lunedì 8 aprile 2019

RUSSIAN DOLL: un trip ricorsivo metaforico


In Russian Doll (Netflix), ovvero “matrioska”, Nadia Vulvokov (Natasha Lyonne, Orange is the New Black) è una programmatrice di videogiochi che, il giorno del suo 36esimo compleanno, muore investita da un’auto, dopo aver lasciato la casa di Maxine (Greta Lee), l’amica che le ha organizzato una festa nel suo appartamento ad Alphabet City a New York, in quello che era precedentemente una yeshiva. È proprio nel bagno di quell’appartamento però che si risveglia, per morire ancora e ancora in modi molto diversi, e ritrovarsi sempre lì ancora e ancora. Non ne capisce il perché e il per come e cerca di venirne a capo, in particolare con il sostegno di un nuovo amico, Alan Zaveri (Charlie Barnett). Nella vita di Nadia ci sono anche il suo ex, John (Yul Vazquez), che sta divorziando e ha una figlia, e Ruth (Elizabeth Ashley), un’amica più anziana che fa la terapeuta e che per lei negli anni è diventata quasi una madre surrogata.
   
È inevitabile, vista la premessa, ripensare al magnifico classico della cinematografia Groundhog Day – Ricomincio da capo, sebbene la sorte del protagonista lì fosse meno cruenta perché non moriva (necessariamente), ma semplicemente riviveva sempre lo stesso giorno, quello della marmotta (ovvero il 2 febbraio), mentre qui il tempo dato fino alla morte successiva non ha un tempo prestabilito. Anche qui una stessa canzone accompagna ogni risveglio, in questo caso “Gotta Get Up” di Harry Nilsson. Qui non assistiamo però a una commedia romantica, ma più a un dramma esistenziale. Che ci sia una dipartita, per quanto temporanea, è significativo, anche se di fatto il tema non sembra essere quello della morte. In un’intervista all’Hollywood Reporter, la protagonista, che è ideatrice insieme a Amy Poehler e Leslye Headland, esplicita il baricentro speculativo, che risulta essere anche autobiografico, ovvero che tutti ci presentiamo in un certo modo al mondo esterno, ma una volta che si scava, si porta alla luce tutta un’altra persona: l’idea è che a un party puoi provare a essere ogni persona che vuoi, ogni volta diversa, ma alla fine rimani con il vero te stesso e con quella persona bisogna fare i conti.

In particolare il tema principale, metaforico, ma piuttosto evidente da subito e anche qui autobiografico, è quello dell’abuso e della dipendenza da sostanze e di un percorso verso la sobrietà. Molti aspetti puntano in questa direzione: dalla menzione diretta di uno spinello e di droghe in senso ampio all’inizio di tutto, che lei individua come possibile causa del trip che sta avendo; al loop di situazioni che vita dopo vita si ripresentano, proprio peraltro come in un videogioco (e i parallelismi in questo senso pure sono ingranati nel testo e risuonano su più livelli); alla possibile presa in considerazione di religione e di psicoterapia; all’idea che si muore ogni giorno; all’incontro al parco con un senzatetto che si fa chiamare Horse (Brendan Sexton III), cavallo, che è uno dei nomi slang che si dà all’eroina; al restringersi della realtà e al perdere via via persone nella propria vita (1.07); all’essere incastrati in un meccanismo tutto proprio mentre per gli altri il resto della vita va avanti, con quel simbolo della frutta che marcisce che si fa progressivamente sempre più evidente, sia nella effettiva presenza sullo schermo che nel suo significato…

Ogni volta che si resetta la realtà si fanno scelte e sono queste che fanno la differenza. La soluzione a cui la serie punta per uscire dall’abisso è un’istruzione precisa: gli altri, la connessione umana, aiutarsi. Quello è il solo modo di non morire ancora e ancora, per non autodistruggersi: non cercare di risolvere i problemi da soli, come fa l’eroina del primo videogioco progettato da Nadia, un game irrisolvibile.  E in conclusione, nel tornare alla normalità (1.08), non riconosciamo chi ci è amico, e chi ci sta aiutando, ma se riusciamo ad avere nell’altro fiducia a sufficienza da farci aiutare, è una strada che è possibile percorrere.
  
Sul New Yorker si fanno accostamenti con il libro di Kate Atkison Life After Life, e con le serie Search Party, Fleabag, The Leftovers e Maniac, ma sebbene colga le ragioni di simili riferimenti, non sento di condividerle. Nel caso di Search Party però ho visto solo il pilot, e Life After Life e Maniac forse sono i più affini, ma non mi sono stati elicitati dalla visione.

La serie ha numerosi livelli di lettura, grazie anche a immagini chiave che aprono porte interpretative multi-significato, come il gatto Oatmeal/Semolino e gli specchi, giusto per citare due totem particolarmente evidenti. Gonfia, densa, pregna, dolorosa, umoristica, Russian Doll, in cui tempo, moralità e mortalità si intersecano con eleganza e originalità, è facilmente uno degli apici creatici di quest’annata televisiva. 

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