martedì 31 dicembre 2019

La migliore TV del 2019: la lista delle liste


Il sito Metacritic ogni anno compila una lista delle liste, ovvero prende le liste di fine anno dei migliori programmi TV secondo i critici delle principali testate e, assegnando a ciascuna serie punteggi diversi a seconda del posto in graduatoria, individua quali sono state giudicate le migliori. Il criterio, tradotto rispetto a quanto scrivono, è il seguente:

3 punti per ogni 1° posto in classifica
2 punti per ogni 2° posto in classifica
1 punto per essere stato classificato dal 3° al 10° posto o per essere stato inserito in una lista non classificata
0,5 punti per essere inclusi in un elenco non classificato di 11-20 titoli (invece di 10), o per ogni voce in elenchi separati di commedia/dramma di 10 titoli a testa (indipendentemente dalla classifica di tali elenchi)

Le opinioni espresse sono raccolte fino a fine gennaio, per cui la lista lista – che eventualmente trovate quiè ancora passibile di aggiornamento, ma al momento del mio scrivere le migliori serie dell’anno sono state considerate:

1.       Fleabag
2.      Watchmen
3.      Succession
4.      Russian Doll
5.       Chernobyl
6.      When They See Us
7.       Barry
8.      Unbelievable
9.      The Good Place
10.    PEN15
11.     The Other Two
12.    Lodge 49, e a pari merito Schitt's Creek
13.    -
14.   Euphoria
15.    Stranger Things
16.   Better Things, e a pari merito Bojack Horseman
17.     
18.   Undone
19.    The Good Fight
20.   Ramy, e a pari merito The Mandalorian
21.   -
22.   I think you should leave, e a pari merito Years and Years
23.   -
24. Pose, e a pari merito, Fosse/Verdon


giovedì 26 dicembre 2019

I MIGLIORI NUOVI PROGRAMMI del 2019, secondo me


Come ogni anno scelgo  quelli che ritengo i migliori nuovi programmi. È vero che questo mi impedisce di segnalare ottime produzioni che non ho fatto in tempo a vedere al debutto, ma preferisco così. Se andassi indipendentemente dall’anno di produzione, come mio preferito dell’anno quest’anno sceglierei Succession, che avevo segnalato lo scorso anno fra i nuovi migliori. La seconda stagione, di cui ho parlato qui, lo conferma un must.

Quest’anno in ogni caso ha un ricco carnet di debutti molto buoni. Ecco sotto i titoli, in ordine alfabetico, con cui non si può sbagliare:

Chernobyl: molto classica, ma potente. Ne ho parlato qui.

PEN15: non ci sono molte riflessioni telefilmiche sulle tween, ma qui vengono guardate con affetto e intelligenza. Il mio post in proposito è qui.

Ramy: della prima serie con protagonista una famiglia arabo-musulmana ho parlato qui, ma prossimamente avrò un nuovo post su una puntata specifica. 

Russian Doll: la cosa da sapere è che questa meditazione esistenziale è una metafora dalla dipendenza da sostanze. Su tutto il resto si legga quello che ho scritto qui.

Sex Education:  la seconda stagione di questa scoppiettante, dolce commedia adolescenziale arriva su Netflix il 17 gennaio. Quello che intanto ho pensato della prima si può leggere qui.

Years and Years: pura pigrizia (ero al mare d’estate quando l’ho vista) non mi ha fatto scrivere, tragicamente, su una delle migliori miniserie dell’anno, uscita dalla penna del mio amato e sempre brillantissimo Russell T. Davies (Queer As Folk, Cucumber, A Very English Scandal), che qui presenta una summa dei suoi temi e riflette la realtà contemporanea in modo superbo, con un pizzico di Black Mirror, ma con uno spirito meno conservatore rispetto a questa. Rimando, volendo, ala recensione che ne ha fatto l’ora ex-critico di punta di The Hollywood Reporter, Tim Godman, qui. Basti dire che la serie guarda nel tempo, negli anni e anni del titolo fino al 2026, alla famiglia Lyons nel contesto degli stravolgimenti politico-sociali che si verificano in Inghilterra e nel mondo, e con un’ottica all’impatto della tecnologia (una storia riguarda l’essere trans-umani). C’è un partito politico, i 4 stelle, nella diegesi. Una curiosità: ho chiesto direttamente a Davies (che su Instagram risponde ai suoi follower) se si fosse ispirato ai nostri 5 stelle, ma mi ha risposto di no, che l’idea è nata molto prima. Ora che ne accenno mi pento amaramente di non averci scritto. Queste cose vanno fatte a caldo, ma se la riguardo cercherò di rimediare.

Watchmen: ne ho appena parlato qui. Lindelof si conferma un autore di peso nel panorama televisivo contemporaneo.


Non li indico fra le migliori dell’anno, ma penso meritino una menzione onorevole (sempre in ordine alfabetico) queste serie:

Euphoria: qui.

Fosse / Verdon: qui. E forse sbaglio a non metterlo nella lista dei migliori.

Gentleman Jack: qui.

Modern Love: ne parlerò prossimamente in un post, e se mi ricordo aggiungo il link successivamente.

Shrill: qui.

State of the Union: ecco un’altra serie di cui mi pento di non aver avuto modo di scrivere. Sono 10 puntate di circa 10 minuti ciascuna, dalla penna di Nick Hornby, basata sul suo omonimo libro (disponibile nelle nostre librerie anche in traduzione italiana). L’ho letto e la serie è praticamente la messa in scena verbatim di quanto c’è sulla pagina. Le variazioni sono minime. Una coppia in crisi matrimoniale viene osservata nei 10 minuti che precedono le sessioni di terapia da una psicologa. Sono in un pub vittoriano a Londra e parlano. Il ritmo è incalzante, con stoccate e scambi verbali veloci e brillanti. Godibilissimo, e anche con un certo spessore di riflessione sui rapporti di coppia. Di Sundance TV.

Non metto in lista, ma solo perché ha appena debuttato, Work in Progress. Lo cito perché dalle prime tre puntate penso che potenzialmente potrebbe entrare se non fra i migliori programmi dell’anno quanto meno nelle menzioni onorevoli. Titoli che sono entrati nella lista di molti, come Unbelievable, When they see us e The other two, ancora non ho avuto modo di vederli.

giovedì 19 dicembre 2019

WATCHMEN: fenomenale


L’informazione essenziale da conoscere per comprendere l’estetica della nuova serie della HBO Watchmen è che l’ideatore è Damon Lindelof (Lost, The Leftovers), il che equivale a dire contorti e dolorosi percorsi emozionali, allegorie visionarie, vicissitudini complesse mostrate in modo limpido, ma in cui ugualmente non tutto è sempre chiaro, ma va bene così perché è l’esperienza quella che conta, non necessariamente il singolo dettaglio, anche se, se ci ritorni, scopri che ovviamente è meticolosamente studiato, apparenti voli pindarici con rimandi fra una parte e l’altra, profonde epifanie spirituali che distruggono e capovolgono le tue convinzioni… Chi ha familiarità con la sua scrittura, coglie al volo la sua cifra poetica.

La serie - di che durata potenziale nel tempo non è dato sapere fuori da una prima stagione di 9 episodi - è una estensione dell’omonimo capolavoro a fumetti del 1987 della DC ideato da Alan Moore e Dave Gibbons (l’illustratore). È un sequel nel senso che è un follow-up degli eventi lì narrati, ma non lo è nel senso che non è obbligatorio essere letterati nelle vicende della carta stampata per comprendere quello che si svolge sullo schermo, ma certamente aiuta sapere almeno qualcosa e, come diversi critici hanno suggerito e io stessa che ne ero digiuna ho fatto, non guasta leggersi qualche pagina di Wikipedia in proposito, se non altro per sapere che si tratta di un’ucronia in cui gli Stati Uniti hanno vinto la guerra del Vietnam, Nixon è rimasto presidente per 5 mandati e ora presidente è Robert Redford. Nel 1985 un’apparente creatura aliena a forma di calamaro ha ucciso 3 milioni di persone a New York, un evento conosciuto come 11/2, il 2 novembre, chiaro parallelismo all’11 settembre.

Siamo a 34 anni di distanza dagli eventi del fumetto, in una realtà in cui i poliziotti devono girare con il volto coperto da maschere per non farsi riconoscere, dopo che anni prima solo stati decimati dal loro nemico principale, il Settimo Cavalleria, un gruppo terrorista di supremazisti bianchi che indossano la maschera del vigilante Rorschach e ora sembrano voler tornare all’attacco. La polizia si avvale anche di alcuni vigilanti autorizzati e fra questi spicca Angela Abar (una sempre straordinaria Regina King), nota come Sorella Notte, che aiuta il capo della polizia Judd Crawford (Don Johnson) e l’agente Wade Tillman / Specchio (Tim Blake Nelson). Il vigilantismo mascherato, a causa dei metodi violenti utilizzati, è altrimenti fuori legge. A capo di una task-force dell’FBI contro questi giustizieri mascherati c’è Laurie Blake (Jean Smart, Legion), lei stessa in passato una di loro, conosciuta come Spettro di Seta II.

Questa da parte di Lindelof  (TVs Top 5 – ep. 44 – 25 ottobre 2019) vuole essere una “lettera d’amore” nei confronti di Alan Moore, che tanto lo ha influenzato nella sua formazione letteraria, sebbene questi abbia dichiarato di non approvare che i personaggi da lui ideati vengano ripresi da altri. Questo atto di ribellione contro la volontà dell’autore – possibile perché la proprietà intellettuale è della DC e della Warner Bros - Lindelof la giustifica dicendosi animato dallo stesso spirito audace di Moore stesso che a suo tempo si è appropriato di Swampman, Superman e Batman, che pure non erano stati ideati da lui, facendone opere notevoli. Il meta-tema dell’intera stagione peraltro è quello dell’appropriazione.  

Lindelof riconosce anche il debito nei confronti dal saggio di Ta-Nehisi Coates - ha anche cercato, invano, di incontrarlo - apparso su The Atlantic e intitolato The Case for Reparations, di cui è dall’inizio imbevuta la narrazione che debutta, con un incipit nella sala di un cinema muto, con gli incendi e distruzione avvenuti nella vita reale di quella che era considerata la Wall Street nera, a Tulsa, in Oklahoma, nel 1921, vicenda ripresa poi anche nella notevole “Questo essere straordinario” (1.06) in cui Angela rivive i ricordi del nonno dopo aver ingerito delle pillole chiamate Nostalgia - non specifico ulteriormente in proposito per evitare spoiler, ma la regia è stata notevole.

Tutta la serie è fortemente metaforica. È una ricerca sulle domande principali che interessano tutti noi, ovvero chi siamo e perché ci comportiamo come facciamo e che significato ha la vita, e in primo piano ci sono i rapporti razziali, il terrorismo, la forza della memoria e della storia, i pregiudizi, la brutalità della polizia, il potere, l’identità, la giustizia, la paura, la rabbia, l’eroismo,  le maschere… su quest’ultimo  argomento si ragiona un bel po’ - e qui i rimandi letterari a cui si può pensare sono molteplici, dalla punta della mente mi escono immediati Pirandello e Wilde – e quello che si è riusciti a dire sull’essere neri, rispetto a questo, ha del sorprendente. E la spiegazione su chi è Hooded Justice (Giustizia Incappucciata), la cui identità rimane un mistero alla fine del fumetto, e sul come sia venuto in essere, che viene svelato qui, non solo ha tutto il senso del mondo, ma è stata un’invenzione che si sente alla fine come una cosa necessaria da raccontare. Idem rispetto a come è stata gestita la questione dell’”identità umana” del dottor Manhattan. Chapeau.  

Sono molto forti gli echi di Lost. In “Little fear of lightning – Una leggera paura dei fulmini” (1.05, con un titolo che è una citazione da “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne), che racconta la origin story di Wade Tillman/Specchio, ci sono momenti in cui si ripensa alla botola e all’inserire i numeri, altri in cui tornano alla memoria i video Dharma; e nella gestione del tempo di “A God Walkes into Abar – Un dio entra in un bar” (1.08) si può ragionevolmente ripensare alla più famosa delle puntate di Lost, “The Constant” (4.05). Ma i riferimenti sono anche altri. Ugualmente intensa risuona l’eredità del capolavoro del decennio The Leftovers, dall’uso della musica, al rapporto con l’universo e con il senso del divino, dall’essere inascoltati e soli, alla fede avuta per una vita che crolla, ai fenomeni inspiegabili, alla natura del tempo e dell’esistenza…

Nella seconda metà in generale la serie decolla proprio. In “Un dio entra in un bar”, in cui entra in scena il dottor Manhattan (1.08) l’allegoria è spettacolosa, la profondità della riflessione religiosa è superlativa e i parallelismi con la Bibbia (dall’incarnazione divina, all’annunciazione, all’amore di Dio, al messaggio cristico, alla natura di Dio) sorprendenti. Il personaggio, come dio, non ha un’esperienza del tempo lineare, ma vive tutto come un eterno presente. È stato reso alla perfezione. Anche le scioccanti bizzarrie del personaggio di Adrian Veidt (Jeremy Irons), un lord che vive su Europa, una delle lune di Giove, con Mr Phillips (Tom Mison) e Ms Crookshanks (Sara Vickers) qui finiscono per avere un senso.  

Con la season finale, che vede in prima linea anche Lady Trieu (Hong Chau) – e a questo proposito invito a leggere le pregnanti osservazioni di Lindelof sulla forza di gravità narrativa, fatte su Vulture -  ogni tassello va magicamente a posto, tutto e chiaro e inevitabilmente necessario, e impeccabile sul piano della trama. Non è stata la mia puntata preferita, ma è sbalorditiva per come ha saputo chiudere tutto e concordo con James Poniewozik, critico televisivo del New York Times, che ha twittato (qui) che è stata un finale da standing ovation in salotto. L’ultima scena è stata interpretata da molti come un cliffhanger, e può ben esserlo, ma solo per chi non è disposto ad accettare una chiusura in qualche modo sospesa. Per me è stata perfetta anche quella. Se ci sarà una seconda stagione, ben venga, ma non serve aggiungere altro, rimane completa anche così.

Fedele alla propria essenza fumettistica e al proprio passato, ma allo stesso tempo sovversiva ed eticamente, umanamente e politicamente rilevante per la realtà contemporanea, Watchmen è stata complessivamente fenomenale.

giovedì 12 dicembre 2019

L'AMERICAN FILM INSTITUTE sceglie i 10 programmi dell'anno


Come ogni anno l’American Film Institute ha scelto quelle che ritiene le serie più significative dell’anno, con gli AFI Awards. In ordine alfabetico i premiati sono:

Chernobyl
The Crown
Fosse / Verdon
Game of Thrones
Pose
Succession
Unbelievable
Veep
Watchmen
When they see us
Premio speciale: Fleabag

Naturalmente vengono anche scelti i 10 film dell’anno. Potete vedere l’elenco qui.

giovedì 5 dicembre 2019

1000° POST: che cosa ti spinge a seguire una serie?

La foto è mia. L'ho scattata al Cantor Center for Visual Arts, a Stanford (California, USA), lo scorso 18 settembre 2019. Si tratta di un pezzo di Edward Kienholz e Nancy Redding Kienholz, all'interno di una mostra che, ispirandosi a McLuhan, è stata intitolata "The Medium is the Message". Per ulteriori notizie su questo pezzo, rimando a un post scriptum al post. 

Questo è il mio millesimo post, e per l’occasione voglio dedicarlo non a un programma specifico, ma alla TV in generale. Chiedo a chi mi legge, quello che mi sono chiesta più volte io stessa: che cosa ti spinge a guardare una serie tv? Che cosa ti fa decidere di iniziarla e proseguirla, o che cosa invece di abbandonarla?

Io concepisco le serie televisive come forme di “design esperienziale”, per usare una dicitura di Maria Pia Pozzato, e comunque le vedo come un modo per dilatare il mio mondo, per avvicinarmi ad altre prospettive, e davvero ampliare le mie vedute grazie a momenti di risonanza empatica con modelli cognitivi e “patemici” in cui non necessariamente mi riconosco. 

In questo momento della mia vita, guardo pochissimi  programmi che non siano di narrativa televisiva e, con la vastità di scelta che c’è, mi capita raramente di ri-guardare qualcosa, a meno che non debba scriverci un saggio o comunque qualcosa di molto consistente. Le ragioni sono fondamentalmente che si riesce a malapena a stare dietro alle produzioni nuove, e in parte dipende dei miei problemi di salute, che mi consentono di vedere meno di quanto vorrei, per quanto più che in passato. Ammetto che mi manca il piacere e la qualità della visione che è permessa solo da reiterati approcci al materiale, che si arricchisce di sfumature dalla ripetizione in sé e per sé. Penso che ci sia molto valore nel farlo, ma me lo concedo di rado. 

Sempre la salute mi impedisce un vero binge-watching, che facevo sulle videocassette anni prima che il termine venisse coniato. Anche qui, do importanza al passaggio del tempo nella visione, perché che ci sia o meno fra una puntata e l’altra non credo sia irrilevante, ma sono in grado di apprezzare entrambe le modalità di fruizione, che sono esperienze in parte diverse.

In fondo credo che la televisione, così come la lettura, sia un po’ come il cibo. Tutti sanno che cos’è, ma è un’esperienza unica e diversa per ciascuno, ed è qualcosa che magari non ricordiamo, ma che ci nutre e che ci fa diventare quello che siamo. Come tutti ho i miei gusti, ad esempio non sono una grande amante dei gialli e dei crime in senso ampio, ma sono onnivora e anzi cerco di spingermi a guardare cose che potenzialmente non mi attirerebbero necessariamente. Contemporaneamente sto attenta alla mia dieta visiva, non nel senso di preservarmi o schermarmi da cose violente o spinte o controverse, anzi, in quel senso non mi faccio nessun problema, ma ci sono molti programmi a cui magari potrei anche dare una possibilità, ma che getto in un calderone che scherzosamente chiamo “la vita è troppo breve per questo“. Sicuramente scelgo di seguire anche cose che non mi piacciono, una volta che ne ho intrapresa la visione, come modalità di “ascolto” di una prospettiva che solo in conclusione posso capire dove intendeva portarmi.

Nel guardare un programma televisivo, cerco la qualità, ma non disdegno né disprezzo programmi che valuto mediocri, quando non terrificanti. Penso che la creatività umana abbia un valore, e talvolta anche programmi che intellettualmente giudico minori hanno un loro importante peso. A volte cose meno brillanti ci parlano in modo più diretto, per qualche motivo, perché toccano comunque delle corde dentro di noi. In ogni caso, io stessa mi sono nutrita di molte ciofeche, di una buona dose di storielle formulaiche e stereotipate, nel corso dell’adolescenza soprattutto, e penso che sia un diritto di ciascuno di avere legittimamente il proprio percorso formativo, fatto di tante visioni bizzarre, fatto di errori e di tempi persi, di scelte di cui ci si vergogna. Anche quelle servono. 

Da più giovane tendevo ad essere snob nei confronti dei gusti televisivi delle persone, e se è inevitabile che mi faccia un’idea di qualcuno sulla base di quello che guarda, allo stesso tempo ora mi considero molto più indulgente perché penso che sia giusto che le persone scoprano le cose con le proprie modalità e i propri tempi. Magari sono io che certi programmi non sono preparata per o in grado di coglierli. E magari ci arrivo dopo. 

Considero le serie TV un forma d'arte, al suo meglio, ma ammetto anche di non avere più lo stesso fuoco sacro che mi animava un tempo, e mi chiedo se sia dovuto all’età che avanza o se sia invece dovuto alla grande abbuffata avuta nel tempo che mi fa entusiasmare sul serio veramente per poche produzioni. Probabilmente un po’ tutte e due.

Di mia tendenza recupero poco poi le serie vecchie. Cerco di rimanere sulla cresta dell’onda temporalmente parlando. È il mio modo di assorbire lo zeitgeist. Però capisco chi scava nelle miniere del passato, e rimpiango di non trovare il tempo di farlo io stessa.

Per un mese all’anno poi, solitamente ad agosto, digiuno: non guardo nulla. Mi è utile questo stacco, mi ricorda che cos’è il mondo senza televisione, ma alla stessa maniera in cui stacco volontariamente, riprendo con coscienza a nutrirmene.

Alla fine io scelgo di guardare una serie che seguo fondamentalmente per tre motivi:

1. Mi piace. Qui non c’è qualità che tenga, un programma può essere buono o no, ma se mi prende, mi fa piacere seguirlo. Un esempio di questo potrebbe essere per me The Orville, che razionalmente non giudico in modo particolarmente favorevole, ma che a dispetto di tutto mi piace. In questa categoria possono esserci cose che di fatto invece anche reputo molto intelligenti e brillanti e vera arte televisiva. Quando c’è qualcosa di veramente mozzafiato, che mi stupisce per come è realizzata e per quello che dice, lo percepisco nel sangue, veramente “it blows my mind”, come mi verrebbe da dire in inglese, ho un sorta di “wow” dentro di me, pieno di stupore, di meraviglia, di ammirazione. Un po’ come la consapevolezza di innamorarsi. In questo momento un programma del genere è per me Succession. Quando sono davanti a qualcosa di veramente grande me ne accorgo istintivamente, e inevitabilmente mi piace. 

2. Ha un grande seguito di pubblico. Se una serie è fortemente seguita, ci do almeno una possibilità, perché ritengo che sia un valore in sé riuscire ad aggregare molte persone: probabilmente si riesce a percepire qualcosa nel DNA della società di quel momento per cui si riesce ad essere così popolari. C’è chi al contrario è sospettoso di tutto quello che ha troppo successo, ma non è il mio caso.  Se il programma non mi convince, la popolarità in sé non me lo fa apprezzare, però ritengo che ci sia appunto un quid significativo nel successo nella misura proprio in cui raccoglie il consenso. E seguire qualche programma molto popolare mi fa sentire comunque parte della società e di quello che viene consumato in uno specifico momento. Rimpiango di non aver mai seguito Dallas, negli anni 80, e questo perché insegnanti che avevo alle medie non volevano che si guardasse.  Quando in seguito ho provato a seguirlo, non mi hai ispirato granché, però rimpiango di non aver fatto quell’esperienza nel momento in cui andava fatta. Oggi questo cavalcare l’onda della popolarità ha ancora più senso per le modalità contemporanee e social della fruizione. Il Trono di Spade mi è piaciuto parecchio, ma parte del piacere aggiunto veniva proprio dai consensi che riceveva, dalla conversazione mondiale, dalla condivisione di momenti salienti con altri fan. In passato mi è capitato di sentire che ci impatta anche la televisione che non guardiamo, nel momento in cui la guardano gli altri, e penso che ci sia molto di vero in questo. Per quello, essere consapevole di qualcosa che tira molto mi interessa. Un esempio di questo per me potrebbe essere This is us. È un programma che trovo gradevole, anche se un po’ troppo strappalacrime, ma di cui ho un’opinione media – ne apprezzo molto alcuni aspetti, ad esempio il discorso che sta facendo sulla mascolinità, ma complessivamente non ne sono entusiasta. Eppure, la sua popolarità, fa sì che io lo stia seguendo, almeno per il momento.

3. Una serie è molto apprezzata dalla critica. Sarà che sono io stessa una critica, ma do peso al giudizio e alle recensioni della critica. In altri argomenti in cui sono meno competente, spesso vedo con sospetto l’opinione degli esperti, perché è troppo scollata da me. In campo di televisione, sarà che appunto mi ritengo competente, ma sono spesso in sintonia, specie con alcuni esperti  che diventano un po’ la mia guida. Cerco sempre di ricordarmi di questo, e in modo biunivoco. Quello che voglio dire è che quando vedo che la critica, su argomenti in cui non sono so granché, apprezza cose che io non riesco a comprendere, ci do comunque un valore ricordandomi che c’è di base una competenza che io non ho. E quando vedo chi non è competente in televisione non apprezzare quello che dice la critica, cerco di ricordarmi che io mi trovo nella stessa situazione in altri settori. Chi sa vede e coglie aspetti che chi non sa non vede nemmeno. Concordo con l'ormai ex-critico di punta di The Hollywood Reporter, Tim Goodman, che nel panorama attuale, così fortemente in cambiamento peraltro, il ruolo di chi professionalmente è chiamato a guardare ed esprimere giudizi su quello che vede è un po’ quello di curatore. Ci sono stati diversi programmi che nel tempo ho guardato solo perché erano apprezzati dalla critica. Questo non significa necessariamente che poi io debba godermeli, però penso che sia stata sempre una scelta saggia affrontare questo genere di visioni. L’apprezzassimo Twin Peaks io non ho mai amato particolarmente, pur capendo razionalmente le ragioni delle lodi che riceve. In ogni caso l’ho guardato dall’inizio alla fine e sono contenta di averlo fatto. Mi sarei fatta impalare piuttosto che guardare Friday Night Lights, ed essermi costretta a farlo mi ha fatto scoprire uno dei programmi che mi sono piaciuti di più nel tempo, anche se ammetto di non averlo ancora terminato, e ho finito addirittura per leggere il libro da cui è tratto, che aveva vinto il Pulitzer. Solitamente, anche lì dove poi non concordo con la maggioranza della critica, di solito non mi pento di aver seguito qualcosa anche lì dove magari non mi è piaciuta. Raramente si è rivelato una perdita di tempo.

Il mondo del piccolo schermo sta cambiando rapidamente: per lo streaming, i vari dispositivi che modificano le modalità di fruizione, i nuovi attori produttivi, il sempre maggiore peso delle libraries e delle IP, le intellectual properties... mi chiedo quali fattori di cui non sono consapevole condizionino le mie scelte più di quando mi renda conto. 

Concludendo comunque, queste sono decisamente le ragioni che mi spingono a guardare una serie. Quelle che mi spingono a mollarla dopo che l’ho seguita per un po’, sono decisamente più nebulose e non ho delle regole consapevoli in questo caso.
Voi?


PS. Come scrivevo nella didascalia alla foto, si tratta di un’opera dei coniugi Kienholz (lui nato nel 1927 e morto nel 1994, lei nata nel 1943 e ancora vivente). Accanto all’immagine, la spiegazione diceva “Il team di marito e moglie conosciuto unitariamente come “Kienholz” è noto soprattutto per i suoi assemblaggi crudi e provocatori che commentano gli aspetti più oscuri della cultura e dell’ideologia americana. L’articolo onnipresente nella loro casa e studio era il televisore. Un oggetto che consideravano essere – nel bene e nel male – il più quintessenzialmente americano. Durante tutte le ore di veglia molti televisori erano accesi, a casa, riempiendola con notizie e rumore. I Kienholz hanno creato più di trenta assemblaggi unici che presentavano televisori di fortuna. Realizzati con materiali di scarto, come vecchie lattine dell’olio e blocchi cilindri, ciascun “televisore” non è in grado di funzionare pienamente. Rivelando disgusto e fascinazione in parti uguali, la fissazione dei Kienholz per l’impatto della televisione sulla società americana sembra anche più rilevante oggi”.   

mercoledì 27 novembre 2019

LOOKING FOR ALASKA: in cerca del senso della vita

Premetto che non ho letto “Looking for Alaska - Cercando Alaska”, ma ho comunque familiarità con la scrittura di John Green per aver letto “Colpa delle Stelle” e “Let it snow, let it snow, let it snow”, di cui è da poco disponibile su Netflix la trasposizione in film. Sono consapevole perciò del fenomeno per adolescenti che ha rappresentato, ed ero curiosa di vedere che cosa ne sarebbe uscito nella versione realizzata in accoppiata con un altro nome molto popolare della scrittura per young adults, come si dice ora, e in questo caso sul versante televisivo, ovvero con  Josh Schwartz (Gossip Girl, The OC, Nancy Drew), che ne ha ricavato un omonimo adattamento in 8 parti. Spiritualmente si percepisce che c’è affinità fra i due autori. Green è qui fra i produttori esecutivi. 

Siamo  nel 2005. Miles “Pudge - Ciccio” Hater (Charlie Plummer), un ragazzo con una fascinazione per le ultime parole pronunciate dalla gente prima di morire, lascia i genitori in Florida per frequentare in Alabama la Culver Creek Academy, alla ricerca del suo “Grande Forse”, come disse il poeta francese Rabelais in punto di morte. Suo compagno di stanza, Chip “il Colonnello” Martin (Denny Love), è una specie di istituzione nella scuola per i suoi scherzi, perpetrati soprattutto contro i Weekday Warriors – i Settimana Corta, un gruppo di ragazzi ricchi della scuola con cui c’è una forte rivalità. Chip presenta a Miles la sua migliore amica, Alaska Young (Kristine Froseth – la conosciamo per The Society, ma questa produzione è antecedente), una ragazza che non vuole tornare a casa per le feste e si interroga su “Come esco da questo Labirinto?”, citazione da un libro di Marquez. Miles si innamora di lei. I tre fanno presto comunella, insieme ad altri amici, fra cui Takumi (Jay Lee), si confidano gli uni con gli altri, e organizzano attività e scherzi insieme, nonostante l’occhio vigile del severo, ma umano direttore del liceo, Mr Starnes (Timothy Simons), detto l’Aquila. Nelle vite dei ragazzi un ruolo di rilievo lo ha anche l’anziano insegnante di religioni del mondo, il Dr Hyde (un sempre mirabile Ron Cephas Jones, This is us). 
   
Gioca sull’effetto nostalgia questa miniserie pre-cellulari – il protagonista chiama i genitori da un vecchio telefono a filo attaccato al muro. È una storia di formazione, che nella sua trasposizione televisiva non stravolge nulla, ma è solida e amabile, pur con una nota di dolore. Il punto forte sta nella trama e nei personaggi con una verbalità un po’ alla Dawson’s Creek, ovvero con adolescenti che parlano molto, con molta appropriatezza linguistica e riferimenti letterari e con una consapevolezza che dimostra una maturità notevole per la loro età, anche rispetto alla capacità di guardare e ammettere onestamente le proprie emozioni. Più prosaica è la regia, nonostante noti bene LaToya Ferguson su Indiwire quando osserva che Schwartz ricrea qui quella che è uno delle sue iconiche scene di The OC, ovvero quella del pilot in cui Ryan, diretto a Chino, passando in auto, dal sedile posteriore della macchina vede Marissa – qui è Miles che vede Alaska, sebbene Miles sia più un Seth Cohen che un Ryan Atwood.

I protagonisti vengono mostrati nella vulnerabilità dovuta alla loro età, nell’incertezza di sapere quello che vogliono essere e di cercare un senso alla vita, e il valore delle relazioni. La vena filosofico-riflessiva viene sia resa più esplicita che più incisiva all’interno della diegesi attraverso quello che i ragazzi studiano a scuola.  Ricevono dal loro insegnante il compito di rispondere a un quesito: qual è la domanda più importante a cui gli esseri umani devono rispondere? Ci interroghiamo sul senso della vita, su quale sia il miglior modo di vivere, sulla morte, sul valore della sofferenza. Le varie tradizioni spirituali rispondono a proprio modo e ciascuno lo fa con la propria vita. In questo gli adulti rappresentati sono particolarmente riusciti, nel senso che loro stessi hanno e contemporaneamente non hanno la risposta. Sono più maturi, ma non completi, potremmo dire. È fin troppo facile rappresentare gli adulti presenti nella vita di persone di quest’età come bidimensionali, macchiette distanti e poco in contatto con la realtà, ma non qui, dove gli adolescenti stessi sono in grado di vederli sì come delle autorità che li limitano, ma con una propria storia e le proprie difficoltà. Questo equilibrio fra le generazioni pure è un elemento di sintonia con The OC.    

Il confine fra scherzi e bullismo avrebbe potuto essere approfondito di più, specie in un momento storico come questo, e sono ragazzi che bevono e fumano, ma condivido l’osservazione di Kathryn VanArendonk su Vulture, quando dice che ovviamente non si arriva agli eccessi di un Euphoria, ma che la differenza è che queste dissolutezze sono rappresentate più come un dato di fatto che non con intenti allarmisti o celebrativi.

Looking for Alaska in versione TV (Hulu) non è una folgorazione, ma nemmeno una perdita di tempo. La nota distintiva alla fine è l’ordinarietà delle vicende, in un certo senso, ma forse proprio in questo c’è pregnanza, c’è umanità. Quello che è messo a fuoco in modo notevole, anche perché permea in modo diffuso tutto l’arco narrativo, è il senso che  la vita è un “to be continued” con margini non sempre definibili, con tante incertezze e sbavature, che sono fuori dal nostro controllo, è fatta di rimpianti e delusioni, e nonostante questi si va avanti, conservando i ricordi belli. Crescere, diventare adulti, è impararlo, anche se non diventa mai più facile affrontarlo. 

domenica 17 novembre 2019

GENTLEMAN JACK: la "prima lesbica moderna"

Basata sui diari (di 4 milioni di parole - qui in proposito – molta parte dei quali scritti in codice – inseriti nel programma UNESCO Memoria del Mondo) di una persona realmente esistita, Gentleman Jack (HBO, BBC1) racconta le vicende di quella che possiamo definire “la prima lesbica moderna”, Anne Lister, interpretata con acume e passione da un’impeccabile Suranne Jones (Coronation Street, Vanity Fair) che si mostra in un notevole spettro – arcobaleno forse, potremmo dire – di emozioni.   

Siamo nel 1832, ad Halifax, nel West Yorkshire, in Inghilterra. La volitiva Anne torna in città dagli zii e dalla sorella Marian (Gemma Whelan, Game of Thrones) dopo che la sua amante, Vera Hobart, la lascia per sposare un uomo. È ben nota a tutti, sia per il look androgino e gli atteggiamenti che sfidano le convenzioni, sia per la sua fermezza nel curare in prima persona gli affari di famiglia e rimettere in sesto la tenuta di Shibden Hall (che originariamente doveva essere il titolo della serie), trascurata in sua assenza. La seguiamo nelle vicende personali, e nel crescere del suo amore per la ricchissima Ann Walker (Sophie Rundle), che aveva inizialmente attirato le sue attenzioni proprio per ragioni di interesse pecuniario, come in quelle di gestione economica, pronta a infilarsi in prima persona in miniere di carbone (1.04) e a contrastare rivali in affari, in particolare i fratelli Rawson, che vogliono metterle i bastoni fra le ruote.

Ideata e interamente scritta da Sally Wainwright (Happy Valley, Last Tango in Halifax), anche regista di alcuni episodi,  la serie è un dramma storico, ma con un taglio decisamente attuale, specie nel modo in cui in alcuni momenti i personaggi rompono la quarta parete e ammiccano (e parlano perfino) allo spettatore in modo complice. E da subito, la camminata, il suo incedere baldanzoso (su una specifica musica molto incisiva), ce ne mostra immediatamente il carattere, intenso e energicamente determinato. Nel corso delle puntate l’aspetto più interessante è proprio vedere questa volitività accostata alla quieta disperazione della consapevolezza di non poter avere ciò che vuole alla luce del sole, di essere sempre sul punto di ottenere qualcosa che poi le sfugge: per paura, per ostilità, per convenzioni sociali, per appropriatezza… La prima stagione ci regala un lieto fine, ma è comunque una risoluzione positiva solo personale, c’è sempre una lotta con una società che la ostracizza e cerca di “metterla al suo posto” (con la violenza se necessario – 1.05) se occupa spazi che secondo i mores del suo tempo non le competono: negli affari come negli affetti.

Anne ha una consapevolezza della uguaglianza dei gay ante litteram e una notevole integrità nell’essere chi è. Alla sua ritrosa amante, Miss Walker, che si vergogna di se stessa, nei momenti di crisi trova ripugnanti e contro Dio le spinte affettuosità fra persone dello stesso sesso e teme il biasimo della società, dichiara apertamente che lei è nata così, che la natura è varietà, e lei vuole rispettare la propria e desidera una compagna per sé, non la donna di un altro uomo, perché quello sarebbe per lei mentire e tradire (1.05). Interessante anche come noti che l’omosessualità, illegale e punita con impiccagione per gli uomini, non è tale per le donne, segno di un sessismo che non si è mai molto interessato della sessualità femminile. Omofobia e omertà si rinfocolano a vicenda - “Quello di cui non si parla non è sempre quello di cui non si sa”, viene osservato, in una realtà dove certe verità è comunque meglio non dirle e stabilire distanza per evitare di esserne associati. Temi ancora contemporanei e con una sensibilità di oggi.    

Il ritratto che viene dipinto è quello di una donna “strana” per chi la circonda, ma capace di essere se stessa, spaventata dalla banalità e dalla mediocrità, intellettualmente curiosa, brillante, indipendente e audace, che ama viaggiare e conoscere il mondo, anche se per autoprotezione deve tenere segreto il più autentico sé.  Una seduttrice anche, cosciente del suo fascino e dell’effetto che ha sulle donne che ne sono sensibili.

Si riflette sull’essere donna, sull’identità e sull’amore, sul matrimonio e sui rapporti personali, anche attraverso storie secondarie di una domestica che rimane incinta e di un affittavolo patricida, Tom Sowden (per chi ha seguito le vicende viene da chiedersi se quel cognome sia stato dato di proposito, considerato che “sow” è scrofa e “den” tana).  

Alle 8 puntate della prima stagione ne farà seguito una seconda.

giovedì 7 novembre 2019

La seconda stagione di SUCCESSION: stupefacente

È la serie del momento, quella da non perdere. Avevo indicato Succession (HBO) fra le migliori nuove serie del 2019 in un mio post, anche se poi non ho mai scritto sulla prima stagione. Nella seconda si conferma come un appuntamento imperdibile, un commento graffiante sull’era Trump – la prima table read della serie pare sia stata fatta proprio il giorno delle elezioni. È shakespeariana (con il bardo anche citato esplicitamente), una morality tale alla Chaucer per dirla con uno degli interpreti (qui), è inventiva, intelligente, crudele, attuale, sottile, spavalda, spietata, satirica, umoristica…

Al centro delle vicende c’è sempre la famiglia Roy  - modellata pare sui Murdoch, ma anche con un pizzico dei Redstones e dei Kennedy -  e le manovre personali e d’affari per accaparrarsi la gestione dell’impresa di famiglia, la Waystar Royco, un conglomerato mediatico titanico. Il patriarca Logan (Brian Cox) è un umorale re Lear, al suo terzo matrimonio -  con Marcia “Marcy”, di origine libanese -, che tiranneggia non solo i suoi sottoposti, conscio del proprio potere, ma anche i suoi figli, desiderosi di compiacergli. Se nella prima stagione era in fin di vita, e appunto si cercava di capire chi gli sarebbe succeduto alla guida dell’impresa di famiglia, ora è sano e vitale e intenzionato a decidere lui. Ha un pessimo rapporto con il proprio fratello, Ewan (James Cromwell, American Horror Story, The Young Pope), che lo definisce peggio di Hitler, un uomo moralmente corrotto che ha creato un “impero di merda” (2.08).

Il figlio della prima moglie, Connor (Alan Ruck, Persons Unknown) ha poco interesse per gli affari aziendali, preferisce dedicarsi allo stimolo del momento, che sia cercare di accaparrarsi la vendita del pene di Napoleone o lanciarsi in politica come possibile candidato alla Casa Bianca, mettendo in ridicolo la famiglia con la sua inettitudine. Il primogenito della seconda moglie, Kendall (Jeremy Strong, Masters of Sex), il più interessato a prendere le redini dal padre, ha un forte problema di abuso di sostanze e un matrimonio fallito alle spalle; alla fine della prima stagione rimane coinvolto in un incidente simile a quello di Chappaquiddick, di cui è al corrente solo il padre che lo protegge, e questo lo tortura nel corso del nuovo arco narrativo, rendendolo una specie di zombie completamente asservito al genitore, a cui aveva cercato senza successo di ribellarsi. In “Vaulter” (2.02) pugnala alle spalle in modo plateale i dipendenti di una azienda che credevano in lui:  “Mio papà mi ha detto di farlo” risponde con quasi scioccante candore alla domanda sul perché lo avesse fatto.

Il fratello più giovane, Roman (Kieran Culkin), è una sorta di giullare lecchino interessato più a divertirsi che a impegnarsi davvero negli affari di famiglia – mi ha ricordato un po’ il primo Curtis Alden (Christpher Marcantel) di Quando si Ama, se non fosse che questi raccoglieva in sé anche il dolore qui incarnato da Kendall. Uno dei risvolti più affascinanti della seconda stagione è stata la costruzione del rapporto fra lui e la consigliera generale dell’azienda, che gli fa da mentore, Gerri (J. Smith-Cameron). La sorella Siobhan “Shiv” è quella politicamente più sveglia e brillante e, anche se le sue idee sono all’opposto di quelle della sua famiglia, è la possibile vera erede alla dirigenza dell’impero e nel corso di tutta la seconda stagione il suo ruolo nel futuro degli affari e come viene gestita l’eventuale successione è uno dei migliori esempi della profonda sottigliezza di cui è capace la serie - sia a livello affaristico che umano. È sposata con Tom (Matthew Macfayden) che è un dirigente nell’azienda di famiglia, e in questa stagione ha un ruolo importante in un network stile Fox-news, ma che si sente sempre l’anello debole e non ha esattamente le mani pulite. Presto diventa una sorta di mentore del cugino Greg (Nicholas Braun), nipote del fratello di Logan, che arriva come neofita nelle file di famiglia e cerca di navigarle al meglio. Un po’ ingenuo, ma non poi del tutto, è noi, in un certo senso, in quanto outsider degli intrallazzi e costantemente vagamente a disagio dalle situazioni in cui si trova coinvolto, ma in cui cerca di trovare un proprio ruolo. Il rapporto fra Tom e Greg è declinato in modo molto umoristico, e in questa stagione ancora di più.

Due volti nuovi nel secondo arco sono stati quelli di Rhea Jarrell (Holly Hunter), CEO dei Pierce Media Group (PGM), che Logan Roy intende acquisire, e Nat Pierce (Cherry Jones), la proprietaria, a capo di una dinastia mediatica di sinistra che pare sia modellata sui Sultzbergers che controllano il New York Times o i Bancroft del Wall Street Journal, i Chandler del Los Angeles Times o i Taylor del Boston Globe (per approfondire questo tema si legga Slate).   

L’ideatore Jesse Armstrong (Peep Show, In the Thick of It, ma ha fra le altre cose ha scritto anche la 1.03 di Black  Mirror, un episodio a mio avviso molto riuscito) con questa creazione può essere ritenuto, come Emily Nussbaum ha definito David Chase di The Sopranos, un iconoclasta e un profeta del disgusto, in questo caso anche con un “tono idiosincratico” e  propensione all’assurdo che dà ragione a chi ha definito la sua creazione una sorta di Arrested Development più dark, oltre che un Trono di Spade più politicamente astuto (THRl’articolo vale la pena leggerlo anche per scoprire chi sono i consulenti dello show sulle news televisive, media, finanza e affari, politica, eventi sociali, matrimoni e altro).

La serie è dolorosamente tranciante rispetto al dispotismo e il nepotismo delle oligarchie plutocratiche; tagliente nel mostrare gli aspetti più feroci e senza scrupoli degli affari, dei passi falsi e delle alleanze che si modificano, degli accordi traditi e delle inaspettate fortune o sfortune; agghiacciante nel mettere in scena il bullismo e il sadismo del potere fuori controllo – il miglior esempio è “Hunting” (2.03) in cui il patriarca umilia alcuni suoi sottoposti costringendoli a inginocchiarsi e a grugnire e competere per delle salsicce; terrificante e caustica – in “Safe room” (2.04) si riesce a ridere di nazismo, pedofilia e a un funerale, e a dolersi di un Kendall suicidario; tanto a tratti smaccata, quanto sottilissima negli scambi umani: che siano i virtuosistici passaggi verbali della cena in “Tern Haven” (2.05), Kendal che cerca di confidarsi con la propria madre (“Return” - 2.07) o Shiv e Marcy che affrontano Rhea (“Dundee” - 2.08); tutte queste cose spesso insieme come nella mirabile season finale con twist di chiusura che diverte nel flipper dei protagonisti che cercano di decidere chi sarà la persona designata al “sacrificio di sangue” (2.09) ovvero a prendersi la colpa di uno scandalo che riguardava le navi da crociera della compagnia, e sorprendente nella risoluzione ultima della faccenda con una puntata che, sullo sfondo di un ricchezza economica inarrivabile – si svolge su uno yacht che oltre a cabine di lusso, ha una piscina interna e un’area di atterraggio per l’elicottero – è costruita di fatto su una singola e sola frase molto semplice che Logan dice al figlio Kendall: “non sei un killer” (2.10).  Potrebbe ricordare una soap-opera, ma non cede mai ai toni melodrammatici. Stupefacente.  

Il poster della serie mostra la famiglia riunita con sullo sfondo a ogni stagione una diversa opera d’arte, che immagino una chiave di lettura: nella prima si è trattato della “Caccia alla Tigre” di Rubens, nella seconda di “Dante e Virgilio all’Inferno” di Bouguereau. Appropriatamente però ho visto che qualcuno su twitter ha commentato la season finale, e specificatamente il comportamento di Logan verso Kendall, usando l’immagine di “Saturno che divora i suoi figli” di Goya. Della memorabile sigla di apertura rimane come un tarlo il tema musicale di Nicholas Britell – “ha giustapposto un pianoforte tradizionale con un beat hip-hop incombente come suono principale, con corde distorte e elettronica inserita per enfatizzare ulteriormente questi contrasti” (Vulture) -  che torna ricorsivamente anche nel corso della diegesi.

Già non vedo l’ora per la terza stagione.