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giovedì 25 gennaio 2024

THE CROWN: la sesta e ultima stagione

Si è chiusa come previsto, dopo la conclusione della sesta stagione, l’apprezzata The Crown, che ogni due stagioni ha cambiato l’attrice che ha dato il volto alla Regina Elisabetta. Mi ha molto convinta l’interpretazione di Imelda Staunton, professionista di grande spessore ed esperienza con al suo attivo anche una nomination all’Oscar, ma nota al grande pubblico soprattutto per la sua partecipazione ai film di Harry Potter. Ha incarnato una sovrana ormai matura, forte della propria esperienza, ma anche limitata dalle difficoltà derivanti da una società molto diversa da quella che era quando ha cominciato a regnare.

Pur considerando la recitazione al pari rispetto al passato, condivido l’impressione generale di un calo qualitativo della serie in confronto alle prime stagioni. Risulta legittimo domandarsi se questo declino sia dovuto al fatto che non conosciamo “direttamente” gli eventi storici e quindi attribuiamo maggiore realismo, verità, aderenza ai fatti, pregnanza a quello che ci è stato raccontato inizialmente, mentre lì dove abbiamo vissuto i momenti narrati abbiamo maggiori obiezioni e perplessità, se siamo più indulgenti insomma con eventi più cronologicamente distanti da noi, o se effettivamente ci sia stata minore capacità di analisi di fatti che, troppo freschi, non hanno la stessa obiettività e capacità critica, pregnanza storiografica potremmo dire, che un distacco temporale avrebbe reso più facile. Personalmente tendo alla seconda ipotesi, ma con un pizzichino anche della prima.

La sesta stagione si è costruita in due blocchi – che appropriatamente Netflix ha rilasciato in due momenti diversi: il primo il 26 novembre, il secondo il 14 dicembre 2023. Nella prima tranche il fulcro delle vicende è stata Lady Diana, la sua storia con Dodi Al-Fayed fino al tragico epilogo della morte insieme nel tunnel dell’Alma nel 1997. Anche chi avesse vissuto in semi-eremitaggio – come è stato sicuramente per me in quegli anni a causa della mia malattia - difficilmente non ha sentito più versioni e storie su quei fatti, compreso il possibile coinvolgimento (omicidio?) da parte della Corona, possibilità che qui viene esclusa in toto, e se di responsabilità si è parlato è solo di atteggiamento che ha allontanato la principessa e di disagio nei confronti di quel possibile legame sentimentale. C’è chi contesta la ricostruzione delle vicende (e io non sono in grado di valutare chi possa avere ragione), ma la narrazione pare plausibile, e quello che si ammira è la resa finzionale di moltissime immagini che sono impresse nella memoria collettiva. Penso in particolare al momento in cui lei si trova a Portofino seduta sul bordo di una passerella sullo yacht del padre di Dodi e indossa un costume da bagno intero color turchese, ma anche ad altro. Elizabeth Debicki, che per questo ruolo ha vinto nel 2024 il Golden Globe e il Critics Choice Television Award come miglior attrice non protagonista, oltre ad aver ricevuto una nomination all’Emmy, è stata eccellente nella parte ma è stata assistita da un “trucco e parrucco”, e in generale da una messa in scena sotto ogni profilo, che l’ha resa estremamente credibile.

Per chi avesse visto il film del 2006 The Queen, la cui sceneggiatura pure era di Peter Morgan, qui ideatore e sceneggiatore, i momenti successivi alla dipartita della “principessa del popolo” hanno avuto il sapore di qualcosa di già visto, per me sicuramente che ho trovato quegli specifici momenti meglio realizzati nella pellicola cinematografia, per l’attenzione che si è data alla reazione della Corona. La storia di Diana era alla fine anche qualcosa di cui la serie doveva liberarsi, e il prosieguo è stato più a tutto tondo e ha dato uno spaccato più variegato. C’è stata la Willymania (6.05) del timido principe William adorato dal pubblico; Blair, agli inizi più amato della regina e i tentativi si svecchiare la monarchia (6.06); l’introduzione effettiva di Kate come personaggio di rilievo (6.07) e l’indicazione che la sua conoscenza del primogenito di Carlo fosse più studiata (dalla madre di lei) che puramente casuale; gli infarti e l’ultimo periodo di vita della principessa Margaret (6.08), vulnerabile e indifesa; la morte della regina madre, i 50 anni del giubileo e ancora la storia d’amore fra William e Kate (6.08); le nozze di Carlo e Camilla, e qualche accenno ad Harry (6.09).

La scena finale è stata molto toccante: ha visto tutte e tre le interpreti della regina (quindi oltre a Imelda Staunton anche Olivia Colman e Claire Foy – entrambe vestite di nero, versioni di lei già morte, mentre lei è in bianco) una accanto all’altra (una e trina). La regnante donna più longeva della storia (più a lungo di lei ha regnato solo Luigi XIV) passa davanti alla visione di una bara, la sua, drappeggiata con lo Stendardo Reale (sopra ci sono la corona, lo scettro e la sfera, e un mazzo di fiori). Vede la sé stessa del 1945 (Viola Prettejohn), che indossa l'uniforme del Servizio Ausiliario dei Trasporti, che si congeda con il saluto militare. Poi appaiono appunto le altre due versioni di sé, e lei si incammina per la navata centrale della chiesa sulle note della cornamusa che suonano "Sleep, Dearie Sleep", che Elisabetta aveva scelto per il suo funerale, che proprio nelle ultime battute era stato da lei pianificato come richiesto. Si dirige verso la porta della chiesa da cui esce una intensa luce: un modo elegante di segnalare la sua dipartita.

The Crown è stata una serie davvero notevole perché ha saputo guardare sia nell’aspetto istituzionale che in quello umano delle persone che l’hanno incarnata, una realtà che sembra anacronistica ai moderni e ha impattato in modo concreto, almeno per me così è stato, il modo di interpretare i fatti reali. È riuscita a farlo in un modo che ha saputo ben calibrare il pubblico e il privato, le ragioni storiche a quelle quotidiane a contingenti, con un buon equilibrio fra serietà e frivolezza. Sarà un metro su cui altre fiction che dovessero affrontare queste tematiche verranno misurate. Questa è stata la sua forza e la sua legacy, il suo legato, la sua eredità spirituale. Per chi ama queste cose poi, The Guardian ha fatto una classifica di tutti 60 gli episodi di The Crown dal meno al più riuscito: qui.

lunedì 24 febbraio 2020

THE CROWN: la terza stagione


La terza stagione di The Crown si concentra sugli anni della Corona britannica fra il 1964 e il 1977.  Forse complice il fatto che dall’uscita della precedente sono passati molti mesi, ma il completo rinnovo del cast dei protagonisti, per invecchiarlo, è avvenuto in modo naturalissimo e privo di sforzo. Non solo il casting è stato quanto mai azzeccato e ci siano state molte dimostrazioni di bravura da parte di tutti, con interprestazioni molto sottili, è perfino incredibile quanto sembrino di fatto le stesse persone che abbiamo seguito in passato.

Nella prima puntata (3.01) si riflette da subito sull’invecchiamento: la regina guarda il nuovo francobollo con la sua effige, a confronto con quella passata. È una sovrana più matura questa, non più disorientata ma ormai sicura del suo ruolo, consapevole dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Olivia Colman che la interpreta ora (premio Oscar per La Favorita) è estremamente espressiva e anche meglio della sua predecessora riesce a trasmettere i mutevoli sentimenti che ribollono sotto la superficie del suo volto. Churchill muore, c’è un nuovo primo ministro, Harold Wilson (Jason Watkins, A Very English Scandal), con cui all’inizio c’è un atteggiamento di sospetto, poi sviluppatosi in stima reciproca. Il filtro dell’arte, di cui i reali non si intendono, ma di cui si preparano a presentare una mostra di capolavori appartenenti alla Casa Reale, dà una preziosa opportunità di lavorare in termini metaforici, anche in modo esplicito nella diegesi quando lo storico dell’arte curatore dell’esposizione dei capolavori si rivela essere da anni una spira segreta del KGB. Sotto una tela a volte si manifesta un precedente dipinto, un “pentimento”: qui si manifesta anche nei rapporti umani. La tensione fra ciò che si fa ed è pubblico e ciò che si vorrebbe fare ed è privato rimane uno dei capisaldi della narrazione.   

Magistrale in “Margaretologia” (3.02) il modo in cui è stato costruito un confronto, anche fra passato e presente, fra la Regina e la sorella, in parallelismi e dicotomie. Si sono esplorate personalità, responsabilità, sorti. Tanto è noiosa e affidabile Elisabeth, quanto è brillante e scapestrata Margaret (ora Helena Boham Carter). La prima avrebbe fatto a meno di regnare, la seconda avrebbe agognato farlo, ma il destino ha voluto diversamente. Nella puntata Margaret, partecipa, al posto della sorella, a una cena con il presidente americano Johnson, ed è un enorme successo, nonostante non si attenga al protocollo, ma anzi proprio per quello. L’evento sociale mascherava un importante e delicato obiettivo diplomatico, andato in questo modo a buon fine: il Regno Unito riesce così ad ottenere indispensabile sostegno economico dagli USA. Margaret vorrebbe un ruolo ufficiale maggiore, che le regole non le consentono. L’ingiustizia e il risentimento e l’invidia che nasce dalla situazione, il senso del potere e il peso dell’indole personale nella vita vengono esplorati con sceneggiatura e regia in sintonia e in sincrono perfetto, l’eco l’uno dell’altra. 

Non c’è membro della famiglia reale che non debba fare i conti con quello che la Storia ha imposto che fossero e lo scarto con le proprie aspirazioni. Elisabetta II si concede un viaggio in Francia e Stati Uniti per esaminare dei cavalli da corsa e per una breve parentesi assapora quella che poteva essere la vita che avrebbe voluto (“Colpo di Stato”, 3.05). In un altro momento si interroga sulla propria capacità di provare emozioni che razionalmente ritiene di dover provare: quando il crollo di una miniera ad “Aberfan” (3.03), nel Galles, uccide quasi 150 persone, la maggior parte dei quali bambini, la regina si rifiuta di presenziare alle esequie, mandando il marito. Accortasi dell’errore vi si reca per una visita, ma niente elicita la reazione che lei stessa si aspetta da sé: “Hai pianto?” chiede al marito, cercando forse una risposta comportamentale giusta a lei che si sente inadeguata.

Ha senso il suo ruolo? Alla fine lei è quella che, a detta della sorella (3.10), deve nascondere le crepe, per evitare che tutto crolli. Ma hanno senso in generale i loro ruoli come reali? Il principe Filippo (un impeccabile Tobias Menzies, Outlander), in una puntata in cui si riavvicina alla madre che lui voleva tenere lontana dai riflettori per paura di sfigurare (“Birbantello”, 3.04),  con un documentario cerca di dimostrare l’impegno e la rilevanza della casa reale, ottenendo l’effetto opposto. Matura una profonda crisi personale in occasione dell’allunaggio. Disprezza il religioso che gli offre un momento di riflessione spirituale insieme ad altri uomini di fede e che riconosce che nel guardare le imprese degli astronauti la gente ha avuto dalla televisione un “senso di unione, di comunità, di stupore, di meraviglia” che un tempo aveva dalla chiesa. Philip osteggia la loro riflessività; l’azione è per lui il senso della vita, il compiere imprese come quella di questi pionieri, le gesta eroiche: quando incontra però gli astronauti in un’udienza privata ne è deluso, è disilluso dalla prosaicità delle loro attività e dell’assenza di una risposta, di una tensione verso qualcosa di altro, di alto. E riconsidera la propria posizione. 

La solitudine del principe Carlo (Josh O’Connor), spedito in Galles tre mesi per imparare la lingua (“Tywysog Cymru”, 3.06), e osteggiato, mette in evidenza come il suo dovere è reprimere chi è. Si riconosce nel popolo gallese. “Nessuno vuole sentire la tua voce”, lo apostrofa senza sentimentalismi la madre. È qualcuno che è indispensabile e inutile allo stesso tempo, libero e prigioniero. (1.08) La stessa scelta di una ragazza, Camilla (Emerald Fennell), come gli onori della cronaca già ci hanno reso noto nel tempo, non è una scelta che possa essere lasciata solo alla propria volontà.

Scrive bene Alan Sepinwall su Rolling Stone quando riflette sul fatto che questa serie, anche più di altri racconti sull’aristocrazia britannica, corre il rischio perpetuo di sembrare un’apologia auto-indulgente di gente che di fatto è nata in circostanze splendide e non avrebbe nulla di cui lamentarsi. Peter Morgan però, l’ideatore, riesce nella difficile impresa di articolare in modo chiaro i fardelli della Corona, sia per chi la indossa che per le persone che le sono vicine, e di mostrare che forse il gioco non vale la candela, forse i soldi e i castelli di lusso non sono uno scambio equo di fronte quello a cui si rinuncia.

L’attualità ci propone la scelta di allontanamento del Principe Harry e della consorte Meghan Markle dalla vita pubblica della famiglia reale e, con quell’eco nella mente, queste storie di finzione risultano quanto mai attuali, e permettono di far capire come parlare di questi argomenti e di certe scelte non sia poi solo frivolo gossip, ma abbia un valore per la risonanza su quello che significano dal punto di vista politico e personale, sulla filosofia e la concezione della vita che incarnano.

Proprio a voler trovare un difetto nella serie si è forse perfino troppo espliciti nelle tematiche affrontate, ma non stona. Che ruolo abbiamo nella vita, che segno lasciamo, come siamo pubblicamente e come privatamente, sono pensieri, a diversi livelli, che toccano tutti. E la sontuosa terza stagione, cinematograficamente anche ricca di inquadrature eleganti, è stata decisamente appagante.  

sabato 10 dicembre 2016

THE CROWN: regale


Regale, sontuosa, elegante, precisa, misurata: può sicuramente vantarsi di essere tutto questo la serie di Netflix The Crown, ideata e scritta da Peter Morgan (The Queen e Frost/Nixon al cinema), incentrata sulla vita personale e politica della regina Elisabetta II d’Inghilterra ed erede ideale, come tipo di sensibilità, di Downton Abbey. La prima stagione di 10 episodi sarà seguita da una confermata seconda, ma il progetto totale è di 6 stagioni che dovrebbero ripercorrere in gran parte tutto il suo regno, con cambi di attori principali in corso di via (ogni due stagioni), presumibilmente per una questione di età degli interpreti. Si tratta di una delle serie più costose di sempre, spettacolosa in quanto a scenografie, costumi, cinematografia e valori produttivi in generale.

Si esordisce nel 1947 all’epoca delle nozze di Elisabetta (Claire Foy) con Filippo (Matt Smith, Doctor Who). A regnare è ancora il padre re Giorgio VI (Jared Harris, Mad Men) che morirà di lì a poco, alla Corona dopo l’abdicazione del fratello re Edward (Alex Jennings) che vi ha rinunciato per amore di Wallis Simpson (Lia Williams). La giovane regina, consigliata anche dal primo ministro Winston Churchill (John Lithgow), deve imparare a gestire la propria posizione, e con questo a ridefinire anche il proprio ruolo nei confronti dei propri familiari  - così come loro peraltro  dovranno fare con lei -, con il marito in primis, ma anche con la madre, la regina Mary (Eileen Atkins),  e con la sorella, la principessa Margaret (Vanessa Kirby), innamorata del colonnello Peter Townsend (Ben Miles).

Centrali nella costruzione della narrazione sono questioni di filosofia del diritto: da chi deriva il potere del sovrano, quali sono i suoi limiti, quali sono i rapporti fra la Corona e il Governo… Si insiste molto sul fatto che, nella concezione della monarchia britannica il potere rappresentativo della Corona viene da Dio: lo ricorda alla figlia la regina Mary (1.04), lo ribadiscono in occasione della solennissima cerimonia di incoronazione, mostrata in televisione, ma nascosta nel momento sacro dell’unzione (1.05), lo ripete Elisabetta bambina, in un flashback che la mostra impegnata a studiare diritto costituzionale (1.07). Indossare il diadema è un peso fisico, ma soprattutto metaforico, elemento enfatizzano anche nella diegesi, e il fardello che comporta è pure un concetto su cui si insiste molto: re Edward è disprezzato e ritenuto egoista per non aver voluto portarlo ed Elisabetta ritiene che lo zio avrebbe dovuto scusarsi con lei per averla messa nella posizione di farlo, così come Churchill la istruisce a non mostrare mai la fatica, ma a sorridere sempre di fronte al suo popolo (1.08). In campo c’è la difficile negoziazione del potere fra le istituzioni, ma anche e forse soprattutto l’equilibrio fra l’istituzione e la persona che la incarna (Elisabetta, Churchill), con un ventaglio di situazioni collegate, nell’intreccio fra vita pubblica e vita privata, che tenere separate comporta sacrifici continui.

Elisabetta non può andare a vivere dove vorrebbe così come non può scegliere il segretario personale che vorrebbe, il principe consorte non può volare o fare alcune manovre in volo senza il permesso del Governo (1.04), Churchill non accetta di vedersi fragile in un ritratto che gli viene regalato dal Parlamento per i suoi 80 anni perché nella sua immagine vede anche rappresentato l’esecutivo (1.09). Philip si sente minato nella sua mascolinità – una tematica che viene ripresa in più occasioni - e si lamenta che la moglie gli ha tolto la carriera, la casa, il nome (1.03); la sorella che vorrebbe sposarsi (1.06) deve rinunciare all’amore con il suo innamorato (1.10), inizialmente di fatto esiliato fuori dallo stato per due anni, perché il Gabinetto e la Chiesa non approvano; lo zio, escluso dalla cerimonia di incoronazione e ostracizzato di continuo per aver scelto l’amore, si esprime in più di un’occasione sulla crudeltà del sistema e dei suoi parenti; perfino la regina Mary si rammarica di come sia stata messa da parte proprio in un momento in cui avrebbe avuto più bisogno di sentirsi occupata, dopo la morte del marito (1.08).

Apparenza e sostanza viaggiano su due binari separati e per Philip è come il circo (1.08; 1.10). Quando intraprendono un lungo viaggio nei Paesi del Commonwealth, lui la vive come un equivalente di una tournee. La loro presenza è come dare una mano di vernice a una carretta arrugginita per dare l’impressione che vada tutto bene anche quando non è così. “È il nostro lavoro, è quello che siamo. La mano di vernice. Se i costumi sono abbastanza imponenti, se la tiara è abbastanza brillante, se i titoli sono abbastanza assurdi, la mitologia abbastanza incomprensibile, allora va ancora tutto bene”. Un valore su cui si insiste molto è quello dell’impassibilità e del silenzio, come modo per essere super partes e astenersi dal prendere posizione. La regina rappresenta tutti e come tale non deve mostrare la propria opinione. Non fare, non dire, restare neutrale: difficilissimo. Questa “freddezza” e questo riserbo sono condivisi dalla scrittura che sa utilizzare con molta finezza il non-detto, come è ben evidente dal pilot in cui re Giorgio capisce che deve morire presto da una seconda domanda al medico che non pone mai – quanto mi resta da vivere? - e che non ha bisogno di porre, o dalla realizzazione della morte del padre da parte di Elisabetta dal solo sguardo del marito (1.02).

Si tratta in fin dei conti di una sorta di Bildungsroman di una regina, con anche delle riflessioni su quello che è necessario per svolgere questo ruolo. Elisabetta, istruita nell’infanzia esclusivamente in diritto costituzionale ed esperta per il resto solo di cani e cavalli, capisce di non poter reggere una conversazione con i leader di stato che è chiamata a incontrare, si sente inadeguata, rimprovera la madre per averle impartito un’educazione insufficiente, assume un precettore. Sa solo l’essenziale, ma è un processo di apprendimento costante. La serie, si direbbe, crede nell’importanza di fare la differenza nel mondo, ma il modo in cui si fa questa differenza, a volte è inaspettato. Con impegno, una ragazzina che lo zio chiama Shirley Temple e la maggior parte di quelli che la circondano considerano mediocre, ma di cui Churchill vede la perspicacia e la potenzialità, riesce a condursi in modo esemplare. Una segretaria che legge a guarda ammirata il primo ministro, compara i propri risultati a quelli dello statista e si rammarica della differenza fra loro due, di fatto è morendo durante la grande nebbia londinese del 1952 (1.04) che fa la differenza.

La recitazione è di prim’ordine. Spiccano in particolare l’eccellente John Lithgow nel ruolo del residente al 10 di Downing Street, potente e in declino nello stesso momento, in parte motivato dall’ambizione in parte dal senso dell’onore e dell’impegno di dover guidare la giovane regina prima che su di lui cada il sipario; poi Claire Foy, fulcro di tutto quanto accade intorno a Buckingham Palace, in equilibrio fra innocenza e scaltrezza, fra volere e dovere, fra umanità e iconicità; e se non può non venire alla mente l’interpretazione al cinema di re Giorgio VI interpretato da Colin Firth ne Il Discorso del Re, Jared Harris non è sicuramente meno convincente. Vanessa Kirby, Matt Smith… tutti fanno davvero un lavoro eccellente.

In chiusura (1.10) si riprende in modo forte il tema conduttore di tutta la prima stagione. Ci sono due Elisabette, una in contrasto  con l’altra: la persona e la regina. La persona deve sopprimersi per il bene del regno. Non respira nemmeno, per usare le parole del fotografo che la immortala in un servizio nella season finale.  Il dovere ha la meglio sul resto (come sarà forzato destino per Margaret e Peter). Tutto questo perché, come ricorda la regina Mary alla figlia (1.02), “La Corona deve vincere. Deve vincere sempre”.