venerdì 17 ottobre 2014

ORANGE is the NEW BLACK: la vulnerabilità umana dietro le sbarre

 
In Orange is the New Black, ideata da Jenji Kohan (Weeds), e ispirata all’omonimo memoir di Piper Kerman,  Piper Chapman (Taylor Schilling) è una giovane professionista che deve mettere in pausa il suo lavoro e la sua relazione con il fidanzato Larry (Jason Biggs, American Pie), uno scrittore freelance, per scontare una pena di 15 mesi in un carcere federale per aver trasportato dieci anni prima una valigia piena di soldi per quella che all’epoca era la sua fidanzata, Alex Vause (Laura Prepon, That ‘70s Show), una spacciatrice internazionale di droga, che ritrova in prigione.
Il senso profondo della serie mi sembra potersi enucleare da un breve discorso che Piper rivolge a una ragazzina sulla sedia a rotelle, che insieme ad alcuni coetanei, è portata in visita al carcere per venire spaventata, in modo che serva da deterrente a comportamenti che li possano condurre lì. Nonostante altre detenute cerchino di fare del loro meglio, mostrando la mancanza di privacy e come facilmente potrebbero piegarle ai loro desideri sessuali, la ragazzina si mostra indifferente e superiore. Piper, nella puntata “Bora Bora Bora” (1.10), le dice:  
“Sono come te, Dina. Anch’io sono debole. Non riesco a vivere tutto questo senza qualcuno da toccare, senza qualcuno da amare. Che sia perché il sesso attutisce il dolore o perché sono un mostro cattivo in cerca di scopate, non lo so, ma quello che so è che ero qualcuno prima di venire qui. Ero qualcuno con una vita che avevo scelto per me stessa, e ora, ora si tratta solo di superare la giornata senza piangere, e ho paura. Ho ancora paura, ho paura di non essere me stessa qui dentro e ho paura di esserlo. Non sono le altre persone ad essere la parte che fa più paura del carcere, Dina, è il venire faccia a faccia con chi sei veramente, perché quando sei dietro queste mura non c’è nessun posto in cui correr via, anche se potessi correr via. La verità ti raggiunge qui dentro, Dina, ed è la verità che ti renderà la sua puttana”. (La traduzione è mia, per cui quella ufficiale italiana può bene essere lievemente diversa).
Penso davvero che in queste parole ci sia il senso profondo della serie: l’isolamento feroce a cui costringe il carcere, emozionale e fisico,  e la paura, non solo e non tanto per la durezza delle relazioni e della vita all’interno della struttura, ma perché è una situazione limite da vivere. Fa uscire il peggio e il meglio di te. Questo si vede di continuo, nel corso delle vicende, che seguono una struttura ad arco nella stagione, ma si concentrano anche spesso in puntate diverse su persone diverse. All’interno della diegesi, le donne non si conoscono a sufficienza da sapere le ragioni per cui sono finite dentro, ma le vediamo noi, attraverso flashback che ci spiegano che persone erano e perché han fatto quello che hanno fatto. E vediamo che cosa sono ora, così come vediamo come sta cambiando Piper, fino a un finale di stagione che colpisce davvero molto. Potente e memorabile. 
Si tratta di personaggi tridimensionali,  che siano dirigenti della struttura carceraria – il supervisore Sam (Michael J Harney), sposato con un ucraina, che inizialmente prende di buon occhio Piper; George “Pornstache – Pornobaffo” Mendez (Pablo Schreiber), secondino corrotto che abusa costantemente e viscidamente della sua posizione; John Bennet (Matt McGorry), guarda carceraria con una gamba artificiale che inizia una relazione segreta con una delle donne che deve vigilare; Jo Caputo (Nick Sandow); Natalie “Fig” Figueroa (Alisia Reiner);  Susan Fischer (Lauren Lapkus) - o altre detenute: c’è la russa Galina “Red” Reznikov (Kate Mulgrew, nota soprattutto per essere stata il capitano Cathryn Janeway in Star Trek: Voyager), che dirige la cucina; Suzanne “Crazy Eyes” Warren, che si infatua di Piper e la vorrebbe come sua moglie; Tiffany “Pennsatucky” Dogget (Taryn Manning), estremista religiosa con problemi di squilibrio mentale; Nicky Nichols (Natasha Lyonne) ex-tossicodipendente; Sophia Burset (Laverne Cox), una transgender (e l’attrice è stata la prima attrice trans a ricevere una nomination all’Emmy, con questo ruolo) che lavora come estetista e parrucchiera; Lorna Morello (Yael Stone), che guida il pulmino del carcere e sogna il suo matrimonio anche dopo che il fidanzato smette di venire a trovarla in carcere;  Tasha “Taystee” Jefferson (Danielle Brooks), che trova più facile la vita in carcere che fuori e lavora in biblioteca; Dayanara “Daya” Diaz (Dascha Polanco), una giovane ispanica, la cui madre pure si trova in carcere con lei, che comincia una relazione con una delle guardie carcerarie; Miss Claudette Pelage (Michelle Hurst), l’anziana compagna di cubicolo di Piper, che ha ucciso un molestatore di minorenni; Poussey Washingon (Samira Wiley); Carrie “Big Boo” Black (Lea DeLaria); Yoga Jones (Constance Shulman)…
Sembrano tante vite a cui appassionarsi, e sono tante, ma non ci si perde. Tutto è organico e naturale. Conosciamo varia umanità, costretta a interagire in un modo in cui altrimenti non sarebbe costretta a fare. E ci sono i gruppi: le bianche, le nere, le ispaniche… persone a cui non pestare i piedi, a cui devi favori, con cui sorgono scontri e rivalità… persone che cercano di mantenere la propria umanità, anche lì dove le circostanze a volte lo rendono arduo. La sigla (sotto), che mostra labbra, occhi, nasi e volti di vere carcerate, chiarisce l’intento realistico di ritrarre vite vere, donne di varie età, forme, dimensioni, estrazione, condizioni personali, come troppo poco spesso di vede in TV.
La serie si fa notare sotto tanti aspetti, anche per come tratta il sesso, o per il ruolo che assumono gli oggetti comuni, nelle vicende. Viene generalmente indicata come comedy, alle varie premiazioni, ma è più certamente un drama, al massimo un dramedy, o almeno così la leggo io. L’umorismo che c’è è sottile e velato. Allo stesso tempo “questa non è Oz”, come dice la guardia Sam a Piper nel loro primo incontro (1.01), con riferimento al carcere di massima sicurezza nella celeberrima serie TV carceraria firmata da Tom Fontana Oz, che alcuni critici televisivi all’epoca suggerivano di guardare con un secchio accanto in cui poter vomitare, all’occorrenza. Non è altrettanto cruda, insomma. Se dovessi scegliere una e una sola parola per indicare ciò che rappresenta e mostra, sceglierei “vulnerabilità”.     


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