domenica 27 luglio 2014

PENNY DREADFUL: la prima stagione


Ha un margine di miglioramento, ma da un punto di vista artistico è decisamente riuscito Penny Dreadful (sul significato del titolo si veda qui), che ha da poco chiuso sull’americana Showtime la sua prima stagione di 8 episodi ed è stata rinnovata per una seconda. 
 
La struttura di questo primo arco è stata data dalla ricerca della figlia da parte dell’ex-esploratore Sir Malcolm Murray (Timothy Dalton), insieme a Vanessa Ives (Eva Green), sensibile alla possessione e vagamente Jane Austen-iana, e all’avventuriero americano Ethan Chandler (Josh Hartnett). Sono personaggi originali, che ben si armonizzano agli altri. Il primo successo della serie è infatti stato quello di riesumare icone classiche della letteratura ottocentesca – il dottor Frankenstein (Harry Treadaway) e la sua “creatura” (un mesmerizzante Rory Kinnear), Dorian Gray (Reeve Carney), Dracula (Robert Nairne) - e di rivitalizzarle in un modo che è risultato sia credibile che originale, restando comunque fedele alla loro intima essenza. È riuscito anche a farlo restituendo, nella costruzione delle storie, un senso antico di paura e fascinazione per il sovrannaturale e l'oscuro, con la misura e gli eccessi che si collegano a quegli anni. 
 
Gli aspetti migliori della creazione di John Logan, quelli in cui ha realizzato la tensione estetica a cui si vede che aspira, sono quello poetico e artistico-figurativo. Sotto il primo profilo il mostro pensato da Mary Shelley - un vero romantico, secondo il senso letterario del termine - e del suo creatore Victor Frankenstein sono emblematici. Poeti come Keats e Shelley non vengono solo citati, ma incarnati, con rimandi verbali e visivi intensi. Quando si vede il dottor Frankenstein passeggiare in un prato di narcisi gialli come non ripensare alla più classica delle poesie di Wordsworth, “I Wandered Lonely as a Cloud”, anche prima che venga esplicitamente citata? E quando il mostro riflette sulla sua natura come non sorprendersi del fatto che citi proprio quella Mary Shelley che ha ideato il suo mito? Un sublime riferimento metatestuale, fatto proprio da lui: quasi da eccitarsi.
 
Sotto il profilo artistico, Dorian Gray è affascinato di più che dal suo solo ritratto. Il senso pittorico è molto forte. La cinematografia della serie, specie in alcuni momenti (penso specificatamente alla 1.02) è spettacolosa. E in chiusura, l'interpretazione di Dorian Gray come qualcuno che, non potendo provare sensazioni (perché se le prende il suo ritratto, la sua immagine) ne cerca di sempre più forti, è sia una bella metafora della 'vita spericolata' contemporanea, sia un contraltare all'epoca vittoriana in cui è calato. E, se il mostro di Frankenstein è l'Ottocento, Gray è lo sbocciante Novecento. È sicuramente il piacere decadente che ha sempre rappresentato, ma è già, in nuce, il Michele degli Indifferenti di Movavia. Ci ho pensato, in chiusura di stagione. Poche serie elicitano simili accostamenti.
 
In qualche misura, mi pare che ciascuno dei personaggi rappresenti un'idea del secolo che rappresentano: Brona Croft (Billie Piper, The Secret Diary of a Call Girl), ad esempio,  affetta dal “mal sottile”, poteva essere forse anche più fruttata per questo aspetto, ma è un vero classico dell’immaginario letterario dell’epoca, sotto questo profilo. Del servitore Sembene (Danny Sapani) aspettiamo di scoprire di più. Le puntate, pur essendo chiaramente non autoconclusive sono una esperienza autonoma, assestante l'una dall'altra.
 
Un programma da cui farsi sorprendere.

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