ATTENZIONE SPOLIER
Un’avvincente sesta stagione ha chiuso in modo definitivo The Handmaid’s Tale, che ha regalato una series finale anticlimatica, ma ugualmente molto convincente. I colpi di scena maggiori si sono verificati nel sottofinale (6.09), mentre nell’effettiva ultimissima puntata (6.10) si è fatto calare il sipario solo puntando su alcuni obiettivi: chiudere le storie rimaste ancora sospese, in particolare facendo sì che Janine (Madeline Brewer) si riunisse alla figlia; lasciare su una nota positiva zia Lydia (Ann Dowd), che ha cominciato il suo percorso di redenzione nel corso della stagione, e che sarà trainante nel prosieguo della storia che ci attende poi con The Testaments, serie dal successivo omonimo libro della Atwood su cui si sta già lavorando; chiudere il cerchio tornando agli eventi del pilot e a June (Elisabeth Moss) in quella camera nella casa ora diroccata dei Waterford in cui l’abbiamo conosciuta all’inizio; dare un valore spirituale a quella lotta che l’ha vista impegnata in questi anni. È stata chiusura morale, potremmo dire, più che altro.
Io non ho
la competenza per vedere, al di là delle apparenze, tutti i riferimenti alla
contemporanea realtà americana sotto Trump che molti sono stati in grado di individuare:
a quanto pare, sono espliciti rispetto a certe persone e certi eventi.
Nondimeno la denuncia di una realtà fascista misogina che varca i confini
statunitensi è affidata proprio alla consapevolezza di voler narrare per
testimoniare, per lasciare alle generazioni future, ma di fatto anche
contemporanee, una riflessione vissuta sui mali a cui portano ideologie
ultraconservatrici repressive e teocratiche, che non sono sconfitte una volta
per tutte. June decide di scrivere un libro, spinta dalla madre e dal marito, e
a quel proposito torna dove tutto è cominciato. Il valore metatestuale ed etico
della serie sono stati appunto il senso e la vera eredità di questa chiusura. Ed
è stata una stagione in cui oltre alla rabbia, la rabbia ragionevole di chi
viene calpestato e abusato, c’è il perdono, quello di June nei confronti di
Serena (Yvonne Strahovski) in primis, e di zia Lydia.
Facendo
un passo indietro, la stagione ha regalato molti snodi di trama avvincenti. il
momento in “Esecuzione” (6.09) in cui Joseph (Bradley Whitford) e Nick (Max Minghella)
salgono sull’aereo che esploderà con a bordo tutti i comandanti leader, fra cui
Wharton (Josh Charles), è stato il momento clou della stagione. Il primo è
stato fra gli architetti della società di Gilead, che si è reso conto essere
diventata una perversione. Doveva piazzare la bomba sull’aereo e andarsene, ma
l’arrivo anticipato degli altri gli ha permesso di raggiungere il proprio
obiettivo solo scegliendo consapevolmente di sacrificarsi, e così ha fatto. Il
momento in cui guarda verso June mettendosi la mano sul cuore prima di entrare
nell’aereo è stato forse il momento più alto, nel sue essere understated,
di tutta la stagione. È un atto
di eroismo di qualcuno che ha creduto in un ideale che si è rilevato fallace e
ha saputo ammettere il proprio errore e lo ha pagato con la vita pur di
rimediare. Spesso si sono fatti parallelismi con il nazismo nel corso della
stagione, e in questa prospettiva non posso che fare io un parallelismo con The
Man in The High Castle dove gerarchi nazisti pentiti affrontano una sorte
similare. E poi su quell’aereo è salito Nick, l’amore di June e il padre di sua
figlia, che la ha tradita poco prima, e forse per impossibilità di immaginare
un’alternativa, forse per interesse nel non perdere la posizione di potere che
ha conquistato nel tempo è salito su quell’aereo, non dopo un momento di
titubanza in cui guarda in direzione di una June che lui non vede ma che lei
vede. Sa che l’uomo che ama salendo su quell’aereo morirà. Il suo è un
sacrificio per la causa che non ha altra scelta che liberarsi dei leader. Si è
trattato di una puntata intensa, affascinante, memorabile.
E la
stagione ha avuto i numerosi ripensamenti di Serena, che fra i responsabili di
quella realtà in cui in fondo ancora crede, altalena fra posizioni
contrastanti, desiderosa fino in ultimo che il progetto per cui si era battuta.
Sperava in una versione 2.0 con New
Bethlehem, ma i problemi di base rimanevano. Alla fine rimane disillusa. Il suo
matrimonio è stato un evento di grande tensione perché ha segnato l’inizio della ribellione
della Mayday, in cui June e gli altri sono riusciti a liberare Boston e lo
Stato del Massachusetts (6.08). Rifiutatole l'ingresso in Canada e nell'Unione
Europea diventa una rifugiata, con un posto temporaneo in un insediamento delle
Nazioni Unite procuratole da Mark (Sam Jaeger).
Per volontà di Margaret Atwood non si è mai trattato di una serie distopica, ma di fiction speculativa, come la chiama lei, ovvero gli eventi, mutatis mutandis, si sono effettivamente verificati da qualche parte nel mondo del corso della storia, non sono purtroppo perversa pura fantasia. Il messaggio che lascia è tragicamente attuale e vivo. Inattesa guest star è stata Emily (Alexis Bledel), che aveva lasciato lo show dopo la quarta stagione. Con June guardano un grande murale che è un inno alla libertà, alla pace, al combattere per i propri diritti, e pieno di “my name is…”, quindi “il mio nome è…, mi chiamo…” seguito dal nome di battesimo effettivo di molte donne, non quello che le indicava come proprietà di un comandante come durante il regime. Contro qualunque tentativo di cancellare l’identità personale delle persone nessuno è al sicuro, non noi, non i nostri figli o i nostri nipoti. “Gilead non ha bisogno di essere sconfitta, ha bisogno di essere spezzata". Jane sogna, fantastica durante il corso della series finale di esser riunita con la figlia Hannah, qualcosa che ancora non è ottenuto. Non è una conquista definitiva, ma una che va fatta giorno per giorno, ancora e ancora. Vale anche nella vita e personalmente l'ho sentito molto come un invito ad impegnarsi perché realtà come Gilead non prendano il sopravvento.