martedì 16 agosto 2022

WOMEN OF THE MOVEMENT: la disumanità del razzismo

Il solo elemento che non mi abbia convinto di Women of the Movement, miniserie in sei puntate dell’americana ABC, è il suo titolo. Non si vede che parli così specificatamente del ruolo delle donne. Forse era più adatto “Woman of the Movement”, al singolare, in mancanza di una scelta alternativa. Basato su fatti veri, e in particolare sul libro  Emmett Till: The Murder That Shocked the World and Propelled the Civil Rights Movement di Devery S. Anderson e, in post-produzione anche influenzato dal libro Death of Innocence: The Story of the Hate Crime That Changed America di Mamie Till-Mobley e Christopher Benson, parla di un crimine d’odio, il brutale assassinio di un quattordicenne nero, Emmett (Cedric Joe) che aveva osato rivolgere la parola a una bianca e del successivo processo che si è risolto con l’assoluzione dei colpevoli. Si focalizza in particolare sulla madre del ragazzo: prima di Rosa Parks, prima di Martin Luther King, c’era lei, Mamie Till-Mobley che si è ferocemente battuta per trovare giustizia a suo figlio e ha dato una spinta al movimento per i diritti civili. Appropriatamente, in chiusura ci viene mostrata la vera Mamie, mentre passa la mano su un’iscrizione di quegli eventi, su un monumento che commemora la cronologia delle date storiche del movimento. 

La forza del programma, ideato e in gran parte scritto da Marissa Jo Cerar, sta nell’essere di denuncia della disumanità e assurdità del razzismo e celebrativo del coraggio di chi ha cercato di sradicarlo anche quando tutto era loro contro, ma nel non cadere in un’agiografia da favoletta. Siamo nel 1955. La trama si dipana con una scansione regolare: il giovane Emmett che viene mandato in vacanza dallo zio, il revedendo Mose Wright (Glynn Turman) con le raccomandazioni della madre Mamie (Adrienne Warren) che gli fa presente che la Chicago da cui viene non è il profondo sud della cittadina di Money, in Mississippi, dove sta andando, lui che entra in un negozio e parla con una donna bianca, lui che viene prelevato di notte e ucciso (1.01); il ritrovamento del corpo e l’arrivo dei giornalisti (1.02); il funerale, in cui la madre lascia che il corpo martoriato del figlio venga mostrato al pubblico che va a rendere l’ultimo addio (1.03); l’inizio del processo e la ricerca dei testimoni (1.04); le vicende nell’aula di tribunale (1.05) con le deposizioni, fra cui quella di Carolyn Bryant (Julia McDermott), la donna a cui Emmett aveva rivolto la parola, il cui marito Roy Bryant (Carter Jenkins) è stato accusato del crimine, insieme al fratellastro di lui J. W. Milam (Chris Coy); il verdetto (1.06) che non vediamo pronunciare, ma che sentiamo in seguito alla radio. L’ingiustizia e la crudeltà sono auto-evidenti.

Chi avesse letto il grande Il buio oltre la siepe – To Kill a mockingbird di Harper Lee, o avesse visto il film, non può non ripensarci. Seguendo quella tradizione, in questa miniserie si mette in scena l’odio razziale, la paura che si accompagna ai comportamenti di chi vorrebbe cambiare le cose, e l’illustrazione di come sia pervasivo, sistemico e difficile da sradicare. Qui i neri sono solo a un passo dalla schiavitù e anche guardare in faccia un bianco è considerato un atto di sfida. “Il Consiglio dei Cittadini Bianchi considera ogni tentativo di integrazione come un atto di guerra, che sia la scuola, l’uso dei bagni, votare – e sono più potenti del Klan, perché indossano abiti civili, non cappucci. Sono medici, sono giudici, sono avvocati...” si dice senza mezzi termini (1.03). Qui i giurati, ad esempio, sono tutti bianchi, perché non si può essere giurato se non si è registrati per votare, e non c’è nessuno in tutta la contea che sia registrato, perché c’è chi fa in modo che i neri non lo siano. Eppure, nonostante le minacce di morte c’è chi fa la cosa giusta.

Mamie contro il suggerimento di tutti decide che il corpo del figlio che tanto amava venga mostrato con quello che gli hanno fatto. “Si può leggere qualsiasi reportage sull’argomento, ma «un uomo è stato ucciso» è cosa diversa da un uomo che viene ucciso”, scriveva Raymond Williams in “Televisione come cultura” (è un piccolo saggio alla fine di un libro che si intitola “Televisione – Tecnologia e forma culturale”, in italiano a cura di Enrico Menduni per Editori Riuniti). Lo citavo in una recente occasione conviviale: vedere non è lo stesso che fare di un evento un’esperienza attraverso altri mezzi. Naturalmente diverso è vedere di persona, o vedere una ricostruzione narrativa, e in che grado e termini aprirebbe un tema che qui non è il caso di affrontare, ma il potere, l’importanza di vedere anche quello che è scomodo o doloroso può avere un valore importante: in questo caso imprescindibile. E qui la serie dice esplicitamente che non si tratta di una dichiarazione politica, ma di dolore, e se si percepisce, altrettanto lo si fa con l’idea di fondo che il personale è politico: quello che accade a chiunque di noi in qualunque parte del mondo è bene che sia affare di tutti noi.

Tanto è cambiato da quel 1955, che è in pratica l’altro ieri. "Il Gran Giurì rifiuta di incriminare Carolyn Bryant Donham, la donna le cui accuse portarono all'omicidio di Emmett Till" (qui) è una notizia degli inizi di questo agosto 2022. Tanto può essere cambiato ancora. Uno dei messaggi che mi ha colpito in positivo è la realizzazione che il coraggio ha un aspetto diverso su ogni uomo (1.04): penso sia una lezione importante da portare a casa. “Women of the movement” è una storia di determinata rivendicazione di umanità di fronte alla brutalità, ed è narrata con tanta forza quanta delicatezza.

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