Da un
punto di vista estetico e narrativo non c’è niente di particolarmente originale
o intrigante nella nuova serie medica Brilliant Minds (dell’americana
NBC, Canale5, venerdì in seconda serata) che vede il dottor Oliver Wolf interpretato da un sempre convincente,
intenso, grintoso, perennemente accigliato Zachary Quinto - questa produzione
era inizialmente intitolata proprio Dr Wolf - risolvere casi al Bronx
General Hospital. C’è il medico geniale che sa risolvere problemi che nessun
altro riesce, anche contro lo scetticismo dei colleghi, come da parte del
primario di neurochirurgia Josh Nichols (Teddy Sears), di cui poi diventa innamorato,
e nonostante venga anche mal visto per i suoi metodi anticonvenzionali; ha
qualcuno che crede in lui, qui la dottoressa Carol Pierce, primaria di
psichiatria (Tamberla Perry) e sua amica dai tempi dell’università; ha un team
di giovanissimi specializzandi del primo anno che imparano standogli vicino:
Ericka Kinney (Ashleigh LaThrop), che lo adora ed è molto propositiva; Jacob
Nash (Spence Moore II), ex-giocatore di football che dopo troppi incidenti
sportivi ha deciso di cambiare percorso; Dana Dang (Aury Krebs), a cui sono
affidati i riferimenti pop; e Van Markus (Alex MacNicoll) che trova spesso in
difficoltà con i pazienti a causa di una rara condizione con cui ha convissuto
per tutta la vita e che gli diagnostica il dottor Wolf, la sinestesia da tocco
speculare, che gli permette di rispecchiare i sintomi dei suoi pazienti… si
pensi un po’ al dottor House con il suo team, anche se tutti sono più giovani e
umanamente è forse un po’ l’opposto.
POSSIBILI
SPOILER
Se
infatti un taglio inusuale c’è, è nell’approccio alla medicina in vicende che
sono ispirate al lavoro del famoso reale neurologo e scrittore scomparso nel
2015 Oliver Sacks (suo è fra gli altri il libro “Risvegli” da cui è stato
tratto l’omonimo film) ed in particolare ai suoi libri L’uomo che scambiò
sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. Di Sacks ho
letto Vedere Voci, che ha avuto una grande influenza sulla mia vita, e Gratitudine,
prima di aver visto la serie, e volutamente proprio L’uomo che scambiò sua
moglie per un cappello dopo aver seguito la serie: vi ho naturalmente
riconosciuto, con alcune variazioni, diversi dei casi. Penso che la traslazione
sia stata adeguata, ma carente, perché si è persa la maggiore pregnanza e diluita
la riflessione filosofico-culturale che caratterizza il libro. C’è in piccola
parte, ma non ha lo stesso spessore e autori migliori avrebbero tratto di più, pure
rispetto alle considerazioni narratologiche e il loro potenziale, anche
terapeutico. Tutti i casi di cui si parla, nel libro come nella serie, sono di
tipo neurologico-psichiatrico. Nel testo c’è una umanissima, sensibile e acuta
riflessione sulla memoria eidetica e il valore della la narrazione che è uno
spreco non sia stata sfruttata, ad esempio, e sul vissuto di tutta una varia
umanità che deve affrontare sfide non indifferenti.
Quello
che è originale nel panorama attuale è che si ha uno stile che abbraccia la
medicina come una missione e vuole essere di ispirazione. Non è solo una serie
che ha cuore: non guarda la malattia, guarda la persona, perché quella è la
chiave per accedere alla verità della loro condizione. I discorsi ispirazionali
in quella direzione suonano un po’ forzati, ma si è capaci di smorzarli con
brio (come in 1.02 dove si fa un brillante riferimento, anche se non esplicito,
a Friday Night Lights). Insomma,
quello che la serie propone è un cambio di paradigma e un approccio olistico:
non super tecnologie che rendono l’umano secondario quando non irrilevante, ma
la necessità di comprendere l’essere umano nella sua totalità. La brillantezza del
dottor Wolf sta nel vedere veramente la persona, cosa paradossale per lui che
soffre di prosopagnosia (cecità ai volti, come la chiamano costantemente nel
pilot – solo dalla seconda puntata cominciano ad usare termine scientifico).
Ritiene una sua forza, non un elemento a suo svantaggio, il fatto di essere
empatico e di prendersi a cuore i propri pazienti. E senza scadere nella positività
tossica si guarda anche alla possibilità che situazioni patologiche possano
rivelarsi benefiche, aggiungere invece di togliere, come nel caso dell’anziana
con la “malattia di cupido” (1.08), anche se nel libro era la paziente stessa
che aveva correttamente ipotizzato la causa del proprio problema. Più incisiva avrei voluto che fosse stata anche la riflessione del paziente non in quanto
deficitario, ma quando essere umano, che il libro riesce a fare meglio. Ce ne
sono buoni echi però, così come ho appezzato il sottolineare l’importanza delle
connessioni, del non rimanere soli, indicando esplicitamente i danni alla
salute portati dall’isolamento.
Il protagonista è allo stesso tempo uno
spirito ribelle ed un lupo solitario (Wolf dopotutto è “lupo” in inglese) e viene
anche esplorata la sua backstory con flashback di quando era più giovane
– il fatto che fosse un giovane ragazzo gay o che avesse un padre (Gray Powell)
con problemi di salute non meglio
specificati ma apparentemente di natura psichiatrica e altro ancora non del
tutto venuto a galla, come traspare presto (1.02) dalle labbra del capo
dell’ospedale, che altri non è se non sua madre, Muriel Landon (Donna Murphy),
con cui c’è un rapporto un po’ ruvido. Non manca un pizzico di umorismo. Vero
fine stagione emerge poi di prepotenza la vicenda legata al padre Noah (Mandy
Patinkin da anziano), a cui da adolescente (quando lo interpreta Ted Sutherland)
e ancora prima da bambino (Jaden Waldman) Wolf era profondamente legato. In
questo caso mi è parso un po’ soapy, ma non so quanto sia effettivamente
realmente aderente alla realtà biografica dell’uomo a cui si ispira.
Questo procedurale ideato da Michael Grassi non è imperdibile, ma è tradizionale nel miglior senso del termine, solido, nonostante un titolo piuttosto blando, e con ampio margine di costruzione dei personaggi e delle relazioni. Negli Stati Uniti è ora in onda una seconda stagione.
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