Chi
sentendo parlare di Wayward – Ribelli (Netflix), pensasse che si tratta
di un remake o reboot di Wayward
Pines, tanto più sapendo che la serie si intitolava originariamente Tall
Pines, può mettersi l’animo in pace. Non lo è. Io non ci ho creduto finché
non l’ho visto con i miei occhi. La serie canadese forse ne ha degli echi (i
rospi, che alla fine non si sa che senso abbiano, mi hanno fatto ripensare i
finti grilli, lo stesso per la sensazione che qualcosa di disturbante stia
capitando anche se non si riesce propriamente a indicare che cosa).
Questo
progetto, firmato da Mae Martin (anche interprete), ambientato in una
“accademia” con il sapore di un carcere, è un evidente j’accuse nei confronti dei molti
campus americani indirizzati ad adolescenti in difficoltà varie, una vera
industria multi-miliardaria d’oltreoceano. Come
racconta l’Hollywood Reporter, l’autore stessǝ (utilizza il pronome plurale per se stessǝ) ha dichiarato che questo aspetto è stato
basato sulla propria vita: hanno avuto un’amica che da ragazza è stata mandata
in questo genere di campi e che ha fatto da consulente, e il logo e il motto
finzionali, così come alcune tecniche usate, ricordano molto da vicino quelli
di una reale istituzione di questo tipo, la CEDU, che è stata accusata di
brutalità e crudeltà, e ha visto diversi residenti scomparire in circostanze
strane, e che è stata poi chiusa travolta da cause legali. È altrettanto chiaro che mostra il funzionamento
di alcune sette. Una delle abusanti “pratiche terapeutiche” mostrate in questo
mystery thriller, chiamata “hot chair – sedia bollente”, mi ha fatto pensare a
quelle usate dalla comunità Synanon.
I personaggi messi in cerchio subiscono feroci critiche da parte dei coetanei –
non conosco la pratica della menzionata setta a sufficienza per sapere se le
modalità siano identiche, ma certo sono molto simili e il fatto che ci si
riferisse ad essa come a “il gioco”, mi ha lasciato pensare che fosse più di
una coincidenza, come per Wayward Pines. Poi ho scoperto che quella
setta è stata effettivamente un’ispirazione (Dateline)
ed è stato inteso come “una metafora utile per tutti i tipi di sistemi
oppressivi da cui siamo sedotti”. Infatti non è di denuncia di una specifica
realtà, ma un modo di stimolare la riflessione su tutte quel genere di
situazioni.
Siamo nel
bucolico Vermont. Seguiamo due fili narrativi che in parte si intrecciano.
Abbie (Sydney Topliffe), che vive a Toronto, è una adolescente che viene
spedita dalla Tall Pines Academy dai suoi genitori: la prelevano nel mezzo
della notte con modalità tali che sembra un rapimento, solo che avviene di
fronte agli occhi dei familiari. La sua ribellione consiste più che altro nelle
cattive compagnie. Vi si infiltra anche la sua migliore amica Leila (Alyvia
Alyn Lind) che vorrebbe salvarla e rimane lì intrappolata e che è la più
problematica delle due, con una madre che la trascura, tanto più dopo che ha
perso la sorella maggiore Jess (Devin Cecchetto) in un incidente in cui è
affogata in piscina, evento per la quale si sente in parte responsabile. L’istituto
è gestito da Evelyn Wade (una sempre straordinaria Toni Collette), ma i sistemi
abusanti e da setta di lei e del suo staff, fra cui Rabbit (Tattiawna Jones) e
Duck (Joshua Close), fatti di rituali e gergo per iniziati, le spingono a
cercare di fuggire. Fanno intanto amicizia con diversi altri studenti, come
l’inquietante, instabile Stacey (Isolde Ardies), che è la compagna di stanza di
Abbie e non è alla prima esperienza in questo genere di istituti, e l’ex
ragazza con problemi di droga che cerca di filare dritto Ello (Elizabeth Adams),
compagna di stanza di Leila, o ancora Rory (John Daniel), un ragazzo asmatico
che vorrebbe più di semplice amicizia con Abbie, o Daniel (Milton Torres Lara).
In
parallelo seguiamo una coppia che si trasferisce a Tall Pine: Laura Redman (Sarah
Gadon), ex-allieva dell’accademia e cocca di Evelyn e forse ancora sotto la sua
influenza, ora incinta. Con lei c’è suo marito Alex Dempsey (Mae Martin),
agente di polizia transgender sincero ed empatico, che inizialmente è
affascinato dall’accoglienza affettuosa che riceve da tutti – anche il suo nuovo partner, Dwayne (Brandon Jay
McLaren), amico di vecchia data della moglie, lo rassicura dicendo che verrà
trattato come "uno dei ragazzi" perché tutti hanno una mentalità aperta - in
un posto apparentemente idilliaco, ma che presto si rende conto che ci sono
state sparizioni mai spiegate o insabbiate e che i conti non tornano, anche
perché fra l’altro tutti gli abitanti sembrano ex-allievi e accoliti, e non ci
sono bambini. Procede la gravidanza e procedono i sospetti e si scoprono
segreti. Tutto si fa sinistro. In contatto con Abbie, cerca di trovare un modo
per “farle evadere” e investigare sugli eventi, finendo per scoprire sulla
moglie verità di cui lei stessa forse non è consapevole. Martin è una persona
non binaria e bisessuale, ma avendo ambientato da sua creazione nel 2003, ha ritenuto
che all'epoca non ci fosse molta comprensione pubblica delle identità non
binarie e ha preferito che il suo personaggio fosse trans. (Marie
Claire)
Gli
autori vogliono soprattutto mettere in guardia nei confronti della disinvoltura
e della rapidità con cui i ragazzi vengono patologizzati ed etichettati, quando
in realtà hanno spesso uno spiccato senso di quello che è giusto e quello che
non lo è. Apertis verbis, non si crede che esistano ragazzi cattivi di natura. Si
riflette sul trauma intergenerazionale, sulle storie che si ripetono, sul
tagliare o mantenere i contatti, su che cosa costituisca crescita personale e
su che cosa costituisca una comunità, il peso delle ideologie, il potere e la
coercizione, la manipolazione delle persone vulnerabili e in cerca di punti di
riferimento da parte di persone carismatiche che vogliono approfittarsene, la
resistenza, l’amicizia…è disturbante e minacciosa, ma non troppo. C’è più
disagio e suspense che altro, per cui la si segue con facilità.
Pensata
come miniserie, Non guasterebbe che Wayward venisse rivisitata in una
seconda stagione, anche per chiarire aspetti rimasti irrisolti. Il potenziale c’è.
