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mercoledì 26 gennaio 2022

SUCCESSION (s3) e THE MORNING SHOW (s2): qualche pensiero

Mi rendo conto che difficilmente riuscirò a scrivere su argomenti a cui vorrei poter dedicare più attenzione. Butto giù perciò due righe veloci, come traccia, su alcuni programmi che meriterebbero ben più approfondimento. Questa è un post dedicato a due serie drammatiche. A breve ne farò seguire uno su due commedie.

Succession – stagione tre: credo sia in assoluto uno dei migliori programmi in circolazione in questo momento e sta diventando una delle grandi serie di tutti i tempi. La terza stagione, forte anche di quello che ha costruito prima, è stata spettacolosa. Sono rimasta sbalordita ad ogni episodio. E che dialoghi! Da mozzare il fiato. Business, potere, lealtà in conflitto, rapporti familiari…questa creazione di Jesse Armstrong è sia complessa e sottile, quanto feroce e di impatto. Non fa prigionieri. Dolorosa e spietata. Disumana e senza cuore, in molti aspetti. Il sottofinale “Chiantishire” (3.08) ha uno dei cliffhanger più memorabili che si ricordino in tanto tempo. Eticamente mi sembra un po’ all’opposto di una delle altre grandi serie del momento, Ted Lasso e, tangenzialmente, trovo buffa la coincidenza che uno dei personaggi di maggior spicco di Succession, Ken Roy (un coinvolgente Jeremy Strong), abbia un nome speculare a uno dei personaggi più trascinanti di Ted Lasso, Roy Kent (Brett Goldstein). Qui ho parlato della seconda stagione di Succession, mentre della prima non ho mai parlato, pur avendola io indicata come una delle migliori dell’anno.


The Morning Show – seconda stagione: che scivolone. Cavalcando la questione del #metoo la prima stagione del programma, di cui avevo parlato qui, mi aveva convinta a sufficienza da continuare a seguirla. Il secondo ciclo di puntate, ambientate prima della pandemia, è sembrato senza direzione. L’improvvisa bisessualità di Bradley (Reese Witherspoon) è parsa un escamotage per coprire il vuoto di idee. Non basta assumere Julianna Margulies (nel ruolo di Laura Peterson), per brava e amata che sia, a far decollare un’intesa e una storia. Poi io sono attratta dal personaggio di Cory (un appassionato Billy Crudup, ruolo per il quale ha vinto l’Emmy nel 2020), ma questo giro mi è parso ridotto a fare il cagnolino scodinzolante dietro a Bradley, anche se alla luce della season finale mi è sembrato anche sensato. Vogliamo parlare della “trasferta” italiana di Mitch? Inguardabile. La sua amicizia con la documentarista italiana Paola Lambruschini (Valeria Golino) è stata pietosa: ero in imbarazzo per loro. Anche se devo ammettere che mi sono goduta da morire che a chiamare la produzione per verificare di Mitch (mi esprimo così per evitare spoiler della 2.08) sia stato dall’Italia Il Gazzettino di Mestre e non, per dire, Il Corriere della Sera o La Repubblica – certo, hanno chiamato per un commento senza verificare la notizia e chiedevano conferma, ma in ogni caso…mitico.   Tornando a Mitch, e sì che il suo personaggio poteva essere un buono spunto per parlare di cancel culture vs. cultura della responsabilità. Che delusione, e che cast sprecato. In chiusura mi hanno fatto sperare che possano in una terza stagione affrontare con criterio la pandemia. Quello che ho sinceramente apprezzato è un dialogo fra Bradley e Alex (Jennifer Aniston) in cui la prima dice alla seconda che le relazioni non devono essere “transactional”, una transazione commerciale in qualche maniera, paritaria al cento per cento in ciò che si dà e ciò che si riceve. È un’idea che condivido, ma che ho sentito poco e importante da approfondire. Non credo di non averla mai vista esplicitata in modo così diretto in una serie TV e penso che sia una gran cosa che sia stato fatto.  

martedì 5 maggio 2020

THE MORNING SHOW: una serie sul #metoo


The Morning Show (Apple TV+) è una serie che ci porta dietro le quinte di un fittizio programma di notizie mattutino, che è un incrocio, come è evidente dal titolo, fra i molto reali Good Morning America e The Today Show, e guardandolo è impossibile non pensare che sia ispirato almeno in parte alle vicende che hanno travolto il giornalista Matt Lauer, conduttore di quest’ultimo. 

A fare da padrona di casa di quello che è un amatissimo show per la fittizia UBA è Alex Levy (una Jennifer Aniston molto convincente nel ruolo). Quando Mitch Kessler (Steve Carell, anche lui efficacemente preso in prestito da ruoli precedentemente comici) viene accusato di cattiva condotta sessuale e perde il lavoro venendo epurato, si scoperchia una situazione spinosa. Fra le “prede” del conduttore c’è anche Hannah Shoenfeld (Guru Mbatha-Raw), una talentuosa collega che ha fatto carriera rapidamente. Le denunce di scorrettezza lasciano tutti scossi, compresa la produttrice Mia Jordan (Karen Pittman), che in passato aveva avuto una storia con lui. È un colpo anche per Alex, che, separata dal marito Jason (Jack Davenport), ha sempre avuto un rapporto molto stretto, anche amicale, con il co-conduttore. Tra l’altro viene a scoprire che intendono approfittare della situazione per sostituirla nel suo ruolo, cosa che avevano intenzione già di fare. Nonostante le resistenze iniziali di Charlie “Chip” Black (Mark Duplass), il produttore esecutivo, a sostituire Mitch a fianco di Alex in trasmissione è Bradley Jackson (una grintosa Reese Witherspoon), una reporter senza previa esperienza di questo tipo, molto diretta e impulsiva, voluta fortemente da Cory Ellison (Billy Crudup), un dirigente della rete che la vede come un’occasione per svecchiare il contenitore mattutino. Questo lascia scontento Daniel Henderson (Desean Terry) che contava di essere lui favorito ad ereditarne il ruolo. Il metereologo Yanko Flores (Néstor Carbonell) e l’assistente alla produzione Claire Canway (Bel Powley) hanno segretamente una storia, e alla luce dello scandalo si interrogano sulle ripercussioni sulle loro carriere se si venisse a scoprire.  

Tanti sono i temi che emergono nelle puntate: come gestire l’immagine di un programma e rilanciarlo dopo un momento di crisi; le concezioni sul ruolo del giornalismo e della televisione; le dinamiche all’interno di un network e le politiche aziendali in merito alla condotta dei propri impiegati; la cultura condivisa; l’apparenza versus la realtà; i sacrifici individuali; i rapporti personali dai confini non sempre così ben definiti; le connessioni umane che si creano nei luoghi di lavoro; il ruolo nel non detto nelle relazioni; l’inesperienza e la professionalità; il potere; la percezione sociale e l’opinione pubblica; l’equilibrio fra vita professionale e casalinga; la deontologia e l’etica; il silenzio e la condivisione; lo spazio delle donne nella realtà contemporanea; le modalità di costruzione delle narrative degli eventi; il peso degli aspetti economici e finanziari nelle scelte di ciascuno… Non c’è dubbio alcuno però su quale sia la tematica centrale sotto i riflettori: le molestie sessuali sul luogo di lavoro e il movimento #metoo.

Non sempre si ha l’impressione di trovarsi davanti a una serie rivelatoria e potente, con una scrittura nitida e graffiante, eppure in molti momenti lo è e quello che la fa comunque emergere, e fa capire che è meno ingenua di quanto non potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, è che semplicemente gli autori si rifiutano di semplificare la questione. La si seziona tenendo conto di tutti. C’è una condanna netta verso i comportamenti predatori, siano consapevoli o meno, perché sono distruttivi: la season finale (senza fare spoiler) rivela quanto possano esserlo. Si dice chiaramente che anche lì dove c’è apparentemente consenso, il fatto che una persona si trovi in una posizione di potere nei confronti di un’altra (per età, per esperienza, per fama, per ruolo) il consenso può essere viziato. Si mostra e si dice come le molestie si riflettano sull’immagine di sé, sul proprio lavoro, sulla propria vita, di come ci si possa sentire violati, spaventati, inermi, usati, di come si possa trovare difficoltoso dire no e difendersi, di come nel parlare si possa temere di venire definiti da quell’evento…

Questo non significa che le posizioni personali siano solo bianche o nere, ma in molte gradazioni di grigio. C’è spazio per la collega che vedeva un clima insalubre ma lo attribuiva al fatto che è sempre stato un mondo al maschile; c’è spazio per il pubblico che rimane deluso e non vuole credere alla colpevolezza del proprio beniamino; per l’affetto della collega che condanna il comportamento, ma vuole comunque bene alla persona; per gli egoistici interessi personali che fanno agire in un modo che a posteriori si rimpiange; nel clima culturale esistente c’è spazio per riconoscere, anche se non si condona, che qualcuno non si possa essere reso conto di abusare del proprio ruolo, credendosi corretto, ingenuamente magari ma in buona fede; per chi vuole veramente una relazione sul lavoro, ma ne teme le conseguenze e le invasioni di privacy; c’è perfino spazio per chi quegli abusi li ha subiti e apparentemente ne ha avuto dei benefici secondari… in tutto questo non si giustificano una cultura e quegli atteggiamenti che permettono abusi, ma si guarda all’umanità delle interazioni. C’è molto su cui riflettere in questa creazione di Jay Carson. Nelle sfumature, nelle sbavature dei margini, il programma dimostra la propria grandezza.  
 
    
In modo tangenziale, osservo anche un altro dato, una curiosità, più che altro. Ho visto la season finale, originariamente trasmessa poco prima di Natale 2019, nel marzo 2020, in piena crisi coronavirus. Quello che non ho potuto non notare, e che probabilmente mi sarebbe passato indifferente se avessi guardato l’ultima puntata in un altro momento, è che quando le protagoniste interrompono la regolare messa in onda per prendere la parola, la notizia che stavano trasmettendo riguardava la quarantena di una nave per un misterioso virus. Alle loro spalle si leggeva proprio a caratteri cubitali la scritta “quarantena”. Ha fatto uno strano effetto, anche proprio in prospettiva della rilevanza che si può o può non dare a un’informazione in uno specifico momento.  La produzione della seconda stagione della serie è stata peraltro interrotta causa COVID-19.