giovedì 16 gennaio 2014

HOSTAGES: parte bene, declina, delude

 
È partita in modo forte Hostages, la serie sviluppata per la TV americana da Jeffrey Nachmanoff e Alon Aranya e basata su una serie israeliana dallo stesso titolo ideata da Omri Givon e Roten Shamir. Costruita ad arco, e non con episodi autoconclusivi  nè procedurale (a differenza dell’ideale rivale diretto di questa scorsa stagione,The Blacklist), ha permesso di affezionarsi ai personaggi.
La premessa delle vicende era abbastanza semplice: l’agente dell’FBI Duncan Carlisle (Dylan McDermott, American Horror Story) vuole che la dottoressa Ellen Sanders (Toni Collette, United States of Tara) uccida il presidente degli Stati Uniti Paul Kincaid (James Naughton) durante un’operazione, fingendo che sia accidentale, e per questa ragione prende in ostaggio lei e la sua famiglia: il marito Brian (Tate Donovan), la figlia Morgan (Quinn Sherphard) e il figlio Jake (Mateus Ward), e pure il cane.  A controllarli a vista insieme a lui ci sono Archer (Billy Brown), Sandrine (Sandrine Holt) e il cognato Kramer (Rhys Coiro).
I problemi dei membri della famiglia Sanders non erano chissà che originali (il marito aveva un’amante, la ragazza era rimasta incinta, il ragazzo aveva debiti di spaccio di droga da pagare). Più interessanti erano i terroristi: Duncan non era chiaro da che cosa fosse motivato ad azioni così gravi, finché non si scopre che fa tutto per Nina (Francie Swift), la moglie morente, figlia nata da una relazione extraconiugale del presidente che lui vuole ora morto; Sandrine fa tutto per poter finalmente il figlio tutto per sé e ricostruirsi una vita; Kramer è il cuore tenero del gruppo. La cosa più affascinante era o quanto meno sarebbe stato capire che tipo di relazione si sarebbe instaurata fra i prigionieri e i loro carcerieri. Solo, questi aspetti non sono stati in definitiva esplorati.
Questo thriller prodotto da Jerry Bruckheimer, in soli 15 episodi, è rimasto tiepido nonostante vari colpi di scena. Il tentativo di rendere umani gli aggressori è sfociato nel risultato di cercare di farli essere dei “buoni a tutti i costi”, anche loro pedine di un gioco più grande e comunque in fondo persone costrette ad azioni cattive per delle motivazioni nobili. Sandrine è stata salvata in extremis nonostante abbia tradito gli altri anche perché Kramer era evidentemente innamorato di lei, e i due sono quelli che alla fine hanno mostrato più chiaroscuro, mentre il fedelissimo Archer ha pagato con la vita la ribellione finale in una mossa che sembrata più che altro dovuta al fatto che di lui non sapevano che farsene e un morto in più ci stava bene.
La conclusione a lieto fine, con tanto di cane scodinzolante, è suonata un po’ ridicola. Ellen ha spiegato il problema alla moglie del presidente e la questione di fatto si è risolta. Duncan si è costituito, ma suo commento in cui dice che avrebbe voluto anche lui, come Ellen, non perdersi da un punto di vista umano ha, se possibile, peggiorato un finale moscio.
La serie si è anche lasciata guardare, ma siamo anni luce da 24 o Homeland, modelli a cui ben si poteva aspirare in partenza.    

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