giovedì 30 ottobre 2025

THE PITT: pronto soccorso iper-realista

Meritatamente miglior serie drammatica agli Emmy del 2025 (ne ha vinti 5 in varie categorie su 13 nomination), The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è figlia putativa ed erede spirituale di ER: è ambientata nel pronto soccorso (the pitt, “la fossa” appunto, come ama chiamarla il protagonista principale) di un grande ospedale, in questo caso quello del fittizio Pittsburgh Trauma Medical Center; ha un nutrito cast che lavora in ensemble; ha come lead actor Noah Wyle, che ha letteralmente fatto la gavetta nella serie medica che vediamo come genitrice e che qui interpreta il dottor Michael "Robby" Robinavitch, medico a capo del posto di lavoro; produttori esecutivi sono John Wells e Noah Wyle. Se nel DNA si riconosce ER, non è un reboot, con buona pace degli eredi del creatore di quest’ultima, Michael Crichton, che hanno intentato una causa ritenendo che lo fosse, e non autorizzato. A me è indubbiamente piaciuto molto di più, anche per il tono meno frenetico. C’è molto gergo tecnico, ma come ha ben osservato lo stesso Wyle in un’intervista a Fresh Air, non è necessario che il pubblico comprenda, è sufficiente che veda che i medici sanno quello che fanno in quella che scherzosamente chiama “pornografia della competenza”. Esteticamente tende ad essere iperrealistico (un parto in 1.11 ne è un bell’esempio) e notevole a mio avviso è stata la decisione di non avere musica, con lo specifico obiettivo di rimuovere un “artificio”: la colonna sonora è data dai rumori della strumentazione e dal gergo di cui sopra.

Qui ogni puntata corrisponde esattamente a un’ora di un turno di lavoro di 15 ore, stratagemma che rende la fruizione particolarmente adatta al binge watching anche se nella programmazione ne viene consegnata al pubblico solo una puntata alla settimana. La giornata della prima stagione segna per il dottor Robby l’anniversario della morte del suo mentore, morto di COVID anni prima, evento che si porta dietro ancora lutto ed emozioni represse, e disturbo post-traumatico da stress che trova molti trigger nell’uomo nel corso dell’impegnativa giornata lavorativa. L’amministratrice dell'ospedale Gloria Underwood (Michael Hyatt) si presenta periodicamente e pungola Robby pretendendo una maggiore attenzione per avere migliori valutazioni da parte dei pazienti. Insieme a lui lavorano medici, alcuni dei quali sono alla loro primissima esperienza in un pronto soccorso, paramedici e infermieri.

LIEVI SPOILER  

La dottoressa Heather Collins (Tracy Ifeachor), è una medica specializzanda all'ultimo anno che è, segretamente, agli inizi di una gravidanza molto desiderata. Il dottor Frank Langdon (Patrick Ball),  anche lui specializzando all'ultimo anno, ha un passato non troppo superato di problemi di dipendenza da sostanze. La dottoressa Cassie McKay (Fiona Dourif), specializzanda al secondo anno, è una 42enne, separata e con un figlio undicenne, che indossa un braccialetto elettronico per ragioni non chiarite. La dottoressa Samira Mohan (Supriya Ganesh), specializzanda al terzo anno, è più lenta di altri perché ci tiene a stabilire un rapporto importante e curato con i propri pazienti. Loro sono la vecchia guardia, completati dalla caposala Dana Evans (Katherine LaNasa), infermiera con decenni di esperienza. I neofiti sono poi Victoria Javadi (Shabana Azeez), precocissima brillante studentessa figlia di una nota dottoressa che lavora nello stesso ospedale che si prende subito una cotta per l’infermiere Mateo Diaz (Jalen Thomas Brooks); Dennis Whitaker (Gerran Howell), un insicuro studente di medicina del quarto anno, un po’ “campagnolo” tanto che una collega lo ribattezza Huckleberry; la dottoressa Trinity Santos (Isa Briones, Picard), specializzanda al primo anno apparentemente molto determinata, ma con un passato evidentemente difficile; la dottoressa Melissa "Mel" King, specializzanda del secondo anno, molto empatica e neurodivergente, sebbene non sia mai indicata una diagnosi in termini espliciti, (per l’efficace rappresentazione di questo aspetto della sua vita si legga questo articolo sul Time), e con una sorella autistica.

Li vedi solo in un contesto lavorativo, e non c’è molto spazio per la parte personale. Eppure, ora dopo ora, frammenti di loro emergono e li si conosce così. Nel Pronto Soccorso sovraffollato e sottofinanziato, capitano ogni genere di casi e si affronta una panoplia di situazioni e tematiche, molto attuali: l’aborto, volontario e spontaneo, la donazione di organi, le molestie sessuali, gli abusi, la transfobia, le dipendenze, il burn-out, professionale e dei caregiver, il razzismo, la violenza legata alle armi, il traffico sessuale, le lunghe attese e la carenza di personale, le personalità difficili, la mancanza di medicina preventiva, la solitudine maschile, i genitori che invecchiano, le vaccinazioni e le mascherine e l’ostilità contro queste, il “dottor Google” (1.14), l’aggressione al personale sanitario, la fatica (ho proprio notato per quanto tempo debbano stare sempre in piedi!), la difficoltà di equilibrio fra reazione emotiva e professionale, il fine vita… Wyle ha dichiarato in più occasioni di sostenere anche nella vita privata i professionisti del settore, cooperando con loro, e rispetto a quest’ultimo aspetto la serie ha anche collaborato espressamente con una noprofit, End Well, perché venisse impostata un’adeguata conversazione su questo argomento, evitando i modi tipici in cui solitamente è affrontato nel prime-time (per approfondire, si veda questo articolo sul loro sito). Le ultime puntate vedono in protagonisti impegnati nel soccorrere gli oltre 100 feriti di una grande sparatoria di massa, in quello che è apparentemente un’impresa da Sisifo. 

In un momento di crisi della sanità americana, esacerbata dal clima politico, sociale ed economico che si vanta di posizioni antiintellettualiste e anti-scientifiche che rischiano una forte regressione, la si commenta, ma si riesce comunque a mostrare speranza guardando alle gesta di questi “first responders”, persone che per prime intervengono, eroi nella misura in cui sono soprattutto umani, persone a cui importa degli altri.


lunedì 20 ottobre 2025

BRILLIANT MINDS: ispirato a Oliver Sacks

Da un punto di vista estetico e narrativo non c’è niente di particolarmente originale o intrigante nella nuova serie medica Brilliant Minds (dell’americana NBC, Canale5, venerdì in seconda serata) che vede il dottor Oliver Wolf  interpretato da un sempre convincente, intenso, grintoso, perennemente accigliato Zachary Quinto - questa produzione era inizialmente intitolata proprio Dr Wolf - risolvere casi al Bronx General Hospital. C’è il medico geniale che sa risolvere problemi che nessun altro riesce, anche contro lo scetticismo dei colleghi, come da parte del primario di neurochirurgia Josh Nichols (Teddy Sears), di cui poi diventa innamorato, e nonostante venga anche mal visto per i suoi metodi anticonvenzionali; ha qualcuno che crede in lui, qui la dottoressa Carol Pierce, primaria di psichiatria (Tamberla Perry) e sua amica dai tempi dell’università; ha un team di giovanissimi specializzandi del primo anno che imparano standogli vicino: Ericka Kinney (Ashleigh LaThrop), che lo adora ed è molto propositiva; Jacob Nash (Spence Moore II), ex-giocatore di football che dopo troppi incidenti sportivi ha deciso di cambiare percorso; Dana Dang (Aury Krebs), a cui sono affidati i riferimenti pop; e Van Markus (Alex MacNicoll) che trova spesso in difficoltà con i pazienti a causa di una rara condizione con cui ha convissuto per tutta la vita e che gli diagnostica il dottor Wolf, la sinestesia da tocco speculare, che gli permette di rispecchiare i sintomi dei suoi pazienti… si pensi un po’ al dottor House con il suo team, anche se tutti sono più giovani e umanamente è forse un po’ l’opposto.

POSSIBILI SPOILER

Se infatti un taglio inusuale c’è, è nell’approccio alla medicina in vicende che sono ispirate al lavoro del famoso reale neurologo e scrittore scomparso nel 2015 Oliver Sacks (suo è fra gli altri il libro “Risvegli” da cui è stato tratto l’omonimo film) ed in particolare ai suoi libri L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. Di Sacks ho letto Vedere Voci, che ha avuto una grande influenza sulla mia vita, e Gratitudine, prima di aver visto la serie, e volutamente proprio L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello dopo aver seguito la serie: vi ho naturalmente riconosciuto, con alcune variazioni, diversi dei casi. Penso che la traslazione sia stata adeguata, ma carente, perché si è persa la maggiore pregnanza e diluita la riflessione filosofico-culturale che caratterizza il libro. C’è in piccola parte, ma non ha lo stesso spessore e autori migliori avrebbero tratto di più, pure rispetto alle considerazioni narratologiche e il loro potenziale, anche terapeutico. Tutti i casi di cui si parla, nel libro come nella serie, sono di tipo neurologico-psichiatrico. Nel testo c’è una umanissima, sensibile e acuta riflessione sulla memoria eidetica e il valore della la narrazione che è uno spreco non sia stata sfruttata, ad esempio, e sul vissuto di tutta una varia umanità che deve affrontare sfide non indifferenti.

Quello che è originale nel panorama attuale è che si ha uno stile che abbraccia la medicina come una missione e vuole essere di ispirazione. Non è solo una serie che ha cuore: non guarda la malattia, guarda la persona, perché quella è la chiave per accedere alla verità della loro condizione. I discorsi ispirazionali in quella direzione suonano un po’ forzati, ma si è capaci di smorzarli con brio (come in 1.02 dove si fa un brillante riferimento, anche se non esplicito, a Friday Night Lights).  Insomma, quello che la serie propone è un cambio di paradigma e un approccio olistico: non super tecnologie che rendono l’umano secondario quando non irrilevante, ma la necessità di comprendere l’essere umano nella sua totalità. La brillantezza del dottor Wolf sta nel vedere veramente la persona, cosa paradossale per lui che soffre di prosopagnosia (cecità ai volti, come la chiamano costantemente nel pilot – solo dalla seconda puntata cominciano ad usare termine scientifico). Ritiene una sua forza, non un elemento a suo svantaggio, il fatto di essere empatico e di prendersi a cuore i propri pazienti. E senza scadere nella positività tossica si guarda anche alla possibilità che situazioni patologiche possano rivelarsi benefiche, aggiungere invece di togliere, come nel caso dell’anziana con la “malattia di cupido” (1.08), anche se nel libro era la paziente stessa che aveva correttamente ipotizzato la causa del proprio problema. Più incisiva avrei voluto che fosse stata anche la riflessione del paziente non in quanto deficitario, ma quando essere umano, che il libro riesce a fare meglio. Ce ne sono buoni echi però, così come ho appezzato il sottolineare l’importanza delle connessioni, del non rimanere soli, indicando esplicitamente i danni alla salute portati dall’isolamento.

Il protagonista è allo stesso tempo uno spirito ribelle ed un lupo solitario (Wolf dopotutto è “lupo” in inglese) e viene anche esplorata la sua backstory con flashback di quando era più giovane – il fatto che fosse un giovane ragazzo gay o che avesse un padre (Gray Powell) con  problemi di salute non meglio specificati ma apparentemente di natura psichiatrica e altro ancora non del tutto venuto a galla, come traspare presto (1.02) dalle labbra del capo dell’ospedale, che altri non è se non sua madre, Muriel Landon (Donna Murphy), con cui c’è un rapporto un po’ ruvido. Non manca un pizzico di umorismo. Vero fine stagione emerge poi di prepotenza la vicenda legata al padre Noah (Mandy Patinkin da anziano), a cui da adolescente (quando lo interpreta Ted Sutherland) e ancora prima da bambino (Jaden Waldman) Wolf era profondamente legato. In questo caso mi è parso un po’ soapy, ma non so quanto sia effettivamente realmente aderente alla realtà biografica dell’uomo a cui si ispira.

Questo procedurale ideato da Michael Grassi non è imperdibile, ma è tradizionale nel miglior senso del termine, solido, nonostante un titolo piuttosto blando, e con ampio margine di costruzione dei personaggi e delle relazioni. Negli Stati Uniti è ora in onda una seconda stagione. 

venerdì 10 ottobre 2025

DEPT. Q: atmosferico crime drama di prestigio

Tratta dalla serie di romanzi dello scrittore danese Jussi Adler-Olsen disponibili in italiano per Marsilio, Dept. Q - Sezione casi irrisolti (Netflix) è una di quelle serie giallo-poliziesche-thriller, ideata da Scott Frank (The Queen’s Gambit) e Chandni Lakhani, in cui gli inglesi eccellono.

Siamo ad Edimburgo, in Scozia. Protagonista principale è un detective della polizia, l’Ispettore Capo Carl Morck (Matthew Goode, A Discovery of Witches, Downton Abbey, The Good Wife), un uomo difficile e misantropo, una di quelle persone nella vita insopportabili e intrattabili perché arroganti, antisociali e tormentate, ma che almeno sullo schermo risultano affascinanti, anche se di fatto anche i suoi colleghi nella diegesi faticano a tollerarlo. È da poco rientrato al lavoro dopo una sparatoria in cui è morto un giovane agente di pattuglia e in cui il suo partner, pure suo amico James Hardy (Jamie Sives), è rimasto paralizzato – nell’abitazione di un uomo trovato accoltellato alla testa hanno subito un'imboscata da parte di un delinquente armato e mascherato di cui ancora non si è scoperta l’identità. Viene costretto con riluttanza a terapia psicologica con la dottoressa Rachel Irving (Kelly Macdonald, Boardwalk Empire) come sostegno per superare quello che ha passato.

Al comandante di Morck, Moira Jacobson (Kate Dickie), il governo scozzese, che vuol migliorare la propria immagine, offre un consistente budget per istituire un nuovo dipartimento per i crimini irrisolti, la Sezione Q. Non credendoci troppo e volendoselo togliere dai piedi, lo affida proprio a lui. Gli viene assegnato un ufficio/bagno mezzo fatiscente come ufficio e gli vengono affiancati il civile Akram Salim (Alexej Manvelov), un ex poliziotto siriano con un passato che preferisce tenere nascosto, in apparenza molto calmo e gentile ma che non si fa problemi con la violenza, e l'agente Investigativa Rose Dickinson (Leah Byrne) che ha un incidente nel suo passato che deve lasciarsi alle spalle e problemi di PTSD (disturbo post-traumatico da stress), e a lui si unisce anche il collega ora paraplegico.

Il primo caso che decidono di riaprire è quello della scomparsa di una procuratrice della Corona Britannica, Merritt Lingard (Chloe Pirrie), il cui capo è il Lord Procuratore Stephen Burns (Mark Bonnar). Prima di sparire quattro anni prima, la donna viveva con il fratello William (Tom Bulpett), un ragazzo con deficit cognitivi di cui si prendeva cura nella quotidianità come badante la governante Claire Marsh (Shirley Henderson). Vista l’ultima volta a bordo di un traghetto, prima di svanire Merritt aveva ricevuto minacce di morte anonime. Tutti la credono morta, ma è invece ancora viva  tenuta prigioniera in una camera iperbarica da rapitori di cui si scoprirà l’identità solo alla fine, costretta a fare un esame di coscienza per capire a chi abbia fatto torto e chi la stia tenendo in condizioni disumane. È stata una parte questa che ho trovato abbastanza disturbante. Non che obiettivamente si veda niente di particolarmente schioccante, ma la tortura quotidiana, anche psicologica, trasuda in modo molto coinvolgente. Che ci siano dietro problemi psichiatrici o meno, e qualunque ne sia il movente, è sempre destabilizzante assistere a persone che infliggono sofferenza ad altri, tanto più se avviene in modo prolungato.

Anche se il caso è affidato ad altri poi, Morck cerca di scoprire chi gli abbia sparato sebbene al termine di queste nove puntate della prima stagione non si arrivi ad una soluzione rispetto a quell’aspetto.  

“Interpretato con competenza dispeptica da Goode, Morck si colloca all'estremità benigna dello spettro dell'intrattabile. Pensa che tutti gli altri siano stupidi e non è molto in sintonia con i sentimenti altrui, ma non è afflitto da dipendenze come il Dr. House di Hugh Laurie, né prova particolare piacere nelle sue ostilità come il Jackson Lamb di Gary Oldman (inoltre, scoreggia meno). È un misto di tristezza, traumatizzazione e narcisismo più della figura ultra-intensa sull'orlo di un esaurimento nervoso che appare nella sigla d’apertura. Pur essendo permaloso e facilmente deluso, è disposto a fare da mentore quando intuisce il potenziale di Akram e Rose” ben scrive l’Hollywood Reporter. Divorziato con un figliastro adolescente a carico, Jasper (Aaron McVeigh), cerca di costruire un rapporto produttivo con questi. In alcuni momenti, con lui in particolare ma non solo, si intravedono degli sprazzi in cui la realtà altrui penetra nei suoi pensieri e Goode è magistrale nel far trasparire le infiltrazioni nella corazza, ben protetta da abbondanti dosi di sarcasmo. Il punto di forza del programma dopotutto sta non tanto nella procedura per risolvere il caso criminoso quanto nell’umanità dei personaggi coinvolti. È proprio per questa tensione introspettiva che anche la sorte della vittima risuona in modo così forte.

Fresh Air nella sua recensione fa un’osservazione a cui da sola non avrei pensato, ovvero che sebbene il mercuriale Carl sia presumibilmente la mente del gruppo, o quanto meno il leader, quasi tutte le scoperte utili vengono fatte dal suo team e come questo sia un tema molto nordico, “la superiorità dell’aver fiducia nel lavoro di squadra rispetto all'individualismo indisciplinato. Carl si considera l'uomo più intelligente in ogni stanza. Ma senza l'aiuto di coloro che lo circondano, è solo un'anima infelice con un'intelligenza da bruciare”.

Con un ritmo abbastanza lento e un mood tetro e atmosferico, Dept Q ti lascia teso fino all’ultimo e ben si merita l’etichetta di prestige crime drama.