Non
è la prima volta che Amy Sherman-Palladino e Daniel Palladino scrivono una
serie ambientata nel mondo del balletto: rispetto alla loro nuova produzione, Ėtoile (Prime),
Bunheads si avvicinava di più allo spirito di quel Gilmore Girls
che li aveva resi famosi ed era di fatto più convincente sebbene qui il livello
della danza effettiva sia incomparabilmente migliore. Il tono è incostante, per
lo più umoristico ma, soprattutto inizialmente l’effetto è più cringe che
esilarante, nonostante qualche battuta o scena davvero ben riuscita. Non
sorprende né rammarica che la serie sia stata cancellata dopo una sola stagione
di 8 episodi, nonostante ne fossero in partenza già ordinate due.
Il
direttore artistico del Metropolitan Ballet Theater di New York, Jack McMillan
(Luke Kirby, La Fantastica Signora Maisel) e la direttrice ad interim
del Ballet National di Parigi, Geneviève Lavigne (Charlotte Gainsbourg), per
risollevare le magre sorti delle loro compagnie di balletto decidono di
scambiarsi i talenti di punta.
Negli
Stati Uniti arriva Cheyenne Toussaint (Lou de Laâge), star di prima grandezza
tanto apprezzata quanto ruvida, che viene strappata da una protesta ecologista
in mare - in scene che posso valutare
come autenticamente pietose, posticce e poco credibili. Rifiuta di essere
accoppiata sul palco con chiunque ̶ e come elimina di proposti partner in 1.02 è
a contrario stato un primo vero segnale della vis comica che si voleva
infondere. Accetta solo Gael Rodriguez (David Alvarez), con cui inizia una
storia, che ha però vecchie ruggini con Jack dopo che ha mandato a monte un
matrimonio con la sorella di lui. Nonostante la salute scarsissima, nella
gestione del teatro rimane un vecchio ballerino Nicholas Leutwylek (David
Haig), che Jack vede come un punto di riferimento, mentre è stringendo i denti
che accoglie il supporto economico di Crispin Shamblee (Simon Callow), mecenate
appassionato di balletto che finanzia generosamente entrambe le compagnie, ma
il cui denaro ha una criticata provenienza che lascia tutti a disagio. Grazie
all’intervento di Cheyenne, al Metropolitan viene accolta gratuitamente ad
imparare anche la piccola SuSu Li (LaMay Zhang), figlia della donna delle
pulizie, che non può permettersi la scuola, ma che si allena guardando le
registrazioni delle prove in sala quando non c’è nessuno e la madre lavora.
In
Francia arriva un geniale e iper-perfezionista quanto socialmente imbranato e
nevrotico coreografo, Tobias Bell (Gideon Glick), che indossa perennemente
cuffie con musica ad alto volume. Non senza iniziali contrasti, affida i suoi
passi al talento del ballerino Gabin Roux (Ivan du Pontavice) con il quale c’è
anche attrazione sentimentale. Grazie allo scambio torna a casa anche la
giovane Mishi Duplessis (Taïs Vinolo), mal vista dalle altre per nepotismo, ma
brava e appassionata e in contrasto con i genitori, tanto che le si trova una
sistemazione presso l’eccentrica madre di Cheyenne, Bruna (Marie Berto). A fare le veci di Geneviève in sua assenza è Raphaël Marchand (Yanic Truesdale, Gilmore
Girls), ma fra lei e Jack c’è un intenso rapporto, a momenti di rivalità, a
momenti di collaborazione, che va oltre il mero piano professionale.
Ispirata
in parte ai documentari sul balletto di Frederick Wiseman e girata a New York e
Parigi, con parti del dialogo in inglese e parti in francese, Ėtoile mostra
personaggi fortemente carismatici e incredibilmente bizzarri, forse proprio
come sembra essere l’autrice, al limite della credibilità. Cheyenne e Tobias
qui la fanno da padroni in questo senso e sulla prima in particolare,
iperaggressiva ed assertiva, poggia il carico umoristico, con risultati
altalenanti, perché si ha la sensazione di andare effettivamente troppo in là. Il
secondo fatica a diventare più di una macchietta. Magari non condivido che “Étoile" sia uno spettacolo estenuante incentrato su una serie di persone insopportabili e
ossessionate dal sentirsi parlare”, come scrive Variety, ma dialoghi
o in questo caso spesso monologhi ad alta velocità sono una caratteristica
della Palladino che non manca nemmeno qui e i personaggi di punta sono anche
fortemente arroganti e questo in qualche modo viene sopportato di fronte alla
declamata unicità e genialità di personaggi che finiscono per essere anche
respingenti, finché non si intravede qualche sprazzo di umanità.
Le coreografie sono autenticamente mozzafiato e non è un caso che la serie abbia ricevuto una nomination agli Emmy per questo, oltre che per il casting. Si vede l’amore per questa disciplina e il rammarico della crisi del settore, in bilico fra l’ideale di proporre arte e la necessità pragmatica di guadagnare nel farla. Poca satira, inesistente indagine sugli schemi potenzialmente pericolosi quando non abusanti che possono crearsi nel mondo della danza classica, niente metafore della vita alla Flesh and Bone, ma una commedia leggera e molte bizzarrie.