lunedì 7 maggio 2018

PICCOLE DONNE: pars destruens (parte 1 di 2)


A qualche riflessione sulla nuova versione in tre puntate per il la BBC1 premetto il fatto che sono una grandissima appassionata della quadrilogia di Piccole donne (quindi anche “Piccole donne crescono”, “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”) che ho visto in numerose versioni, incluso un anime giapponese. Quella che mi è rimasta nel cuore, e che probabilmente nella memoria si sovrappone anche al libro, letto ormai moltissimi anni fa, è quella cinematografica del 1949 per la regia di Mervyn LeRoy dove Elizabeth Taylor interpreta Amy. 

Questo più recente adattamento (in Inghilterra è andato in onda il 26, 27 e 28 dicembre 2017) è uscito dalla penna di Heidi Thomas, di nuovo alle prese con una narrazione corale femminile dopo il suo apprezzato Call the Midwife. Siamo in Massachussetts (ricreata ai fini televisivi in Irlanda), nel periodo della guerra civile americana, e vediamo fiorire in giovani donne le quattro sorelle March, ovvero Meg (Willa Fitzgerald), Jo (Maya Hawke, la figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman al suo debutto come attrice), Beth (Annes Elwy) ed Amy (Kathryn Newton, Big Little Lies), che vivono con la madre Marmee (Emily Watson), mentre il padre (Dylan Baker) è al fronte. Meg lavora come istitutrice e sogna sopra ogni cosa una famiglia, Jo aspira a diventare scrittrice e non ha interesse per le relazioni sentimentali, la timida Beth ama suonare il piano ma presto si ammala, Amy ha un grande talento artistico. La ricca zia Josephine (Angela Lansbury) critica il fratello che antepone gli ideali agli interessi economici, ma in fondo non è così aspra come sembra. Il vicino di casa, il signor Lawrence (Michael Gambon), accoglie con sè il nipote orfano Laurie (Jonah Hauer-King) che diventa presto un grande amico delle sorelle: innamorato per anni di Jo finirà per sposare Amy, mentre Meg andrà in sposa all’istitutore di lui, John Brooke (Julian Morris, Pretty Little Liars). Beth muore, Jo guadagna pubblicando racconti e si innamora di un professore di origine tedesca, il professor Bhaer (Mark Stanley), conosciuto in una breve parentesi a New York.   

Questa nuova incarnazione del romanzo di Louisa May Alcott mi ha convinta e appassionata, nonostante abbia diverse critiche da fare. Partendo da queste ultime, devo dire che l’obiezione maggiore che muovo al programma è di avere in qualche modo cancellato o comunque fortemente sminuito la povertà delle protagoniste. Fin dall’incipit, quando Jo si lamenta dell’assenza di doni a Natale, e Meg le risponde sottolineando quanto sia brutto essere poveri, si mette sotto i riflettori nel libro la difficoltà economica in cui si trovano le sorelle (di fatto anche edulcorata, pare, rispetto a quella che vivevano le sorelle Alcott su cui sono ricalcate). Il fatto di dover portare la loro colazione a persone ancor più povere di loro qui non è vissuta come un grossissimo sacrificio; le ragazze non si lamentano di avere vestiti vecchi e consunti non adeguati a una festa a cui devono andare, anzi sono tutte in tiro; quando si recano a un ballo, non soffrono delle frecciatine maligne delle coetanee che commentano con disprezzo il loro stato sociale. Meg viene guardata dall’alto in basso da una ragazza perché lavora per guadagnarsi da vivere, e le viene insinuato che la madre ha intenti da scalatrice sociale nel far frequentare alle ragazze Laurie, e quando il padre si ammala e la madre deve lasciarle per andare al fronte ad aiutarlo, non hanno così tanto denaro da affrontare una grande spesa improvvisa, e Joe deve perciò comunque vendere i propri capelli per racimolare la somma, ma sono comunque persone relativamente benestanti. Ho l’idea che rappresentarle povere avrebbe alienato una parte del pubblico contemporaneo, e mi dispiace molto, perché purtroppo la povertà è una realtà molto presente anche nella vita attuale, e trovare il modo di metterla in scena penso avrebbe fatto un gran bene. In fondo loro erano le ragazzine del loro tempo che non potevano permettersi i vestiti alla moda e che per questo subivano un po’ di bullismo da parte delle compagne.

La versione cinematografica del ‘94 con Winona Ryder nel ruolo di Jo aveva il pregio della consapevolezza che i romanzi nascevano come specchio autobiografico dell’autrice, e incorporavano perciò anche gli aspetti filosofici e culturali dibattuti nella famiglia di Louisa, il cui padre Amos Bronson era un esponente di spicco della filosofia trascendentalista. Qui, si rimane più superficiali. Non basta dire che Jo e il professor Bhaer si recano a un convegno di filosofia e citare Kant e Hegel per dare spessore filosofico alle interazioni. Ho apprezzato che, in modo inusuale nelle trasposizioni su video,  si sia scelto di chiudere con una sorta di flash-forward a quando ormai Jo e il suo innamorato sono sposati e hanno aperto la scuola che è il fulcro del terzo e quarto romanzo del ciclo, ma allo stesso tempo proprio per questo avrebbe avuto più senso dare un substrato intellettuale un po’ più pregnante alle conversazioni, facendo sì che ci fosse una base per intuire il senso di quanto vediamo poi. Una colonna portante della storia è la concezione morale della vita. La scrittrice cilena Marcella Serrano, scrivendo con “Arrivederci Piccole Donne” le vicende di quattro cugine ispirate alle protagoniste, ha sottolineato come questo classico della letteratura dell’infanzia sia ancora tanto importante per le donne perché le ha accompagnate e le accompagna tutt’ora nella loro formazione morale. È anche oggi un punto di riferimento. Lo penso anch’io, perché per me è stato così. Per questo mi rammarico che non si sia prestata più attenzione a questo aspetto, se non un po’ attraverso le conversazioni fra madre e figlia.   

Nella prima puntata ho trovato Jo un tantino maschilista. Nel libro e nelle versioni precedenti che ho visto, l’aspirante scrittrice si lamenta sempre del fatto di essere nata donna e non uomo per le opportunità mancate, però più come una sofferta discriminazione che rivendica una parità, con uno spirito femminista. Nell’originale le si rimprovera di essere un “maschiaccio”, qui mi pare diventi più una sua critica alla presunta “debolezza” e alla “femminilità” delle sorelle, che rimangono in qualche modo più contenute nel ruolo che la storia permette loro di avere. Forse è una mia distorsione della memoria vedere il personaggio come comunque fiero della propria femminilità, ma questa è la prima versione che mi ha fatto percepire che Jo si sentisse di meno, non una pari a cui è consentito di meno per ragioni arbitrarie. Per fortuna questo non c’è stato nelle puntate successive, e ho visto in lei l’eroina indipendente e femminista che ho imparato ad amare. 

Un altro elemento di rammarico per me è stato il personaggio del professor Bhaer. Intanto, in un casting che ho giudicato impeccabile, ho trovato la scelta dell’attore inadeguata, non perché gli mancasse talento, ma perché era totalmente inadatto. E fra lui e Jo non c’era alchimia, erano completamente “sbagliati”. Sono state fatte quelle scene fra loro perché bisognava, ma era evidente che non c’era investimento alcuno. Ho sempre adorato quel personaggio che appare così tardi e riesce a far capitolare Jo ai sentimenti, quando prima aveva sempre dichiarato “io non sposerò mai”, per usare la buffissima traduzione italiana utilizzata nel film di LeRoy. È naturale, sensato, organico, e molto romantico, con la scena sotto la pioggia e l’ombrello. Qui non mi è piaciuta, l’ho trovata non dico forzata, perché non lo era, ma priva del valore e dell’intensità che avrebbe dovuto avere, perché mancava una vera costruzione precedente. Il confronto sul valore della scrittura che Jo fa con il padre, avrebbe dovuto farle con lui, tanto per cominciare. È chiarissimo che qui non si è #TeamBhaer.

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