mercoledì 13 gennaio 2021

THE CROWN: la quarta stagione

Ne avrei volute ancora di puntate della quarta stagione di The Crown. Non ho avuto questa sensazione con le stagioni precedenti,  ma con questa mi sembra che abbiano galoppato, forse perché è un periodo più vicino ai giorni nostri (siamo negli anni ’80),  di cui tutti conosciamo qualcosa almeno un po’, e quindi ipotizzo che sia questa la ragione per cui mi è sembrato scorrere troppo in fretta. È stata una stagione molto più femminile poi, dominata, oltre che dai soliti personaggi, da Margaret Thatcher (Gillian Anderson) e Lady Diana (Emma Corrin), entrambe in modo diverso delle outsider rispetto al mondo della Corona. L’arrivo della seconda era molto atteso già al debutto, e entrambe le attrici hanno dato delle interpretazioni molto convincenti. Hanno studiato i manierismi delle controparti della vita reale, ma non ne è mai uscita una parodia.

L’ethos di quel mondo, e quello che la serie cerca di dimostrare stagione dopo stagione, è ben incapsulato dalle parole del principe  Filippo (Tobias Menzies) a Lady Diana, in chiusura: tutto è sacrificabile sull’altare della regina. Sul piedistallo c’è lei e chiunque altro deve solo servire le sue esigenze. E questo si vede sia che si rifletta su Carlo (Josh O’Connor) che deve cercare una moglie adatta al ruolo, sia che si scopra con Margaret (Helena Bonham Carter) di alcune parenti tenute nascoste perché affette da ritardo mentale che, di causa genetica, poteva mette in cattiva luce gli eredi o la si veda che chiede una sola cosa alla sorella, avere un ruolo di maggior rilievo per potersi sentire utile, e riceverne in cambio che invece di aumentarle i doveri le vengono diminuiti ora che uno degli eredi diretti è maggiorenne.

La riflessione è politica e istituzionale, e non mancano alcuni momenti storici salienti dell’epoca, come l’attentato dell’IRA che è costato la vita a Lord Mountbatten (Charles Dance) o la guerra nelle isole Falkland, ma è sempre filtrata dagli aspetti personali. Quando Carlo e Diana rilasciano un’intervista insieme, un giornalista commenta che sembrano molto innamorati. Carlo commenta “qualunque cosa significhi essere innamorati” (cosa effettivamente detta da Carlo nell’intervista riprodotta). Una chiosa così triste a quello che gli abbiamo visto vivere, e nerbo di tutta la stagione, fa riflettere sul tema dell’amore evidentemente, su che cosa sia, e su che cosa faccia di un’unione un buon matrimonio, ma anche sulla narrazione degli eventi: la favola del grande amore contrastato dal destino era quello fra lui e Camilla (Emerald Fennell), quello che si è voluto vendere come fairytale con Diana era la tragedia, l’ostacolo, dove il principe del Galles, è contemporaneamente carnefice della futura sposa ignara e vittima del sistema e del suo senso di inadeguatezza.

Diana viene presentata alla famiglia e passa a pieni voti quello che la serie chiama il “Test di Balmoral” – tutti la amano -, ma viene apprezzata proprio perché non ha un vero passato, ritengono, possono modellarla a loro piacimento. Di lei ancora non si delinea la consapevolezza politica, ma, oltre ai problemi di bulimia  - e la serie avverte con una scritta prima dell’inizio delle puntate lì dove ci saranno scene che ritraggono un disturbo alimentare -, la sua profonda solitudine e infelicità. Oltre che la consapevolezza arrivata abbastanza presto dell’ingombrante terza incomoda di Camilla, vero amore del marito. La bolla della sua illusione scoppia abbastanza presto.

E la regina viene di fatto messa a confronto con due donne molto diverse fra loro. Nell’incontro con la Thatcher, Elisabetta ripensa anche al proprio rapporto di madre. In 4.04, “Favourites”, quando si perdono le tracce del figlio della Prima ministra durante il rally della Parigi-Dakar, la regina convoca a uno a uno i propri discendenti perché si rende conto che sa piuttosto poco di loro. Una regnante nella sua turris eburnea viene messa a contatto con il diverso background della Lady di Ferro, che ha origini umili. Lei e il marito, invitati a cena, si rendono conto presto di essere manchevoli nel rispetto di molte regole non-dette della nobiltà, e per questo in parte guardati con sufficienza. Già il maschilismo della politica conservatrice, che le fa dichiarare che trova le donne “troppo emozionali” per i ruoli di potere, non le aiuta a creare un legame, ma uno scontro sul tema dell’haparteid, in cui si vedono su fronti opposti, rischia di mandare in crisi la tradizione di imparzialità sempre adottato dalla coronata. Si evidenziano anche i punti di contatti però, come l’etica del lavoro, ad esempio. La presenza di Diana, molto più calorosa e umana, fa risaltare la freddezza della Windsor: l’amorevolezza e la possibilità di manifestare i propri sentimenti, così come ambizioni e desideri sono lussi non concessi. O non si ha sufficiente visione per vederli come un asset, una risorsa, invece che una mancanza. La distanza di Elisabetta II dalla gente comune è emersa anche da una puntata intensa come “Fargan” (4.05), dove un uomo separato dalla moglie che ha perso il lavoro e viene allontanato dai suoi bambini si introduce furtivamente nella sua camera a Buckingham Palace per parlarle, eludendo la  sicurezza.

La creazione di Peter Morgan rimane sempre molto elegante e misurata, pur nella sua regale opulenza, e non scade nel gossip. Si prendono come un dato di fatto i tradimenti coniugali dei principi del Galles, ma non ci si sofferma sui presunti contrasti fra suocera e nuora.

The Crown rimane umanamente pregnante e stilisticamente notevole.

Per chi fosse curioso di approfondire l’argomento della finzione poi, la serie documentaristica, sempre su Netflix, sulla casa reale degli Windsor, “The Royal House of Windsor”, fa da buon complemento alla serie, con interviste di storici ed esperiti, alcuni vicini ai diretti interessati (il  segretario personale di Lady D, ad esempio), e materiali inediti.

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