lunedì 25 luglio 2016

FLESH AND BONE: potere dal dolore

Si può ben considerare una sorta di riflessione metatestuale sulla poetica di Flesh and Bone (dell’americana  Starz), ambientata nel mondo della danza classica professionale, quello che viene detto ai ballerini nell’episodio Boogie Dark (1.04): “Fuck pretty – si fotta il bello”. Quello che in 8 puntate viene messo in scena è un viaggio dall’infanzia al diventare donna, dall’innocenza a un risveglio del proprio potere sessuale e della propria autoconoscenza. Si cercano autenticità, coraggio e verità umana per portare la luce sui segreti oscuri, sugli spazi sacri, su quei luoghi dell’anima che ci si tiene nascosti anche a se stessi; non devono mostrare come si balla, ma perché si balla, come esseri umani che pensano e che provano.

La limited series ideata da Moira Walley-Bechett (Breaking Bad), intitolando ogni puntata con un termine o una dicitura presa in prestito dal gergo militare,  accompagnata da tanto di definizione, ci vuole mettere di fronte all’idea che la vita è una guerra, che il balletto, con i suoi passi di una precisione senza scampo, è una guerra: di bravure, di ego, di fatica, di interessi contrastanti, anche di bellezza. Si tratta di una disciplina che richiede grazia, precisione, rigore, arte (1.06), dove la perfezione è tantalicamente sempre un passo più in là, ma che occasionalmente consente di raggiungere la trascendenza. La serie la raggiunge nei momenti di balletto, assolutamente mozzafiato, “Dakini” (1.08) in particolare, originale anche per come è stato filmato, ma non solo.  Delude però complessivamente. Il suo limite più grosso è di essere forzatamente e solamente all’insegna di “mai ‘na gioia” e accanto al “cumulo di merda di futilità che chiami casa” (1.07) c’è la spietata, in qualche caso mafia-russa-spietata, realtà del palcoscenico. Prima dello spettacolo nella season finale, ad esempio, qualcuno (non sapremo mai chi), mette del vetro nelle scarpette a punta della protagonista, e lei per tutta risposta lo inghiotte e la vediamo sanguinare dalle labbra. Va bene essere intensi e dark, ma qui si raggiungono livelli di autolesionismo al limite del ridicolo. Il senso (cfr qui) è che si può ottenere potere dal dolore, ma in qualche modo da spettatori non si viene convinti.  

ATTENZIONE SPOILER. Claire Robbins (una perfetta Sarah Hay, in un ruolo che le è valso una nomination come miglior attrice ai Golden Globe) è una ragazza con un’apparente innocenza alla “Bambi”, riservata, piena di vergogna e disprezzo per se stessa, che adora i libri e se li mette fisicamente addosso come una coperta perché la rassicurino. Il suo punto di riferimento è un testo dell’infanzia, “The Velveteen Rabbit” di Margery Williams con immagini di William Nicholson, la storia di un coniglio di stoffa che diventerà reale solo se verrà amato a sufficienza, allegoria esplicita del personaggio per come lei stessa si vede. Fugge da una situazione di incesto a casa, prima solo intuita poi esplicitata (1.06), con il fratello Bryan, un ex-marine che ora si prende cura del padre che abusa da sempre di lui psicologicamente.  Claire insegue il suo sogno andando a New York e grazie alla sua sfolgorante bravura viene notata dal direttore artistico dell’American Ballet Company (ABC), Paul Greyson (un eccellente, mercuriale, capriccioso Ben Daniels) che la vuole far diventare una stella e lustrarsi lui stesso grazie alla sua bravura. Se la nuova coreografa Toni (Marina Benedict) insiste sull’aspetto emozionale delle performance, lui è spietato sulla tecnica e domina con un estenuante gusto quasi sadico i suoi sottoposti. Kiira (Irina Dvorovenko) è la prima ballerina che teme di essere sostituita a causa di una ferita che non guarisce e che lei cerca di tenere a bada con droghe antidolorifiche.  Daphne (Raychel Diane Weiner) agogna quella posizione per sé e finisce per “comprarsela” finanziando la compagnia, non con il denaro del padre ricchissimo, come lascia credere a tutti, perché lui ne osteggia le ambizioni di ballerina, ma grazie a una donazione di un malavitoso russo con un locale di spogliarello.  Jessica (Tina Benko), manager della compagnia, è perennemente perseguitata dalla mancanza di denaro, sia al lavoro che nella vita privata.

Claire divide una stanza con una collega, Mia (Emily Tyra) che ha problemi di anoressia e cerca di nascondere un’emergente sclerosi multipla che la costringerà ad abbandonare la danza. Conosce un senzatetto, con la passione per lo scrivere e  con problemi psichiatrici, Romeo (Damon Harriman, che spreme il meglio da un ruolo un po’ romanticizzato), che vive sotto il suo palazzo e che alla fine diventa “l’eroe” della situazione che, con un’armatura di tappi di bottiglia (magnifico), “uccide il drago”, una storia troppo prevedibile pur vedendosene il concepimento grandioso ed allegorico. Il drago è il fratello di Claire, Bryan, che l’ha messa incinta di una figlia che è stata data via alla nascita. C’è la guerra in Afghanistan nel suo passato e orrori che vengono ricordati anche da un tatuaggio che porta sul petto e che significa “infedele”. Lui è il mostro di cui Claire ha paura e che tiene distante dalla sua camera chiudendosi con un lucchetto, ma nella storia però è ritratto alla fine come una vittima al pari della sorella in una situazione in cui gran parte delle responsabilità ricade sul padre di entrambi.

La chiusura vede Bryan perire e Claire trionfare, in un montaggio di scene giustapposte. Anche se appunto, senza gioia, in una vita che è agonia costante, ma anche “grit”, come si direbbe in inglese, passione e perseveranza. Claire ha ottenuto quello che voleva, e riesce a “diventare reale” anche se non ha l’amore di cui credeva di aver bisogno, in fondo. Spettacolosa l’ultimissina scena, che mostra una protagonista matura, finalmente autonoma e indipendente. Dopo il successo dello spettacolo, è nel suo camerino, con una vestaglia che le copre il corpo nudo. Paul, con il quale c’è sempre stato questo profondo rapporto di odio-amore professionale – sono loro i poli energetici della serie -, in un misto di eccitazione e invidia, la accarezza mentre si guarda e la guarda allo specchio e le domanda: “Dimmi tutto quello che stai provando, dimmelo”. Lei, secca: “No”. 

Sotto, la sigla.


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