domenica 26 novembre 2017

GLOW: le Grandiose Lottatrici del Wrestling


Ideata da Liz Flahive (Nurse Jackie) e Carly Mensch (Weeds, Nurse Jackie, Orange is the New Black) per Netflix, e ambientata a Los Angeles negli anni ’80, GLOW sta per “Gorgeous Ladies of Wrestling”, ovvero, in italiano, le Grandiose Lottatrici del Wrestling, e re-immagina la messa in scena di quella che era una effettiva trasmissione televisiva dell’epoca con quel titolo.

Ruth Wilder (Alison Brie, Community, Mad Men) è un’attrice che non riesce a trovare un ingaggio perché immancabilmente non rispecchia il genere di donna che cercano – nella primissima scena la vediamo fingere (capiremo poi) di sbagliare ruolo in un’audizione e leggere così la parte maschile, perché il ruolo femminile è limitato a poche battute di servizio. Incappa in un regista di film di serie-B che aspira alla fama, Sam Sylva  - Marc Maron in un ruolo che, come è stato giustamente osservato, gli calza a pennello più di quando interpreta se stesso. Per finanziare il suo prossimo progetto intende realizzare uno spettacolo di wrestling al femminile, ingaggiato da un giovane ricco appassionato, Bash (Chris Lowell). Al casting call si presentano donne di ogni forma e misura, diverse delle quali faticano a trovare una collocazione perché appunto è difficile inquadrarle.

Sylva assume presto anche Debbie Egan (Betty Gilpin, Masters of Sex), un’attrice diventata famosa per un ruolo in una soap opera. Ruth e Debbie sono amiche, ma questo cambia quando quest’ultima, che ha appena avuto un bambino, scopre che l’altra ha avuto una relazione con il marito Mark (Rich Sommer, Mad Men). L’ostilità trova sfogo sul ring quando assumono, costruendoli progressivamente, i propri ruoli di scena, diventando rispettivamente Liberty Belle (Debbie) e Zoya the Destroya (Ruth), significanti dello scontro USA-Russia. Presto tutte le donne selezionate devono imparare le regole e le mosse di questo uno sport-spettacolo, e incominciano a conoscersi: Carmen “Machu Picchu” Wade (Britney Young), che proviene da una famiglia di lottatori di wrestling professionisti, aspira anche lei ad esibirsi, ma ha molta paura del pubblico; Cherry “Junkchain” Bang (Sydelle Noel), un’attrice che ha un passato personale e professionale con Sam; Sheila, la “donna lupo” (Gayle Rankin); Rhonda “Britannica” (come l’enciclopedia) Richardson (Kate Nash), la “donna più intelligente del mondo”, inglese e pronta a colpire le avversarie con un libro; Arthie “Beirut the Mad Bomber” Premkumar (Sunita Mani), costretta suo malgrado a un ruolo di terrorista; Tammé “la regina del Welfare” Dawson (Kia Stevens, una wrestler nella vita reale), maschera della nera che vive di sussidi pubblici dell’era Reagan… Il ring diventa una sorta di “luogo sacro” dove si scontrano ideali diversi.

Essendo neofite, non guasta che al’inizio siano terribili nelle mosse che devono svolgere. E i personaggi, insieme al pubblico, apprendono quanto c’è di finto e quanto c’è di vero, e le modalità narrative di questo sport – “È una soap opera!” esclama Debbie in un momento “eureka”, cogliendo in pieno i parallelismi sottostanti ai due generi. Nei costumi e nell’atteggiamento, incarnano dei personaggi che sono l’amplificazione di archetipi, sbattuti in faccia senza pudore. È quasi una Commedia dell’Arte con gusto camp. E le lottatrici, spinte nei propri ruoli verso stereotipi esasperati, scoprono al contempo se stesse, gli spazi in cui il mondo vorrebbe incasellarle e, ad un tempo, la forza intrinseca di queste semplificazioni e la necessità di liberarsene. Nessuno spera di fare grande arte, c’è una certa disillusione in questo senso, ma nemmeno si guarda il genere dall’alto in basso con la puzza sotto il naso. E la serie riesce a tratteggiare un’umanità piena di vulnerabilità e coraggio che cerca, e trova, il suo riscatto.

Fuori da Ruth, Debbie e Sam, gli altri personaggi sono un po’ di contorno, anche se alcune lottatrici vengono abbozzate e c’è il potenziale di svilupparle in tempi successivi, un po’ alla Orange is the New Black – non è un caso che produttrice esecutiva sia la stessa di quella serie, Jenji Kohan (in proposito vale la pena ascoltare la puntata che la riguarda di WTF, il podcast di Marc Maron, ovvero quella del 26 giugno 2017). Per la prima volta, che mi risulti, si mostra un personaggio, Sheila, che identifica se stessa, nella vita, con un animale, un lupo. Ci si commuove nel vedere la sua riconoscenza (1.04) quando, in seguito a uno screzio collegato al fatto che devono condividere una camera di un motel, Ruth si rivolge a lei considerandola, in un certo qual modo, una lupa.   

A mettere in moto le vicende è in fondo un’amicizia tradita ed è questa sotto i riflettori primariamente, con le ripercussioni delle scelte fatte e la difficoltà delle amiche di parlarsi. Ruth deve anche fare i conti – ATTENZIONE SPOILER - con una gravidanza indesiderata e la decisione nel suo caso è “facile da prendere” (1.08): le autrici hanno lavorato con Planned Parenthood, l’organizzazione no-profit che si occupa di salute riproduttiva negli Stati Uniti e globalmente, per far sì che l’aborto sicuro e legale, un tema caldo come non mai nel dibattito politico americano, fosse rappresentato in modo accurato.

Anche se non si è fan del wrestling, è facile entrare in questo mondo di donne “non convenzionali” che, anche se speravano di sfondare in modi diversi, cercano una propria posizione nella vita da cui poter brillare. Ci si affeziona a loro con facilità.

Nessun commento:

Posta un commento