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sabato 23 settembre 2017

THE GOOD PLACE: filosofica, dolce, frizzante


Uno degli aspetti più sorprendenti di The Good Place, della NBC, sono i suoi colpi di scena, e in particolare nella prima stagione quelli di “The Eternal Shriek” (1.07) e della finale “Michael’s Gambit” (1.13), anche in considerazione nel fatto che le sit-com tradizionalmente tendono a mantenere il più possibile lo status quo. Non sorprende, in questa prospettiva, che l’ideatore Mike Schur  (Parks and Recreation, Brooklyn Nine-Nine) abbia rivelato (Stanhope) come abbia preso come modello Lost, prevedendo una storia autoconclusiva all’interno della singola puntata, ma con una drammatico cliffhanger alla fine, che porta il programma completamente in un’altra direzione. Senza fare troppo spoiler, si può dire che la conclusione a cui si arriva al termine del primo arco è la stessa messa in scena da Jean-Paul Sartre nell’opera teatrale “No Exit”, ovvero che l’inferno sono le altre persone (Fienberg).

Eleanor Shellstrop (una sempre radiosa, adorabile Kristen Bell) è una giovane donna che, colpita da un camion che pubblicizzava una pillola per la disfunzione erettile, è morta ed è finita nell’aldilà, nella “parte buona” (il good place del titolo). Michael (Ted Danson, che dimostra per l’ennesima volta perché sia un veterano tanto amato), che è l’architetto del luogo ed è al suo primo progetto, quando la accoglie le spiega tutta la situazione. Eleanor si rende però conto che c’è stato un errore, l’hanno scambiata per qualcun altro, perché lei non si è mai comportata bene in vita, anzi. Decide però di tenere la cosa segreta a Michael, e di cercare di meritarsi la ricompensa eterna. Per questo arruola quello che dovrebbe essere la sua “anima gemella”, Chidi (William Jackson Harper), un professore di etica che cerca di spiegarle i rudimenti delle filosofie morali per farla diventare una persona migliore. Sua vicina di casa, e in seguito amica, è Tahani (Jamela Jamil), una filantropa legata nell’aldilà a un monaco che ha fatto voto di silenzio, Jianyu Li (Manny Jacinto),  o almeno così crede lei, perché si scopre presto che anche lui è una “frode” e il suo vero nome è Jason Mendoza. Ad aiutare tutti, in quanto depositaria dell’intero sapere dell’universo, è Janet (D’Arcy Carden), una guida celestiale che appare e scompare quando viene chiamata.

La serie è sia dolce che frizzante, piena di arguzie e bizzarrie, brillante ma allo stesso tempo spensierata. Si ride di gusto. I personaggi vengono colorati esasperando le loro inclinazioni, ma senza che questo li riduca a sagome bidimensionali. Anche i “tormentoni” (l’impossibilità di dire parolacce che si trasforma in locuzioni alternative spassose, le lezioni di etica, il frozen yogurt) sono giocati in modo così intelligente da sembrare raramente delle ripetizioni.

Si riflette su dilemmi filosofici, che vengono incorporati nella storia, e c’è in particolare una riflessione morale su che cosa sia e significhi comportarsi bene, come si misuri, in che maniera le motivazioni di ciascuno influiscano nel valutarla, quanto di un comportamento etico vada appreso. Sarà vero che aggiustare il triciclo di un bambino che ama i tricicli fa guadagnare 6,60 punti, abbracciare un amico triste ne fa guadagnare 4,98 e mantenere la calma mentre si è in fila nel parco giochi acquatico di Huston ben 61,14, mentre dire a una donna di sorridere né fa perdere 53,83, usare Facebook come verbo dà un meno 5,55 e non rivelare la malattia di un cammello prima di venderlo 22,22?

C’è un’impostazione metafisica (più di qualcuno ha fatto dei parallelismi con Westworld) e spirituale, ma acutamente non c’è alcuna affiliazione religiosa, non si prendono le parti di nessuno,  i personaggi vengono da diversi background e quel che conta è il comportamento etico. Eleanor, nello studiare come diventare una persona migliore, studia filosofia morale ed etica, non religione, un’impostazione che personalmente io condivido da un punto di vista ideologico, ma che oltretutto permette di includere ogni credo e fede. Ci sono anche meditazioni sul senso dell’amore, su se esista una persona per la quale siamo intesi, sull’amicizia, sul sacrificio, sul passato.


Una sit-com ambiziosa, che sono felice di aver visto rinnovata dopo una prima stagione di 13 puntate. La seconda ha appena esordito negli USA. 

venerdì 20 settembre 2013

BROOKLYN NINE-NINE: inizio impeccabile

 
Fare una sit-com sulla polizia si è sempre rivelata un’impresa ardua. Non si direbbe da quanto facile l’hanno fatta sembrare Dan Goor e Michael Schur (Parks and Recreations): quello di Brooklyn 9-9 (che al momento degli upfronts avevo rapidamente presentato qui e che ha debuttato sull’americana Fox lo scorso 17 settembre) è stato se non un pilot impeccabile – quale lo è – quanto di più ci si può avvicinare. La serie sembra puntare sull’umorismo con cuore e con l’intelligenza, anche lì dove va over the top. Ti rendi conto che è esagerato, ma funziona.
Il nuovo capitano, Ray Holt (il sempre magnifico Andre Braugher, Men of a Certain Age) vuole che indossino tutti una cravatta? Jake Peralta (Andy Samberg) il detective più brillante del gruppo, ma che detesta seguire le regole, la mette sotto la camicia, intorno al torace. Quando finalmente si decide ad indossarla, ecco che quando si alza per dare la mano al suo superiore, ti accorgi che non porta i pantaloni, ma variopinti slip che Holt invita tutta la squadra ad ammirare. Poi, in un momento rivelatorio, alla fine capisce il senso intimo dell’indossare quel capo di abbigliamento che gli è inviso. La rivalità fra Jake e la detective Amy Santiago (Melissa Fumero, Una Vita da Vivere) assicurerà ampio foraggio comico e lo stesso la cotta del timido e imbranato Charles Boyle (Joe Lo Truglio) per la serissima e tostissima Rosa Diaz (Stephanie Beatriz). La supervisione del sergente Terry Jeffords (Terry Crews) e il gossip ben informato di Gina Linetti (Chelsea Peretti) fanno da collante. Ah, e il nuovo capitano è gay: nel suo non “sembrarlo”, per così dire, ha notato Tim Goodman, finisce per essere una parodia di come in TV vengono spesso ritratti gli omosessuali.  
La serie, un po’ alla Parks and Rec, ma con qualche eco di The Office e di New Girl, in qualche maniera è sbriciolata in tanti piccoli momenti ora divertenti, ora teneri. Mi è rimasta l’impressione che bisogna curarsi la serie, all’inizio, per affezionarsi sul serio, per cogliere in ogni angolino più recondito un umorismo brioso, commovente, profondo, sconcertato, allegro e amaro allo stesso tempo.   
Schur mi ha impressionato in passato per la sua competenza non solo nel genere che scrive, ma sulla TV a tutto tondo (basta vedersi le tavole rotonde con The Hollywood Reporter a cui ha partecipato che ho postato anche qui nel mio blog). Gli do fiducia, e a giudicare da questo pilot faccio bene: Brooklyn Nine-Nine è una sit-com a cui augurare fortuna.