sabato 5 settembre 2020

THE BOOTH AT THE END: un patto per ottenere ciò che desideri


Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che desideri? È questa l’idea centrale intorno a cui ruota The Booth at the End, ideato da Christopher Kubasik.

Un uomo (Xander Berkeley), senza nome, propone alle persone che si rivolgono a lui un patto. Se loro eseguono esattamente quello che lui chiede, otterranno per certo quello che vogliono, qualunque cosa essa sia. In cambio vuole solo essere tenuto al corrente ed essere aggiornato sui dettagli. I compiti che affida sono semplici o difficili, atroci o piacevoli, non c’è una regola. Lui apre un quaderno da qui legge quello che devono fare, e in cui segna quello che i suoi clienti gli raccontano. 

Chi è? Non si sa. È forse Dio? È il diavolo alla Faust di Goethe? “Come so che non sei il diavolo?”, gli chiede una. “Non lo sai”, risponde. È uno sceneggiatore? Uno psicoterapeuta? La propria coscienza resa visibile, i propri meccanismi mentali a volte assurdi resi concreti? È l’intermediario di qualcuno? È la materializzazione del fato eschileo come suggeriscono su FestivaldelNerd? O magari è un esperimento di Milgram, per l’era digitale, come propone Lucy Mangan sul Guardian? Non abbiamo una risposta. Non solo, dice esplicitamente che non possiamo saperlo. E questa incognita gnoseologica è una delle cifre stilistiche su cui fonda la propria forza la narrazione.

C’è il padre che vuole che il figlio non muoia di leucemia, la ragazza che desidera essere la più bella, l’uomo che agogna che una  donna vista nel poster di una rivista si innamori di lui, la suora che ha perso la fede che vuole ritrovare Dio… E i compiti possono essere i più vari, da aiutare una vecchina ad attraversare la strada, a rapinare una banca, a piazzare una bomba o uccidere qualcuno…

Lui, l’uomo al tavolo al fondo di una archetipa diner americana, non costringe nessuno. Chiede ripetutamente ai propri clienti se vogliono continuare, non affida mai missioni impossibili, solo compiti che spesso le persone non vogliono svolgere, questo sì. Sta a loro decidere che cosa fare. Loro hanno la scelta. Vogliono davvero quello che hanno detto di volere? A che cosa sono disposti per averlo? Possono abbandonare i propri propositi in ogni momento, e sono liberi di scegliere come mettere in atto il piano, hanno libero arbitrio di cambiare idea e chiedere cose differenti. E non è detto che quello che vogliono poi non lo ottengano comunque, indipendentemente dall’accordo stipulato.   

Lui, di sè, non dice nulla. Nemmeno a Doris (Jenni Blong), cameriera della tavola calda, che cerca di capire chi è e di far sì che lui si apra con lei. Così come dichiara rigorosamente di non sapere molte delle cose che gli domandano, di come stiano andando, o su chi siano le persone con cui vengono in contatto.

La serie è costruita esclusivamente sui dialoghi fra l’uomo e i propri clienti, è quindi puramente conversazionale, quasi teatrale.  Non vediamo accadere niente, e tutto è ricostruito nella nostra fantasia attraverso le parole. Ci si interroga proprio sul desiderio, sulle scelte, sulla natura umana e su quello che saremmo disposti a fare per ottenere determinate cose. Io per me stessa credo di sapere bene a che cosa sarei disposta e a che cosa no. Però sarebbe diverso se avessi la certezza di avere quello che voglio?

E le storie, scopriamo pian piano, almeno alcune di esse, sono collegate. A un uomo viene chiesto di uccidere una bambina, a un altro di proteggerla. È la vita.

Purtroppo su Amazon Prime, dove è disponibile la prima, tutta con la regia di Jessica Landaw, di due stagioni di cinque puntate ciascuna, è possibile solo seguirla in italiano. Mi rammarico di questo non tanto per principio, perché è più bello avere l’opzione di vederla anche in originale (che solitamente scelgo), tanto più con un cast di prim’ordine come in questo caso, quanto perché la versione doppiata è mal sincronizzata, e questo un po’ rovina la qualità della fruizione.

È un racconto che è contemporaneamente intimo, perché poche cose ci rivelano a noi stessi come i desideri, ma anche molto distaccato, teso. Non sembra tradire emozioni il man at the booth, se non curiosità e sorpresa, e non giudica chi ha di fronte, né per quel che vengono a chiedergli, né per come decidono di attuare i propri compiti. Si pongono questioni filosofiche, esistenziali, etiche, sebbene ci sia un fondo in qualche modo sovrannaturale. C’è anche un’estetica molto “ordinaria”, quotidiana. A dispetto della premessa, non c’è niente di cervellotico.

Leggo su Wikipedia che il regista italiano Paolo Genovese ne ha tratto ispirazione per un suo film, The Place. La serie intanto, che è del 2010, è affascinante. Da non perdere. E se mi dispiace che sia stata cancellata dopo dope due stagioni, mi auguro di poter almeno vedere presto almeno la seconda, per ora inedita.

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