lunedì 1 ottobre 2018

MANIFEST: un pilot deludente



È stata una delusione il pilot di Manifest (sulla NBC negli USA, su Mediaset Premium in Italia, con una sola settimana di distanza dall’originale), descritto in partenza come un Lost al contrario con l’aggiunta di un pizzico di This is us, ed il motivo principale è che, seppure sia stato fatto un lavoro anche dignitoso, è stato molto ordinario  e insipido su ogni livello: sceneggiatura e dialoghi, regia, recitazione…

La premessa è di per sé intrigante. Un gruppo di persone a bordo di un aereo in volo dalla Jamaica a New York, il Montego Air Flight 828, attraversa una turbolenza piuttosto pesante, ma che si risolve nell’arco di poco tempo. Una volta atterrati, i passeggeri vengono accolti con shock dalle autorità e poi dai familiari, che non sanno spiegarsi che cosa sia successo: se per chi era in volo sono stati attimi, a terra sono trascorsi più di 5 anni, durante i quali tutti loro sono stati presunti morti. Ben Stone (Josh Dallas, Once Upon a Time) e il figlioletto Cal (Jack Messina), che soffre di cancro, ora ritrovano rispettivamente una moglie e una madre, Grace (Athena Karkanis), e una figlia e una sorella gemella, Olive (Luna Blaise), cresciuta, e la scienza avanzata al punto da poter potenzialmente salvare la vita di Cal. La sorella di Ben, Michaela (Melissa Roxburgh), una poliziotta, viene a sapere che il fidanzato Jared (J.R. Ramirez) è diventato detective e si è sposato con la sua migliore amica. Sia lei che Ben poi hanno perso la madre. La ricercatrice medica Saanvi (Parveen Kaur) realizza che il lavoro da lei fatto prima di “scomparire” è stato nel frattempo messo a frutto permettendo di curare molti pazienti pediatrici. Le autorità cercano di capire che cosa sia capitato e intanto tutti i “sopravvissuti” cominciano a sentire delle voci che danno loro dei comandi su cose da fare.   

La serie ideata da Jeff Rake (The Mysteries of Laura) accenna appena allo sconvolgimento emotivo da cui sarebbero realisticamente travolti i protagonisti, per concentrarsi molto di più sul fatto che percepiscono questi comandi che li aiutano a sventare pericoli o risolvere problemi nel mondo che li circonda, confusi dal loro ruolo in quello che li rende una sorta di “eroi involontari”. Stanno forse impazzendo?  

L’influsso di Lost è evidente non solo per il fatto che si tratta di un volo aereo con un twist poi sovrannaturale, ma anche dall’attenzione ad esempio ai numeri che compaiono ai protagonisti, a partire proprio da quel Flight 828, che poi viene rivisto in altre occasioni, compresa una  citazione biblica amata dalla madre dei protagonisti,  Romani 8:28:  “tutto concorre al bene”. Il confronto con la serie di culto è devastante per Manifest. Chi dimentica l’occhio di Jack che si apre, nel modello emulato? Qui alla fine della visione non rimane nella memoria alcuna scena o fotogramma, salvo forse la bella scritta del titolo, nella title card. È assente ogni brivido, ogni autentica tensione, per lo spettatore: un peccato mortale con materiale di questo potenziale.

La rende tediosamente terribile la prospettiva che si trasformi in una missione della settimana spiritual-sovrannaturale, se non addirittura religioso-cristiano, qualcosa di, è il caso di dirlo, di manifesto – Daniel Fienberg ricorda appropriatamente su The Hollywood Reporter che il Manifest del titolo, ovviamente la lista dei passeggeri di un volo,  non può non far ricordare che la teoria del “Destino Manifesto” è la nozione che l’espansione coloniale bianca attraverso il Nord America era voluta da un potere superiore. Da leggere le sue osservazioni sul tema della religiosità nel pilot della serie.  

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