wayward Pines

Howard Silk (uno spettacoloso JK Simmons, vincitore di un Oscar per Whiplash, che merita di essere nominato all’Emmy alla prossima occasione) è un funzionario di basso grado che da una vita lavora presso una agenzia delle Nazioni Unite di base a Berlino, l’Ufficio di Interscambio, ignaro di quello che è lo scopo del suo lavoro. Presto viene a scoprire che, nel 1987, un gruppo di scienziati ha accidentalmente creato un mondo parallelo. A partire da quella data, la realtà si è copiata in un doppione che sta ora progressivamente divergendo, e c’è un passaggio che permette alle due realtà di comunicare, e i rapporti fra le due parti sono segretamente gestite da autorità diplomatiche a questo preposte. ATTENZIONE, SPOILER DI TRAMA NEL RESTO DI QUESTO PARAGRAFO. L’altra parte (il mondo Prime), decimata da una letale influenza, ne dà la colpa alla parte matrice (il mondo Alfa), e intende preparare attacchi terroristici per ritorsione. E una scuola segreta addestra fin da piccoli i bambini a diventare come i loro alter ego, per poi mandarli a rimpiazzarli in qualità di spie. Howard è un uomo dolce e pacato che si reca tutti i giorni in ospedale a far visita alla moglie Emily (Olivia Williams), in coma, profondamente innamorato di lei. Presto incontrerà il suo corrispondente, che al contrario di lui è tosto e ha fatto carriera, e, nonostante le resistenze del direttore della strategia, Peter Quayle (Harry Lloyd), viene coinvolto nei progetti del suo doppio, del suo “counterpart”, e si scoprirà altro della moglie, che un’assassina, Baldwin (l’italiana Sara Serraiocco, Francesco) è stata mandata ad uccidere. Lo stesso Peter scoprirà che la propria moglie, Clare (Nazanin Boniadi), non è chi lui credeva di essere.

Che l’ambientazione sia Berlino, un tempo divisa in due realtà diverse da un muro, non è casuale, ovviamente: identità e doppio sono in primo piano, l’allegoria della Guerra Fredda è esplicita. Il tono è vagamente filosofico, esistenzialista, di riflessione su che cosa ci renda noi stessi e quanto le scelte che facciamo ci modellino, su quanto l’ambiente in cui viviamo condizioni quello che diventiamo, sull’importanza di vivere per se stessi e non a imitazione di altri, sulla sostanza verso l’apparenza, su quali valori rendano una persona degna di ammirazione, sull’opacità dei rapporti umani, sull’amore…  e lo fa con delicatezza, e con una modulazione apparentemente minima, dimessa, ma che assorbe completamente l’attenzione dello spettatore. Il colore dominante si direbbe il grigio.

Le due realtà, e in particolare Howard, sono in un certo senso uno specchio distorto l’una dell’altra e paradossalmente è proprio in questa distorsione che è possibile vedersi meglio: esaminare se stessi e immaginare un’alternativa a quello che si è. Questo è ciò che affascina gli autori in primo luogo ed il loro oggetto di interesse principale. È la realtà psicologica il fulcro della narrazione, più che non l’azione, ridotta all’essenziale.  

Forse non per il palato di tutti, ma una delle migliori serie del 2018. Ideale per il binge-watching. 

domenica 7 ottobre 2018

THE GOOD DOCTOR (2.02): mutilazione genitale, consenso, menzogna


È cominciata molto sottotono la seconda stagione di The Good Doctor, ma si è subito ripresa con una memorabile, potente seconda puntata scritta da David Shore (House).

Continuo a ripensare a quell’episodio che ha toccato temi importanti e ha dimostrato come questa serie, non eccelsa ma significativa come tavola rotonda sullo Zeitgeist contemporaneo, riesca ad avere momenti che si elevano dall’ordinario.

Nella puntata in questione, “Middle Ground” (2.02), una delle storie principali riguardava la mutilazione genitale femminile.
ATTENZIONE SPOILER. Una ragazza minorenne, Asha/Mara (Camille Hyde) si rivolge al pronto soccorso per chiedere la ricostruzione vaginale, dopo che una mutilazione genitale che i genitori le hanno fatto fare all’età di due anni, l’ha lasciata piena di cicatrici. Lei si vergogna e non accetta quello che le stato perpetrato e chiede aiuto. Pur sapendo che la ragazza è minorenne e ha dato un nome finto, la dottoressa Audrey Lim (Christina Chang) finge di non accorgersene per poterla aiutare senza dover allertare i genitori. Fatta l’operazione, la ragazza si sveglia con fortissimi dolori e risulta chiaro che il motivo è che la mutilazione non è stata completa e rimane del tessuto nervoso sensibile. A questo punto i genitori devono necessariamente essere coinvolti. Le soluzioni, da un punto di vista medico, sono due: o si ricostruisce salvando i nervi che ci sono, con la possibilità di recuperare la sensibilità al piacere; o, cosa chirurgicamente più semplice, si finisce quello che è stato cominciato e si rimuovono tutti i nervi. La dottoressa spinge per la prima opzione. La ragazza, sedata perché sopporti i dolori, svegliata appositamente, di fronte ai genitori dice di volere la seconda. Non convinta, Audrey chiede di sentire la ragazza da sola, e lei ribadisce che non se la sente di tradire la sua cultura e la tradizione. La chirurga, a dispetto di quello che le ha detto la ragazza, mente e dice che lei è favorevole per la prima opzione. Quindi viene fatta una ricostruzione. Al risveglio, tutto è andato bene. I genitori di lei non vengono messi al corrente, ma la Mara si accorge di quale operazione sia stata fatta: le era stato spiegato che per la ricostruzione avrebbero preso del tessuto dall’interno della sua guancia, e toccandosi la guancia con la lingua ha capito. Sorride e ringrazia la dottoressa.

Questa vicenda, è stata significativa in sé e per sé nel contenuto, perché affronta un tema importante e poco dibattuto e fin troppo presente, denunciandone la barbarie e la criminalità. Ma, per quanto sia significativo esplorare diritti umani, si è andati al di là del trattare un social issue importante. Altre questioni sono emerse, anche con l’eco della storia parallela. Il dottor Shaun Murphy (Freddie Highmore) si accorge che un inserviente dell’ospedale soffre di cancro al pancreas. Vogliono fargli dei test, ma senza spiegargli la vera ragione per non spaventarlo. Il giovane medico, nonostante le buone intenzioni, non riesce a mentire - ma nella sua parabola di apprendimento alla fine della puntata invece ce la fa  - e glielo rivela. L’uomo in questione viene spinto ad operarsi, pur non volendolo, dai familiari che vogliono per lui una vita più lunga che l’alternativa consentirebbe, solo pochi mesi di vita. Sebbene l’operazione vada bene, ci sono delle complicazioni e lui muore. La famiglia si colpevolizza, ma Shaun mente dicendo che l’uomo in realtà l’operazione la voleva.

Attraverso entrambe queste storie, si esamina un concetto molto attuale nel dibattito sociale, trasversalmente presente nella società odierna (penso all’ambito del sesso, ma non solo), e molto più labile di quanto normalmente possa sembrare: quello del consenso. Qui, si mostra come il consenso non sia così lineare e apparentemente scontato, ma si presti a delle aree grigie più significative di quanto normalmente non si ammetta, e di come talvolta un sì non sia del tutto convinto. Qui si affronta una tematica morale importante, e si ammette che non ci sia una risposta bianca o nera.

Il secondo grande tema affrontato, che in questo caso si intreccia al primo, e che è un grande favorito dell’autore già dai tempi del dottor House, è quello della menzogna. È sempre la cosa giusta dire la verità? Quando è lecito mentire e quando è bene dire la verità? Che cosa ci fa decidere per l’una o per l’altra cosa? Qui, da entrambe le storie, alla fine si giunge alla conclusione che non è rilevante dire la verità se questa non aiuta. Va bene mentire. Devo dire che non sono del tutto a mio agio con questa conclusione. Non so se la condivido. Tuttavia, non posso negare che qui io abbia trovato corretta moralmente la soluzione dei personaggi. Indipendentemente dalla mia posizione in proposito penso che sia fantastico che la serie riesca porci davanti a questioni etiche così quotidiane e rilevanti.

Penso che sia stata una puntata coraggiosa su più livelli, e rispetto al tema della menzogna in particolare, penso che si sia adottata una prospettiva di fatto abbastanza impopolare. È più comune sentire difesa la verità sempre e comunque. Qui i personaggi optano per la soluzione opposta, con delle implicazioni anche deontologiche importanti. Mi è tornata in mente una citazione di Brian Kinney in Queer As Folk, a cui ho ripensato più volte negli ultimi mesi, ovvero che, parafrasando, non è mentire se la sola verità che riescono ad accettare è la loro. Mi ha sempre fatto pensare molto, e qui penso che si adatti alla prima delle due storie raccontate. 

Di fatto io non sono sicura che avrei agito con i personaggi, ma mi piace essere messa nella posizione di interrogarmi su che cosa avrei fatto io e essere lasciata in sospeso a riflettere su quale sia il comportamento morale più giusto. Penso che questo sia uno dei grandi poteri della televisione e della narrazione in generale. Qui, la serie ha davvero dimostrato un potenziale realizzato, mostrando come anche serie di fatto qualitativamente meno ambiziose di molte altre possano offrire intrattenimento pregnante.

giovedì 4 ottobre 2018

OSSERVATORIO TV 2018: online il libro


È ora online il libro "Osservatorio TV 2018". Qui potete scaricarlo gratuitamente. Io partecipo con due saggi.

Sotto, l'indice:

Presentazione di Barbara Maio
Introduzione di Lorna Jowett
Bates Motel (A&E 2013) Kelly Andrade
Black-ish (ABC 2015) Giada Da Ros
Dark (Netflix 2018) Sara Mazzoni
Erased (Netflix 2017) Lorenzo Manuel D’Anna
Happy Valley (BBC 2014) Daniela Pizzuto
Inhumans (ABC 2017) Barbara Maio
La Casa di Carta (Antena 3/Netflix 2017) Désirée Favero
Mr.Robot (USA Network 2015) Giada Da Ros
Outlander (Starz 2014) Ellen Nerenberg
Shameless US (Showtime 2011) Désirée Favero
  
Buona lettura!

lunedì 1 ottobre 2018

MANIFEST: un pilot deludente



È stata una delusione il pilot di Manifest (sulla NBC negli USA, su Mediaset Premium in Italia, con una sola settimana di distanza dall’originale), descritto in partenza come un Lost al contrario con l’aggiunta di un pizzico di This is us, ed il motivo principale è che, seppure sia stato fatto un lavoro anche dignitoso, è stato molto ordinario  e insipido su ogni livello: sceneggiatura e dialoghi, regia, recitazione…

La premessa è di per sé intrigante. Un gruppo di persone a bordo di un aereo in volo dalla Jamaica a New York, il Montego Air Flight 828, attraversa una turbolenza piuttosto pesante, ma che si risolve nell’arco di poco tempo. Una volta atterrati, i passeggeri vengono accolti con shock dalle autorità e poi dai familiari, che non sanno spiegarsi che cosa sia successo: se per chi era in volo sono stati attimi, a terra sono trascorsi più di 5 anni, durante i quali tutti loro sono stati presunti morti. Ben Stone (Josh Dallas, Once Upon a Time) e il figlioletto Cal (Jack Messina), che soffre di cancro, ora ritrovano rispettivamente una moglie e una madre, Grace (Athena Karkanis), e una figlia e una sorella gemella, Olive (Luna Blaise), cresciuta, e la scienza avanzata al punto da poter potenzialmente salvare la vita di Cal. La sorella di Ben, Michaela (Melissa Roxburgh), una poliziotta, viene a sapere che il fidanzato Jared (J.R. Ramirez) è diventato detective e si è sposato con la sua migliore amica. Sia lei che Ben poi hanno perso la madre. La ricercatrice medica Saanvi (Parveen Kaur) realizza che il lavoro da lei fatto prima di “scomparire” è stato nel frattempo messo a frutto permettendo di curare molti pazienti pediatrici. Le autorità cercano di capire che cosa sia capitato e intanto tutti i “sopravvissuti” cominciano a sentire delle voci che danno loro dei comandi su cose da fare.   

La serie ideata da Jeff Rake (The Mysteries of Laura) accenna appena allo sconvolgimento emotivo da cui sarebbero realisticamente travolti i protagonisti, per concentrarsi molto di più sul fatto che percepiscono questi comandi che li aiutano a sventare pericoli o risolvere problemi nel mondo che li circonda, confusi dal loro ruolo in quello che li rende una sorta di “eroi involontari”. Stanno forse impazzendo?  

L’influsso di Lost è evidente non solo per il fatto che si tratta di un volo aereo con un twist poi sovrannaturale, ma anche dall’attenzione ad esempio ai numeri che compaiono ai protagonisti, a partire proprio da quel Flight 828, che poi viene rivisto in altre occasioni, compresa una  citazione biblica amata dalla madre dei protagonisti,  Romani 8:28:  “tutto concorre al bene”. Il confronto con la serie di culto è devastante per Manifest. Chi dimentica l’occhio di Jack che si apre, nel modello emulato? Qui alla fine della visione non rimane nella memoria alcuna scena o fotogramma, salvo forse la bella scritta del titolo, nella title card. È assente ogni brivido, ogni autentica tensione, per lo spettatore: un peccato mortale con materiale di questo potenziale.

La rende tediosamente terribile la prospettiva che si trasformi in una missione della settimana spiritual-sovrannaturale, se non addirittura religioso-cristiano, qualcosa di, è il caso di dirlo, di manifesto – Daniel Fienberg ricorda appropriatamente su The Hollywood Reporter che il Manifest del titolo, ovviamente la lista dei passeggeri di un volo,  non può non far ricordare che la teoria del “Destino Manifesto” è la nozione che l’espansione coloniale bianca attraverso il Nord America era voluta da un potere superiore. Da leggere le sue osservazioni sul tema della religiosità nel pilot della serie.