lunedì 20 ottobre 2025

BRILLIANT MINDS: ispirato a Oliver Sacks

Da un punto di vista estetico e narrativo non c’è niente di particolarmente originale o intrigante nella nuova serie medica Brilliant Minds (dell’americana NBC, Canale5, venerdì in seconda serata) che vede il dottor Oliver Wolf  interpretato da un sempre convincente, intenso, grintoso, perennemente accigliato Zachary Quinto - questa produzione era inizialmente intitolata proprio Dr Wolf - risolvere casi al Bronx General Hospital. C’è il medico geniale che sa risolvere problemi che nessun altro riesce, anche contro lo scetticismo dei colleghi, come da parte del primario di neurochirurgia Josh Nichols (Teddy Sears), di cui poi diventa innamorato, e nonostante venga anche mal visto per i suoi metodi anticonvenzionali; ha qualcuno che crede in lui, qui la dottoressa Carol Pierce, primaria di psichiatria (Tamberla Perry) e sua amica dai tempi dell’università; ha un team di giovanissimi specializzandi del primo anno che imparano standogli vicino: Ericka Kinney (Ashleigh LaThrop), che lo adora ed è molto propositiva; Jacob Nash (Spence Moore II), ex-giocatore di football che dopo troppi incidenti sportivi ha deciso di cambiare percorso; Dana Dang (Aury Krebs), a cui sono affidati i riferimenti pop; e Van Markus (Alex MacNicoll) che trova spesso in difficoltà con i pazienti a causa di una rara condizione con cui ha convissuto per tutta la vita e che gli diagnostica il dottor Wolf, la sinestesia da tocco speculare, che gli permette di rispecchiare i sintomi dei suoi pazienti… si pensi un po’ al dottor House con il suo team, anche se tutti sono più giovani e umanamente è forse un po’ l’opposto.

POSSIBILI SPOILER

Se infatti un taglio inusuale c’è, è nell’approccio alla medicina in vicende che sono ispirate al lavoro del famoso reale neurologo e scrittore scomparso nel 2015 Oliver Sacks (suo è fra gli altri il libro “Risvegli” da cui è stato tratto l’omonimo film) ed in particolare ai suoi libri L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. Di Sacks ho letto Vedere Voci, che ha avuto una grande influenza sulla mia vita, e Gratitudine, prima di aver visto la serie, e volutamente proprio L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello dopo aver seguito la serie: vi ho naturalmente riconosciuto, con alcune variazioni, diversi dei casi. Penso che la traslazione sia stata adeguata, ma carente, perché si è persa la maggiore pregnanza e diluita la riflessione filosofico-culturale che caratterizza il libro. C’è in piccola parte, ma non ha lo stesso spessore e autori migliori avrebbero tratto di più, pure rispetto alle considerazioni narratologiche e il loro potenziale, anche terapeutico. Tutti i casi di cui si parla, nel libro come nella serie, sono di tipo neurologico-psichiatrico. Nel testo c’è una umanissima, sensibile e acuta riflessione sulla memoria eidetica e il valore della la narrazione che è uno spreco non sia stata sfruttata, ad esempio, e sul vissuto di tutta una varia umanità che deve affrontare sfide non indifferenti.

Quello che è originale nel panorama attuale è che si ha uno stile che abbraccia la medicina come una missione e vuole essere di ispirazione. Non è solo una serie che ha cuore: non guarda la malattia, guarda la persona, perché quella è la chiave per accedere alla verità della loro condizione. I discorsi ispirazionali in quella direzione suonano un po’ forzati, ma si è capaci di smorzarli con brio (come in 1.02 dove si fa un brillante riferimento, anche se non esplicito, a Friday Night Lights).  Insomma, quello che la serie propone è un cambio di paradigma e un approccio olistico: non super tecnologie che rendono l’umano secondario quando non irrilevante, ma la necessità di comprendere l’essere umano nella sua totalità. La brillantezza del dottor Wolf sta nel vedere veramente la persona, cosa paradossale per lui che soffre di prosopagnosia (cecità ai volti, come la chiamano costantemente nel pilot – solo dalla seconda puntata cominciano ad usare termine scientifico). Ritiene una sua forza, non un elemento a suo svantaggio, il fatto di essere empatico e di prendersi a cuore i propri pazienti. E senza scadere nella positività tossica si guarda anche alla possibilità che situazioni patologiche possano rivelarsi benefiche, aggiungere invece di togliere, come nel caso dell’anziana con la “malattia di cupido” (1.08), anche se nel libro era la paziente stessa che aveva correttamente ipotizzato la causa del proprio problema. Più incisiva avrei voluto che fosse stata anche la riflessione del paziente non in quanto deficitario, ma quando essere umano, che il libro riesce a fare meglio. Ce ne sono buoni echi però, così come ho appezzato il sottolineare l’importanza delle connessioni, del non rimanere soli, indicando esplicitamente i danni alla salute portati dall’isolamento.

Il protagonista è allo stesso tempo uno spirito ribelle ed un lupo solitario (Wolf dopotutto è “lupo” in inglese) e viene anche esplorata la sua backstory con flashback di quando era più giovane – il fatto che fosse un giovane ragazzo gay o che avesse un padre (Gray Powell) con  problemi di salute non meglio specificati ma apparentemente di natura psichiatrica e altro ancora non del tutto venuto a galla, come traspare presto (1.02) dalle labbra del capo dell’ospedale, che altri non è se non sua madre, Muriel Landon (Donna Murphy), con cui c’è un rapporto un po’ ruvido. Non manca un pizzico di umorismo. Vero fine stagione emerge poi di prepotenza la vicenda legata al padre Noah (Mandy Patinkin da anziano), a cui da adolescente (quando lo interpreta Ted Sutherland) e ancora prima da bambino (Jaden Waldman) Wolf era profondamente legato. In questo caso mi è parso un po’ soapy, ma non so quanto sia effettivamente realmente aderente alla realtà biografica dell’uomo a cui si ispira.

Questo procedurale ideato da Michael Grassi non è imperdibile, ma è tradizionale nel miglior senso del termine, solido, nonostante un titolo piuttosto blando, e con ampio margine di costruzione dei personaggi e delle relazioni. Negli Stati Uniti è ora in onda una seconda stagione. 

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